Che cosa è il postfotografico?

7 Agosto 2024

Quando è nato il postfotografico? Con la rivoluzione digitale dei primi anni Novanta o nei primi anni Duemila, quando una fotocamera è stata installata su un cellulare? Possiamo pensare a una fine della postfotografia coincidente con l’impiego dell’intelligenza artificiale nell’image making del primo decennio degli anni Duemila? Che cosa può registrare del reale una fotografia e in che modo il postfotografico apre alla lettura di onde non leggibili ad occhio nudo? Che ruolo ha l’estetico in questo discorso? 

Sono queste alcune tra le innumerevoli domande che affiorano durante la lettura di Il postfotografico. Dal selfie alla fotogrammetria digitale, a cura di Barbara Grespi e Federica Villa (Einaudi, 2024).

Nel libro, composto da quindici saggi, il postfotografico è inteso come una estensione della postfotografia, trasformatasi nella transizione verso l’era virtuale e algoritmica. Di esso identificano tre fasi: 1) la messa in commercio di Photoshop nel 1992; 2) la pubblicazione di La furia delle immagini di Fontcuberta nel 2016; 3) la relazione tra intelligenza artificiale e fotografia. 

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Alper Yesiltas, ritratto di Janis Joplin per la serie As if Nothing Happened, 2022.

Mentre la fotografia salda l’atto di sguardo e l’atto del fare immagine, la postfotografia li disgiunge. Il dispositivo postfotografico non produce scatti ma, come scrivono Maria Giulia Dondero e Barbara Grespi, “flussi di dati in libero scorrimento fra gli schermi e in continua riconfigurazione”. L’immagine algoritmica, forma simbolica del postumanesimo (Hoezl e Marie), snatura la relazione privilegiata della fotografia con l’ottica. La lente sta diventando sempre meno centrale nel processo fotografico e progetti come This Person Does Not Exist di Philip Wang – pagina web in cui cliccando l’utente genera l’immagine plausibile di una persona mai esistita – rendono più radicale la disgiunzione dell’icona dall’indice.

È Ruggero Eugeni a definire nel libro l’algoritmo come una procedura computazionale, descrivendone i due più importanti storicamente: quello radicato nelle ricerche di Alan Turing e John von Neumann, e quello presente nelle ricerche di Norbert Wiener e Warren McCulloch, da cui derivano reti neurali artificiali e machine learning. La relazione tra algoritmi e fotografia, che risale all’inizio degli anni Sessanta del XX secolo, porta Eugeni a introdurre quattro grandi famiglie di elaborazione computazionale dell’immagine tra loro strettamente interconnesse: di ottimizzazione dell’immagine fotografica (o digital image processing enhancement); di fusione di immagini differenti in un dataset coerente; di riconoscimento (per metadatare l’immagine); di generazione. L’algoritmo sposta “il baricentro del processo dalla continuità del passaggio produzione-visione dell’immagine fotografica alla nuova fase intermedia”, in cui ci si muove oltre la luce visibile, in un mondo di scambio di immagini tra macchine (dove la presenza umana non è più indispensabile). In questo contesto l’immagine computazionale è strumento per il trattamento automatizzato di dati.

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Claudio Riccio, deepfake delle esequie di Silvio Berlusconi in Piazza Duomo a Milano, aprile 2023

