Avatar, la meraviglia e il cinema che verrà
Quando nel 2009 Avatar di James Cameron vide la luce, eravamo in un altro mondo e in un altro cinema. Ad esempio, il Marvel Cinematic Universe era solo all’inizio del suo percorso, Barack Obama si era installato da poco alla Casa Bianca, raccogliendo un paese messo in ginocchio dalla crisi del 2008, mentre le piattaforme erano ancora una prospettiva piuttosto lontana. Il film di Cameron usciva – prodotto e distribuito dalla Fox – accompagnato da aspettative altissime, segnato da un destino già scritto: si diceva che avrebbe cambiato per sempre la storia del cinema, che avrebbe portato l’esperienza 3D a un livello mai visto, sdoganandola definitivamente, e che avrebbe costituito, dal punto di vista tecnologico, uno spartiacque.
Cameron era decisamente avvezzo a sfide di questo tipo: dalla scintillante CGI di Terminator 2 alla grandeur di Titanic, il regista americano non si è mai fatto intimorire dall’importanza della posta. A tredici anni di distanza possiamo dirlo, una parte delle aspettative riversate su Avatar si è rivelata esagerata, ma anche se la storia del cinema non l’ha stravolta, certamente vi è entrato a pieno titolo, essendo un film dalla portata teorica decisamente significativa. In quel periodo di transizione, tra la fine del primo decennio del nuovo millennio e l’inizio del secondo, il film di Cameron riusciva a mettere in scena la trasformazione della mediasfera e l’avvento di un mondo iperconnesso, nell’ambito di un racconto classico ma efficace, che si faceva anche portavoce di una serie di (urgenti allora, disperate oggi) istanze ecologiste. Non solo, Avatar riusciva a servirsi della tecnologia in un modo davvero innovativo, in qualche modo reinventando il concetto di spettacolo cinematografico, ricollegandolo allo stupore delle origini.
In questi tredici anni, come detto, il mondo è cambiato. Il cinema blockbuster made in USA è stato caratterizzato da una concentrazione assoluta sotto il marchio Disney, che è proprietaria dell’universo Marvel, del franchise di Star Wars e anche – avendo acquisito la Fox – della mitografia di Avatar. Intanto, pandemia e piattaforme stanno stravolgendo l’idea del cinema come esperienza collettiva in sala, rendendone imperscrutabile il destino. Cameron, malato di quella sfrontatezza che nella storia del cinema americano ha sempre prodotto opere bigger than life, torna sul pianeta Pandora, accompagnato da aspettative forse ancora più schiaccianti rispetto a tredici anni fa: Avatar – La via dell’acqua non è candidato a “cambiare” la storia del cinema, ma semplicemente a prolungarla. Un’industria agonizzante, che dalla pandemia in avanti non è più stata in grado di risollevarsi, attende il secondo capitolo della saga come si attende il messia, unico e forse ultimo elemento di salvezza che si spera capace di dare ossigeno a un settore che rischia di collassare definitivamente, perdendo per sempre la sua dimensione liturgica di rito collettivo.
I risultati del botteghino al momento sono incoraggianti, anche se forse non sufficienti. Chissà. Di sicuro Avatar – La via dell’acqua è esattamente il film di cui ora si sentiva il bisogno e lo è perché è un’opera meravigliosa nel senso più letterale, un’esperienza visiva che incanta, lascia spesso a bocca aperta ed emoziona in profondità. In altre parole, è davvero un film “da sala”, che deve vivere sul grande schermo e lì deve essere visto e che ridà sacralità al rito collettivo della visione condivisa, riportando, anche più del primo capitolo, il cinema a quel senso di stupore e di scoperta che lo ha caratterizzato sin dalle origini. A questo, si aggiunga il fatto che La via dell’acqua possiede alcune caratteristiche forti che sono in piena continuità con il primo film: ad esempio il classicismo cristallino del racconto, archetipico e lineare, che nonostante si nutra di cliché evita la banalità perché ravvivato continuamente dalla meraviglia visiva e perché corroborato da una fluidità narrativa prodigiosa, che ha il respiro enorme delle grandi narrazioni d’avventura.
