Como. Il muro sul lungolago
Un giorno di settembre del 2009, Innocente Proverbio (cosa sono certi nomi e cognomi?), pensionato a passeggio col cane, si affaccia ad una delle feritoie poste sulle transenne che separano il cantiere delle paratie dal lungolago di Como. Quanto gli appare ha dell’incredibile. A poca distanza dall’acqua c’è un muro, alto circa due metri, che oscura la diga foranea e gran parte della passeggiata, il Lungolario Trento. Il lago non c’è più. Il pensionato telefona al giornale La Provincia e il “caso” esplode. Solo allora – ma come? – tutti scoprono che nel punto nevralgico del turismo lariano, là dove Como allestisce la rappresentazione di se stessa attraverso la scenografia che ha consegnato a libri, film, serial televisivi, riviste, è stata costruita una barriera di cemento armato per contenere le piene del lago che hanno inondato l’adiacente piazza Cavour 17 volte dal 1845 (non sembrerebbero molte). Finalmente consapevole, la cittadinanza si solleva compatta contro l’incomprensibile mostro. La Provincia si mette alla testa del movimento di protesta, facendo leva su un’imponente raccolta di firme. Il principale bersaglio è il sindaco Stefano Bruni, pidiellino e ciellino, rieletto nel 2007 col 60% dei voti, che si difende dapprima negando tutto e poi cercando di ribadire che lui e l’assessore alle Grandi Opere, Fulvio Caradonna, hanno agito per l’interesse comune: “Abbiamo pensato a creare una struttura che fosse bella, perché il bello è importante per la città e per i cittadini. Questa è sempre stata la linea dell’amministrazione. Speriamo che la stampa comunichi questa linea e non pensi solo a far risaltare lo scandalo. Muri, marciapiedi e lago non sono fini a se stessi, ma sono per una città più bella”. Parole che nascono morte, smentite come sono da altre parole, quelle dello stesso Caradonna, il quale, intervistato dalla locale “Espansione tv”, si lascia scappare che il lago “non lo vedremo quasi più”, e da quelle del direttore dei lavori, ingegner Antonio Viola, il quale ribadisce che con il muro, “verrà cancellato il lago su almeno il 60% della lunghezza del lungolario”
Nelle giornate seguenti emergono nuovi particolari. Se la legge Valtellina del 1987 (conseguenza della disastrosa serie di alluvioni che devastarono la valle) prevedeva 17 milioni di indennizzo per la costruzione delle paratie, il ferale progetto risale al 1998. Il punto è che la sua esecuzione avviene senza l’approvazione del Comune e i principali responsabili del misfatto sarebbero i tre progettisti, l’ingegner Carlo Terragni, l’ingegner Ugo Majone, l’architetto Renato Conti, i quali avrebbero “cambiato tutto” senza comunicarlo all’amministrazione cittadina. Così, dopo aver parlato con Formigoni, il sindaco chiede di abbattere il muro (all’inizio aveva semplicemente chiesto di “ridurlo”), e contemporaneamente si aprono sia un’indagine della Procura (per via della violazione dell’articolo 181 del Codice del paesaggio che prevede la punizione per chi esegue lavori senza autorizzazione fino a 300 metri dalla linea di battigia) sia della Guardia Forestale dello Stato.
La prima testa a cadere è quella dell’assessore Caradonna che si dimette all’inizio di novembre. Ma quanto appare sempre più evidente è che tutti – Regione, Provincia, Soprintendente, progettisti – siano stati al corrente del progetto di costruire il “muro” almeno dal 2000, visto che solo inizialmente si era ipotizzata la realizzazione di “sculture” alte dai 20 centimetri al metro (ma si tratta di un’indicazione secondo alcuni ben poco attendibile, perché da subito il muro era soltanto un muro con un’altezza massima inferiore a quella dello scandalo ma comunque destinata a raggiungere 169 cm in piazza Cavour). Il risultato è che l’8 ottobre 2009 la Regione Lombardia commissaria il Comune di Como. Intanto i lavori, che avrebbero dovuto essere conclusi già da mesi (marzo 2009), si interrompono, mentre le case e gli alberghi del lungolago si riempiono di crepe. Quando piove, suprema nemesi, tutta l’area si allaga con grande rapidità.