Ma il postfotografico non ci porta oltre il visibile umano solo tramite l’algoritmo. Nel saggio Spettri, Lorenzo Donghi ci porta a interrogare la visione umana, perché a occhio nudo (e quindi anche in fotografia) vediamo solo un certo tipo di luce, che definiamo appunto visibile. James Clerk Maxwell nel XIX secolo aveva stabilito che la luce visibile corrisponde solo a una piccola sezione di un più ampio spettro continuo di radiazione: lo spettro elettromagnetico, nel quale l’energia viaggia nello spazio sotto forma di onde. Sappiamo che la fotografia non è specchio del reale per tante ragioni diverse, ma nonostante ciò siamo soliti associare alla fotografia la capacità di registrare un accadimento reale. Ma se la fotografia registra solo una porzione del reale, cioè quella pseudovisibile, che cosa accade in tutto il resto del campo? Le onde inavvertibili per l’occhio umano sono quelle dei raggi X e Gamma, la radiazione ultravioletta, le radiazioni infrarosse, le microonde e le onde radio. Gli attuali studi visuali e la postfotografia abbracciano tecniche di imaging, tecnologie in grado di mettere in forma visiva ciò che a occhio nudo non vediamo. Da un lato questo ci consente di “venire a patti con un invisibile che ci era precluso”, dall’altro apre il discorso a questioni, come nelle contemporanee termocamere digitali Flir, in cui la visualizzazione termica è integrata con dettagli di una camera ottica, facilitando la comprensione di ciò che stiamo guardando, ma non risolvendo questioni come l’arbitrarietà dei colori associati a temperature differenti, problema sollevato nell’opera di Richard Mosse e Antoine d’Agata.

Elio Grazioli chiude la sezione dedicata alle Ontologie interrogandosi sulla complessa relazione tra arte e fotografia; ipotizza una sorta di postphotographic turn e apre la concezione del fotografico a un campo allargato, prende in esame la limitatezza della strumentazione analitica dei cinque sensi per comprendere il virtuale e l’immersivo. Al centro del suo excursus pone la preoccupazione estetica, incorporando nel postfotografico e oltre le ricerche di quegli artisti che sfondano la dimensione del fotografico elaborando questa azione artisticamente. Secondo Grazioli siamo immersi in un’espansione temporale e sensoriale e, al di là della normatività funzionale della teoria, l’estetico è una parte importante dei cambi attualmente in atto. 

Nella sezione centrale del libro, Genealogie prende in esame l’archeologia del postfotografico, nello specifico quella che guarda a tecnologie sviluppatesi nella seconda metà dell’Ottocento per mostrare legami sottaciuti e momenti storici cruciali, a cui è legato il nuovo stadio del visibile espresso dal medium postfotografico. 

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Le computers di Harvard in piedi davanti all'edificio C dell'Osservatorio dell'Harvard College, 13 maggio 1913

Barbara Grespi in Foto(gram)metrie analizza il modo in cui, nell’Osservatorio di Harvard, la fotografia sia stata usata come strumento di rappresentazione e tecnica di misurazione. È da questo luogo specifico che l’autrice ricostruisce la storia della fotometria e della spettrometria, non trascurando il contributo delle donne calcolatrici, le computers. Alla luce di queste prime analisi riposiziona l’imaging astronomico contemporaneo, il point clouds e il Lidar in linea conseguente alle scoperte ottocentesche.

È ancora Grespi, nel saggio Gesti, a prendere in considerazione l’archeologia gestuale del fotografico, rievocando il concetto di epitesi in Vilém Flusser, con cui egli intende rovesciare il concetto di protesi: lo smartphone non è protesi della nostra mano, bensì la mano è una estensione dello smartphone verso l’interno, la sua internalizzazione. L’argomentazione ripiega su un parallelo tra atto fotografico e le armi, rievocando alcune emblematiche tecnologie ottocentesche: il revolver fotografico di PierreJules César Janssen, il fucile fotografico di ÉtienneJules Marey e la camera obscura indossabile come un casco di Robert Hooke. I gesti fotografici sono una tensione al controllo e al dominio? Parrebbe confermarlo anche il revolver fotografico di Thompson, il cui design imitava quello di una pistola, “per «sparare» a interruzione quattro immagini”. A questo modello brevettato senza successo fece seguito il Pistolgraph, con cui Thomas Skaife annunciò il nuovo genere fotografico della pistolgrafia. Forse una delle modifiche gestuali più contemporanee con il fotografico è il fatto che talvolta le indossiamo? O che la violenza intrinseca in questo gesto di appropriazione si sia estesa su scala globale e che influenzi la concezione di noi stessi mediata da una camera?

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Thomas Skaife, Pistolgraph Camera, 1858.

Come scrive Federica Villa, nel regime postfotografico, il tempo dell’evento del dispositivo e quello dell’immagine fotografica, o con la sua esistenza ipotizzabile, diventano tutt’uno. Insieme alla smaterializzazione accelerata di immagini e autori la postfotografia ci ha posto di fronte alla dissoluzione delle nozioni di originalità e proprietà, di verità e di memoria.