La storia si prende tutto il tempo (192 minuti) per crescere con maestosità e si colloca circa dieci anni dopo i fatti raccontati nel primo film. Su Pandora, il pianeta dove tutto è connesso, continuano gli scontri tra gli uomini dell’RDA, organizzazione non governativa determinata a sfruttare le risorse del pianeta, e gli Omaticaya, una delle specie Na’vì, guidati dall’ex marine Jake Sully (Sam Worthington), che nel film precedente aveva rinunciato al suo corpo umano per entrare definitivamente nel suo avatar e nel mondo di Pandora. Ora Jake ha quattro figli, tre avuti con la principessa Neytiri (Zoe Saldaña) e una adottiva (Sigourney Weaver, che interpreta una ragazzina grazie agli strabilianti effetti visivi), misteriosamente partorita dall’avatar della dottoressa Grace, morta nel primo capitolo.
La via dell’acqua si prende quasi tutta la prima ora per farci riacclimatare su Pandora e restituirci le coordinate della storia, per poi prendere il volo. O meglio, per farci immergere nell’acqua. Perché se il primo film era soprattutto aria e volo, in questo secondo capitolo, come anticipato anche dal titolo, cambia l’elemento iconografico che definisce il blu della palette avatariana, che è l’acqua. Quando l’esercito americano, infatti, torna sul pianeta per sostenere l’azione dell’RDA e per uccidere il traditore, Jake e famiglia, per proteggere il clan dall’assalto degli “uomini del cielo”, sono costretti a scappare e a migrare dall’altra parte del pianeta, sull’arcipelago in cui vivono i Metkayina, un’altra popolazione indigena, guidata dal capo Tonowari (Cliff Curtis) e dalla moglie Ronal (Kate Winslet).
Per svelarci il meraviglioso mondo del nuovo clan di Pandora, la tecnologia viene messa al servizio di una complessità visiva davvero prodigiosa, al punto che la trama vera e propria per decine di minuti di fatto non progredisce, ma ci lascia letteralmente immersi nell’acqua insieme ai personaggi e in questa scintillante bellezza, che emoziona e commuove, anche perché permeata – e sembrerebbe un paradosso, trattandosi del racconto di una civiltà aliena – di un toccante umanesimo di fondo. Sì, perché, l’incontro tra le culture dei due differenti popoli Na’vì diventa una delicata celebrazione del meticciato, una potente riflessione sull’immigrazione e sulla multiculturalità e anche un canto spirituale che fa risuonare tutta la sublime bellezza della natura.
È qui che il film diventa meraviglia e incanto puro. Insieme ai protagonisti, conosciamo la cultura della gente Metkayina, i fondali dei loro mari e le sorprendenti creature che li popolano, come i balenotteri tulkun, specie marina di intelligenza superiore, cui gli uomini danno la caccia per estrarre l’Amrita, una secrezione del loro cervello che sarebbe in grado di arrestare l’invecchiamento del corpo umano.
È inoltre un film sulla famiglia, Avatar – La via dell’acqua, nel senso più progressista e meno conservatore che si possa immaginare. La famiglia come mescolanza di razze e di abitudini, come nucleo di affetti svincolato da legami biologici (è parte della famiglia, in fondo, anche Spider, ragazzino umano che però si sente più legato ai Na’vì che al suo vero padre), come rito collettivo di ascolto, fatica e confronto.
Infine, impossibile non leggere il film come una fiaba potente sull’immigrazione e sull’accoglienza: i Sully arrivano via mare e si affidano letteralmente al clan dei Metkayina, affrontano tutti i problemi dell’integrazione e la diffidenza verso il “diverso”, scoprendo e vivendo, però, la legge universale della solidarietà.
Come in tutte le grandi narrazioni epiche, non manca un cattivo tutt’altro che banale, il colonnello Quaritch (Stephen Lang), che ha fatto trasferire ricordi e coscienza nel corpo di un Avatar Na’vì prima di morire e adesso torna su Pandor per guidare la spedizione che ha il compito di uccidere Jake. Anche Quaritch è sfaccettato, attraversato da contrasti classici, archetipico e strutturato. La sua ossessione e la sua progressiva dimestichezza con il corpo Na’vì preparano uno scontro finale grandioso, che occupa grossomodo l’ultima ora di film, e che è un esercizio di regia eccelso. Tra rimandi al suo Titanic e un felice citazionismo che cuce brandelli di immaginario che vanno da Apocalypse Now a Jules Verne fino al mondo di Star Wars, James Cameron sigilla con una battaglia memorabile un film poderoso, epico e immaginifico. Lo scontro violento nell’acqua dei mari di Pandora è un crescendo di tensione che toglie il respiro, pennellati con grazia e chiarezza espositiva e un senso del ritmo perfetti. Difficile chiedere di più: ora che abbiamo un capolavoro, facciamo il nostro e riempiamo le sale.