Ciak, mi sposo
In questo strano, pazzo mondo ci si può aspettare di vedere il pronao secolare del Duomo di Erice trasformato in un set di moda. È tardo pomeriggio e lo shooting deve essere finito perché la troupe, messa insieme col manuale Cencelli del politically correct (una modella asiatica, un modello afro-qualcosa, una caucasica dolicocefala e bionda…) mangia cibo di plastica in vaschette di plastica appoggiate alle venerabili pietre della Real Chiesa Madrice Insigne Collegiata.
Fotografi e tecnici dall’accento californiano stipano cavalletti, macchine fotografiche, ombrelli e sfondi nei bauli delle auto, non senza aver posato prima per la foto di gruppo con lo sfondo della torre che già tante ne ha viste dai tempi di Cartagine. Infine sgommano verso un sofisticato e internazionale altrove, lasciando il campo libero alle misere fotocamere dei nostri cellulari da turisti. Crediamo di aver visto tutto, di aver pagato la nostra tassa al “mondo moderno dei consumi e della comunicazione” e invece non abbiamo ancora visto nulla.
Da dietro il campanile spuntano dei tizi vestiti di nero, in giacca e cravatta nonostante la calura estiva. Si spostano velocemente da un capo all’altro dello spiazzo antistante il duomo, con fare scattante, comunicando fra loro, e con chissà chi altro, tramite qualcosa che potrebbe essere un antico walkie talkie. Dopo il fashion shooting siamo forse ora nel bel mezzo di una ripresa cinematografica? Dobbiamo aspettarci che Tom Cruise in persona arpioni gli stucchi neogotici per portarsi acrobaticamente da una cappella all’altra dell’edificio, già abbastanza tartassato da crolli e ricostruzioni?
Arrivano altre persone, stavolta estratte da un b-movie ispirato a Il grande Gatsby: signore in abiti da sera sgargianti e tacchi che mal si addicono al manto stradale in pietra, uomini che sudano copiosamente in giacche della domenica, bambini infiocchettati, anziani sorretti dopo evidenti fatiche. Ma non è Daisy Buchanan ad apparire sullo sfondo cobalto del cielo, nemmeno nella versione un po’ stralunata di Buz Luhrmann, bensì una giovane sposa locale con tanto di neo marito al fianco, che le regge ora il bouquet, ora lo strascico, perché la vera star, è ovvio, in tutto questo è lei.
Le “maestranze” (fotografi? wedding planner? guardie del corpo? semplici imbucati alla festa di matrimonio, come nella miglior tradizione?) si urlano qualcosa da un punto all’altro della piazza, come se stessero sventando un attentato, tanto più che un drone ci sorvola da qualche minuto inquadrandoci tutti, invitati e malcapitati, con l’equanimità del suo occhio robotico. Per fortuna abbiamo messo a fuoco correttamente la situazione e nessuno si allarma: si tratta evidentemente di un altro, più concitato, shooting fotografico, stavolta in occasione di un matrimonio di gente comune.
Esattamente dieci anni fa ho riflettuto sull’evoluzione delle foto di matrimonio in Italia dall’inizio degli anni Sessanta all’avvento del digitale (Foto di matrimonio e altri saggi, Bompiani, 2012). Era parso evidente, allora, che si era gradualmente passati da una foto etnologica, finalizzata a immortalare l’evento-nozze per i discendenti, a una foto sempre più ispirata al teatro, al cinema, ai matrimoni dei personaggi del jet set.
Dal documento senza orpelli, in bianco e nero, con gruppi di parenti in posa davanti all’obiettivo e seri come a un funerale, si era scivolati dalla fine degli anni Settanta, e sempre più velocemente negli Ottanta, verso foto analogiche a colori, che ritraevano spose vestite come Rossella O’Hara e attorniate da parenti ridanciani. Ma, con l’avvento del digitale e dei social, anche tutto questo è diventato remoto passato. In particolare, per quanto riguarda i reportages matrimoniali, si è creato un paradossale abisso fra la foto scattabile da chiunque in qualunque momento, e la foto iper specializzata, professionale, a volte con genuine valenze estetiche (qui).