Finalmente, il 27 febbraio 2010, si procede all’abbattimento del mostro. Il problema è ora quello di inventarsi qualcosa d’altro, tenendo anche conto che al 25 marzo sono stati spesi 7 milioni per produrre un cumulo di macerie (uno dei tanti che segnano la città come chiazze malate). Il mese successivo, per indecifrabile paradosso, in nome di uno di quei percorsi che difficilmente possono essere spiegati per via razionale e che sollevano un’inevitabile ridda di commenti, Viola e Ferro ottengono dal comune di Como 15 mila euro per le “retribuzioni di risultato”. Sempre in aprile si apre il secondo lotto del cantiere che da Piazza Cavour arriva alla darsena di S. Agostino. Si accanisce pure il clima e una serie di giornate di maltempo particolarmente intenso provoca l’ennesima esondazione, facendo insorgere il sospetto che il cantiere ostacoli il deflusso delle acque dei fiumi che sfociano nel lago. Si cerca intanto – in sintonia con le linee guida dettate da Bruni – di rendere “bella” anche l’orrorifica immagine delle “rovine”, e pannelli in finta pietra di Moltrasio fanno la loro comparsa per rivestire il cemento armato, creando, come nota La Provincia, un grottesco effetto Gardaland. Nel mese di giugno i progettisti affidano un ulteriore commento sul tema al Notiziario degli Ingegneri di Como, in cui si legge che il progetto originario “se unitariamente realizzato, avrebbe assicurato alla città un momento di grande modernità”. Peccato che dell’idea madre non ci siano più tracce e che il cantiere in gran parte abbandonato sia un corpo morto nel salotto buono della città per tutta la successiva estate. In agosto tutti possono vedere crescere piante di pomodoro in mezzo al cemento. Nel successivo autunno, siamo nell’ottobre 2010, il sindaco dice che in tre anni il lavoro delle paratie sarà concluso. Il nuovo progetto dell’architetto milanese Cino Zucchi, risultato vincitore del Concorso di idee, viene però accantonato dopo quattro mesi perché i costi sono lievitati dai due milioni iniziali a sei.
Finalmente, all’inizio del 2011, il cantiere viene smantellato e l’azienda veneziana che vi stava lavorando, la Sacaim, se ne va, pur rimanendo la ditta responsabile dei lavori. Nel mese di marzo Viola e Ferro sono messi sotto inchiesta per “distruzione o deturpamento di bellezze naturali”. Quanto segue è forse ancora più paradossale. Per evitare l’affronto di una città che si mutila per un altro anno della sua principale attrattiva turistica, il calciatore comasco del Milan Gianluca Zambrotta, fa costruire a sue spese una provvisoria struttura in erba sintetica che va a coprire le ferite di tutta l’area. L’estate del 2011 trascorre così, con un nuovo e transeunte spazio gioco per i bambini, abbastanza incongruo ma tutto sommato confortevole (nonostante le dure critiche del ministro del turismo Brambilla). Il comune però non crede alla possibilità di una “soluzione invernale” (con una simil-pista da sci) e anche Zambrotta è liquidato.
Via il sintetico, riemerge il problema di come usare quello spazio, di che fare di quello che già c’è. I giardini a lago – che conducono verso il Tempio Voltiano, il Monumento ai Caduti di Terragni e lo stadio “Sinigaglia” – sono in condizioni desolanti, abbondantemente transennati, con aiuole sgarrupate e sporche. Il resto del lungolago continua ad essere un cantiere. Nessuna traccia di progetti o di bandi. Quanto sembrerebbe probabile è che le paratie dovrebbero essere strutture mobili, i cosiddetti panconi, ossia delle barre di alluminio da posizionare in caso di esondazione (ma pare che siano di difficile reperibilità).
La situazione è così paradossale da risultare incredibile. Una rivoluzione. Una così incredibile violazione di ogni logica fondata sul buonsenso da far supporre che la matta bestialità di chi l’ha pensata nasconda geniali doppi fini. Un colpo alla Melville, col suo Bartleby addossato al niente del muro, nella afasica rassegnazione degli “avrei preferenza di no”. Un impeto di iperrazionalismo che ha sfondato le barriere del lecito, dello storicamente, paesaggisticamente e logicamente prevedibile. Dunque, un atto freudiano. Una sorta di lapsus edilizio, che lascia scorgere tra i suoi rozzi pretesti urbanistici e le basse camarille dell’amministrazione locale una specie di fenditura sull’oltre. L’anello che non tiene dei “Limoni” di Montale. Mettere un muro davanti al lago, non consentire di vedere il punto di contatto tra l’acqua e la costa là dove si suppone che converga il moto dei passanti, è un gesto parlante che però rimanda a uno strato profondo dell’anima collettiva di questa città, costretta all’ossimorica convivenza di chiusura e apertura, di provincialismo e spettacolarità.