Uno dei cambiamenti più radicali che sono emersi da questo passaggio, e dalle evoluzioni tecniche legate agli smartphone, è la convivenza del dispositivo fotografico con altri sensori. Cioè, se da un lato il postfotografico sembra perdere un legame con il reale, questo viene recuperato attraverso App di tracciamento dati che ci consentono di misurare e misurarci. Un esempio banale? La App Salute o un contapassi, attraverso cui ciascuno di noi fa selftracking delle proprie abitudini comportamentali, magari per migliorare il proprio stato di salute. Accettare questo tracciamento (per il miglioramento di sé) da un lato ci rende mansueti a un regime di sorveglianza che ci autoimponiamo, dall’altro apre alla connessione con il reale non tramite una macchina fotografica ma attraverso altre App. La misurazione collettiva della vita apre a quella che Btihaj Ajana chiama “colonizzazione metrica della vita stessa”. Monitorare la nostra vita (passi, calorie, spostamenti) ci incanala in un processo di autoprogettazione in progress attraverso un’auto-sorveglianza, di cui però condividiamo i dati con terzi. La datafication del quotidiano, la probabilità legata a nostre scelte future è una ricaduta verso un avvenire che non è più imprevedibile, bensì predisposto e disegnato. Coglie bene questo passaggio Rosa Cinelli nel suo saggio Fake, quando scrive che “oggi i fakes prevedono gli eventi battendoli addirittura sul tempo, con un processo anticipatorio che Richard Grusin ha definito «premediazione»”. Un esempio del modo in cui il fake interferisce con la nostra vita e le nostre opinioni è proprio la disinformazione che ha visto un acuirsi progressivo con la presidenza Trump, di cui il «Russiagate» è stato un esempio emblematico e che sicuramente ha influenzato una massa enorme di utenti nel non credere che quello ai danni di Trump fosse un vero attentato piuttosto che una messa in scena.

In conclusione, se da un lato questo libro inquadra le pratiche del post-fotografico, dall’altro mantiene un cordone ombelicale con il fotografico che non vuole recidere, ma che anzi rinforza tramite l’archeologia mediale, anche quando lo porta a sbattere contro la Net Media Art alla ricerca di una fuoriuscita di ossigeno che lo mantenga in vita.

Il postfotografico è ancora fotografia? C’è chi, come Andrew Dewdney in Dimenticare la fotografia (Postmedia Books, 2023) sostiene la necessità di abbandonare il paradigma fotografico – che viene mantenuto nel concetto stesso di postfotografico – per vivere appieno i cambiamenti costanti che il mondo della network image vive, ma anche per non sottovalutare le implicazioni politiche e patrimoniali per cui istituzioni museali, cultura accademica e pratiche curatoriali abbracciano la digitalizzazione di un paradigma fotografico superato, attualmente arruolato a pieno regime dal capitalismo più evoluto. Postfotografia e postfotografico in fondo parlano di ciò che viene (o verrà) dopo la fotografia senza mai abbandonarla. Perché?

La pubblicazione, insomma, è interessante e piena di spunti. Unico neo è che si presenta nel panorama editoriale italiano come inquadramento teorico del postfotografico senza fare riferimento ad artisti, curatori e critici italiani, che si sono occupati espressamente di questi argomenti e che li indagano da almeno quindici anni: penso per esempio alle ricerche di Irene Fenara, Discipula, IOCOSE, Alessandro Sambini, The Cool Couple, Paolo Cirio, Emilio Vavarella, e molti altri. Qui si rinnova l’interrogazione di Elio Grazioli nel volume in merito all’estetico, ma trasuda anche un approccio esterofilo che per quanto aiuti a inquadrare con chiarezza le questioni teoriche, lascia ai margini il lavoro di artistə che meriterebbero di essere approfonditi, istituzionalizzati e, perché no, teorizzati nel mondo accademico. 

In copertina, Grayson Cooke, Invalid Data, Darwin 01/27/2018, 2019.

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