Il reportage professionale comporta costi elevati e soddisfa il desiderio di esibire il proprio matrimonio come un evento social, straordinario, “aspirazionale”, come dicono i pubblicitari. Anche la televisione ha contribuito non poco all’estremizzazione di questa cultura del matrimonio-spettacolo. Forse il più famoso dei wedding planner italiani, Enzo Miccio, si è costruito negli anni anche come personaggio televisivo, passando disinvoltamente dal cadeau mariage (o bomboniera, per gli incolti) alle larve da divorare vive in Pechino Express, il noto adventure show dalle prove a volte estreme.
In attesa di essere scoperto da Quentin Tarantino, questo dandy vagamente mefistofelico conduce anche Diario di un wedding planner, trasmesso da Real Time, in cui si può seguire nel minimo dettaglio la preparazione assai complessa di matrimoni per le classi abbienti, anche omo genere. Lampadari di cristallo ovunque, abbinamento dei colori dai tovaglioli alla biancheria intima delle damigelle d’onore, fuochi d’artificio, location patrizie, e non importa se tutti i partecipanti, sposi compresi, hanno l’aria spaesata di comparse cui non hanno passato prima il copione del film. Anche cose strampalate vengono legittimate entro la cornice di una studiata opulenza: la coppia è attempata e non ha figli? Niente paura: lui può andare incontro alla sposa portando la guinzaglio il loro Cavalier King Charles Spaniel debitamente ornato di tulle.
Più inquietante è un altro programma famoso dedicato ai matrimoni su Real Time, Il castello delle cerimonie, in onda dal 2014. Qui è l’ambientazione a costituire la costante poiché si tratta del Grand Hotel La Sonrisa di Sant’Antonio Abate, gestito da Donna Imma Polese con il marito, un edificio a metà strada fra il castello di Cenerentola e la tristemente famosa Neverland di Michael Jackson. Non è possibile liquidare questo format in poche parole poiché si tratta di una surreale americanata in salsa partenopea, in cui persone appartenenti a classi sociali popolari vengono immesse per una giornata in una sorta di Disneyland matrimoniale in cui l’unica cosa reale sono le pantagrueliche portate di cibo e le fauci dentro cui gli invitati le fanno sparire.
Quando tutti sono esausti e le signore hanno tolto le scarpe nascondendole sotto i divanetti di broccato d’oro, c’è il momento sentimental: finalmente si piange ascoltando il/la cantante neomelodico/a ingaggiato/a per la festa, e viene il dubbio che Donna Imma (della quale anche il salvagente in piscina è griffato Versace) abbia meditato sul celebre motto proustiano “detestate la cattiva musica ma non disprezzatela”.
I format televisivi che sfruttano il tema del matrimonio, con i suoi annessi e connessi, sono molteplici e quasi tutti di origine statunitense (Quattro matrimoni in Italia, Matrimonio a tutti i costi, Chi vuol sposare mia mamma, Matrimonio a prima vista, Non ditelo alla sposa, Abito da sposa cercasi, ecc.). Appartengono a generi diversi, si rivolgono a pubblici diversi, e tuttavia hanno in comune l’idea del matrimonio come avvenimento che si colloca fuori dall’ordinarietà di una vita e quindi anche di una estetica quotidiana.
Ma quando si abbandonano gli habitus della propria classe socioculturale di appartenenza, il terreno si fa scivoloso: che cosa sia opportuno, che cosa sia di buon gusto, che cosa ci distingua dagli altri, non è chiaro. Meglio quindi affidarsi all’esperto, che a volte spunta dall’elettrodomestico televisivo, ma sempre più spesso da internet, su una miriade di siti dedicati all’organizzazione del matrimonio come evento ma soprattutto come traccia mediatica da far circolare a posteriori sotto forma di foto e filmati.