Como è una città costretta dalla sua bellezza a mettere in atto quanto non appartiene al nucleo più profondo della comaschità. Per cui nel tempo (soprattutto in questo, compiaciuto e commerciale) ha dovuto mostrarsi affabile e disponibile, quando sarebbe stata più se stessa se si fosse svelata per quello che è, ovvero chiusa e refrattaria sia alla chiacchiera che al dialogo profondo. Città che ama il concetto di assedio, che adorerebbe la clausura definitiva tra le sue mura, di cui il lago rappresenta l’acquorea quarta parete, città da ideologie difensive e regressive, Como è anche stata condannata al passaggio di chi da fuori la visita ammirato, al movimento di chi la oltrepassa per raggiungere l’Europa o Milano; ma soprattutto è stata costretta a subire un ambiente che indiscutibilmente cattura lo sguardo (appunto, attraente). È difficile non rimanere affascinati dai paesaggi, dagli scorci, da quell’incrocio tra acqua e montagne che si insinua ovunque in città, dandole una fisionomia insieme sfuggente e letteralmente mirabile. Le testimonianze che vanno in questa direzione accomunano Stendhal al turista tedesco o americano. Si apprezza la varietà, la possibilità che viene offerta all’occhio di transitare su oggetti diversi, senza annoiarsi mai. Però, nonostante le compilazioni celebrative degli intellettuali locali contemporanei – che vivono nella costante temperatura dell’idillio, nella memoriosa e malinconica contemplazione delle belle pagine che i letterati viaggiatori hanno dedicato alla città e al suo lago, nonostante questo e tanto altro (la fortuna – ormai appartenente anch’essa al passato – di un soap opera come Vivere, per esempio), Como è una città che non si ama per questi aspetti.
I comaschi sono insensibili al loro bello, o, in altri più raffinati casi, ne fanno una questione privata. Quel mondo che inizia dal lago e si allunga verso nord, con le due coste immediatamente popolate di ville, lo sfondo della collina di Cardina (c’è la villa dello scapigliato Carlo Alberto Pisani Dossi), la vetta più alta del Bisbino, la incombente presenza di Brunate, è un sito estraneo alla vita (e sembrerebbe anche alla vista) dei comaschi. Insomma quella misteriosa ed impalpabile sommatoria di elementi che crea lo spirito di un luogo, qui volge le spalle al bello.
In particolare ho la sensazione che per chi è di Como il lago sia inesistente. Pur affacciandosi sul centro della città, è concettualmente un luogo marginale, un’area periferica che i comaschi lasciano ai turisti della domenica, ai milanesi, che ancora oggi invece dicono “andiamo al lago” e non “andiamo a Como”, quando parlano della meta della loro uscita festiva. Ma c’è anche qualcosa d’altro. Ogni muro stabilisce un confine che separa dagli altri, gli estranei, e che non si deve oltrepassare. Vivere nello spazio delle mura – si ricordi che Como conserva le sue mura, quasi intatte – significa appartenere al gruppo che le ha costruite. Significa possedere un’identità che nasce dallo stare dentro, dall’essere uno di quelli dall’accento rassicurante, dalle idee riconoscibili, dai tratti somatici che non sollevano dubbi.
Quando l’orrore del muro – e il muro dell’orrore – è stato svelato, tutti si sono ribellati, portando a convergere anche gli opposti poli della politica. Ma ho la sensazione che ci si sia unanimemente ribellati perché in quell’oggetto si sono materializzate alcune idee latenti, come giustamente ci si oppone quando si legge – tanto per rimanere nei paraggi – che l’ossessione nei confronti dei vicini di casa ha provocato una strage. Il muro sul lago – con la sua forte valenza percettiva, con la sua letterale oscenità – ha dato consistenza a un desiderio che deve rimanere inespresso. O meglio, che deve manifestarsi in tanti altri modi, scegliendo vie meno appariscenti, più giustificabili in nome di altro, più cautamente indirette, magari anche più inconsapevoli, come la costruzione di palazzoni neomodernisti. Si è osato troppo, con quei due metri di cemento armato. È pericoloso dar voce, soprattutto in modi simili, ai fantasmi, individuali o collettivi non importa.