Un altro esempio di sfruttamento intensivo, scopo matrimonio, dei luoghi “romantici” (qualsiasi cosa questo aggettivo voglia ormai dire) lo abbiamo avuto qualche giorno dopo alla tonnara di Bonagia. Di nuovo X Men in giacca nera che si muovono convulsamente stavolta fra barche da diporto e tavolini apparecchiati per le “apericene”. Arriva la sposa, una ragazza manifesto del body power che per fortuna sua, e di tutti, non deve aver mai subito il cosiddetto body shaming e pertando, volendo, potrà rivendere a metratura il pizzo del suo abito da sposa su ebay.
Di nuovo c’è un’attenta regia del comportamento degli sposi: un tizio di quelli che non ammettono repliche dice loro come si devono atteggiare secondo una serie di pose così standardizzate da far sembrare, al confronto, del tutto spontanee le pose sceniche tratte dalle Lezioni di declamazione di Antonio Morrocchesi all’inizio del diciannovesimo secolo. Sarebbe interessante indagare da quali repertori questi registi di matrimoni attingano una tassonomia così precisa: lei che guarda il sole calante, lui che si inginocchia davanti a lei, lo sposo dietro la sposa mentre le cinge la vita con un braccio, il bacio alla Hayez ma con attenzione a non scomporre la superfetazione di fiori, spille, brillantini dell’acconciatura dell’amata. E così via. In tutto questo gli sposi dimenticano di essere nel loro “giorno più bello della vita” e lavorano duramente, a paga sindacale (si fa per dire) come attori su un set.
Nessuna spontaneità è ammessa, la gioia vera, se c’è, va accantonata a favore di languori più fotogenici. Poi, mentre il sole si abbassa sull’orizzonte in modo nonostante tutto incantevole, scatta un riallineamento quasi militare delle truppe: guai a perdere l’attimo! Sposa e sposo devono essere pronti, come l’obiettivo settato sul controluce, per il bacio nel momento esatto in cui l’astro toccherà la linea del mare. Click, è fatta, ed è un sollievo per tutti, perché per forza doveva essere buona la prima. Enzo Miccio ed epigoni possono tanto ma non riescono ancora a fermare il corso degli astri.
Infine, il finale a sorpresa (per noi): arriva l’immancabile drone e la sposa lo guarda con un affetto maggiore rispetto a quello riservato al neo marito. Il drone la sorvola come un amoroso trasformato in insetto dall’ira di Zeus e lei, in un impeto di passione, invece di trasformarsi in Nereide (come il luogo autorizza a prevedere), gli lancia il bouquet. Superato lo stupore, torniamo a una riflessione semiotica: questo gesto apparentemente insensato è invece vòlto alla creazione di un testo che ha un preciso Lettore Modello. Noi presenti vediamo una scena assurda ma chiunque guarderà il filmato vedrà invece una bella ragazza vestita di bianco che lancia verso di lui/lei il suo bouquet, amorevolmente e potenzialmente per i cent’anni a venire.
Questa breve etnografia di reportages di matrimonio stride ovviamente con i dati relativi alla durata dei matrimoni in Italia, alla denatalizzazione, al fatto che ormai in molte zone del Paese i single sono più delle coppie. È evidente, e ce lo dice la fredda statistica, che dietro tutta questa enfasi attorno alla cerimonia matrimoniale non c’è il valore della famiglia che anzi, in Italia più che in altri paesi europei, sembra essersi progressivamente appannato.
E quindi a che cosa obbediscono questi giovani sposi (e le loro famiglie) nel momento in cui sborsano cifre considerevoli per avere un reportage del proprio matrimonio destinato oltre tutto a essere così simile al reportage di matrimonio di tanti altri? È così difficile oggi parlare di sentimenti per le persone, di progetti per la propria vita, da rendere più semplice far immortalare la posa scenica della felicità dall’obiettivo di un drone?