Do you remember l'anarchia?
Prima di parlare di un libro felice, Sragionamenti sull'anarchia (Biblioteca Italo Svevo) di Paolo Morelli, vorrei fare una breve premessa di storia delle idee.
Sull'argomento esiste una bibliografia sterminata ma non c'è idea più fraintesa dell'anarchia. Quando il 16 dicembre 1969 l'anarchico Pietro Valpreda venne scandalosamente arrestato per la bomba di piazza Fontana ricordo i primi commenti, a scuola e in famiglia: "Beh, è un classico: dal tempo di Gaetano Bresci, che uccise Umberto I, gli anarchici sono quelli che mettono le bombe". Perfino De André, con il suo "Bombarolo"(dall'album Storia di un impiegato del 1973), confermava quell'immagine convenzionale, e largamente infondata, benché il suo fosse "un trentenne disperato", e il suo attentato ebbe un esito grottesco (mi colpì però l'indifferenza di De André per le sorti dell'edicolante, certo perito nell’esplosione del "chiosco dei giornali"). Da allora ho cominciato a leggere gli autori del pensiero anarchico, assai variegato al suo interno, sentendo subito una naturale affinità. La fisiologica avversione per ogni forma di potere e di gerarchia (la gerarchia è come la disuguaglianza: innaturale, se vuoi affermarle devi giustificarle!), la fiducia nell'autonomia del singolo (che non è la monade egoista ma un individuo solidale, cooperativo) la diffidenza verso forme organizzative tendenzialmente autoritarie, mi sembrò allora attualissima, nel momento il cui il '68, che pure aveva una spinta utopico-libertaria, si andava burocratizzando in partitini egemonizzati da verbosi tribuni della plebe. Si potrebbe anche dire che nella storia dell'anarchismo, benché ci sia una componente insurrezionalista, tenda a prevalere la scelta della non-violenza, di forme di lotta come la disobbedienza passiva, il boicottaggio, l'obiezione di coscienza. Un ribaltamento della celebre sentenza attribuita a Machiavelli. Non tanto il fine giustifica i mezzi, piuttosto, dato che il fine è sempre troppo lontano, esistono soltanto i mezzi, i quali devono prefigurare la società che intendiamo costruire. Proudhon in una lettera a Marx aveva capito tutto: "Solo perché siamo alla testa del movimento non facciamoci i capi di una nuova intolleranza, non posiamo ad apostoli di una nuova religione, fosse pure la religione della logica, della ragione (…) non consideriamo mai un problema come esaurito". Dopo la Guerra di Spagna l'anarchismo è entrato in una fase "postclassica", spostandosi verso i paesi di lingua inglese, e via via concentrandosi su un impegno di tipo esistenziale, individuale, intrecciandosi con la controcultura degli anni '60 e '70. Anche chi si apriva alla politica tendeva a privilegiare l'azione diretta, limitata, la cosiddetta pratica degli obiettivi, l'autorganizzazione e il mutualismo, il Welfare dal basso (Colin Ward). Tra Marx – "trasformare il mondo" – e Rimbaud – "cambiare la vita" – propendeva lievemente per quest'ultimo. Senza però trascurare del tutto il primo aspetto: il pensiero rivoluzionario di Murray Bookchin, fondato sull'ecologia sociale, ha convertito Ochalan in carcere all'anarchismo non-violento. Poi con i no-global l'anarchismo ha conosciuto un significativo revival, anche qui dividendosi tra le due anime originarie: la violenza spettacolare dei Black Bloc (street fighting, distruzione fisica dei simboli del potere) e Occupy Wall Street, contagioso esempio di democrazia diretta in un accampamento nel cuore della City finanziaria, e invenzione di tattiche creative di lotta non-violenta, già sperimentate a Seattle nel 1999 (dove i manifestanti si vestirono da fatine e solleticarono con i piumini i poliziotti super-armati). Uno dei suoi teorici, David Graeber, scomparso nel 2020, ha voluto riproporre l'anarchia come lifestyle e gesto ispirato, come assoluta preminenza della pratica sulla teoria (una documentata panoramica sulla storia dell'anarchismo la trovate in un saggio di Pietro Adamo in Rete)…
Ecco, il libro – impolitico ma in una accezione sottilmente politica – di Morelli si inserisce pienamente in questa ultima costellazione: si impegna a "occupare" idealmente non solo Wall Street, ma ogni zona delle nostre relazioni quotidiane, del nostro immaginario, decostruendo logiche di potere, giochi di ruolo, tic mentali. Dalle sue pagine possiamo estrarre un identikit dell'anarchico: non considera la natura nemica, ama anche ciò che non comprende, dispone di una intelligenza non finalizzata al dominio, non si sente braccato dalla paura di tutto, accetta la impermanenza come percezione quotidiana della realtà, non si prende troppo sul serio, lascia che il pensiero scorra (e anche che possa non esserci), pensa che per preparare la rivoluzione bisogna esserne degni, non è in grado di esercitare "qualsivoglia traffico d'influenze dà fastidio a tutti, tranne che agli altri come lui", dunque a monarchi, fascisti e comunisti (ahi il commissario Togliatti a Barcellona nel '37!), si lascia guidare dal corpo, è addestrato a una respirazione "lunga e sottile", dà valore a qualcuno per il suo valore e non per il potere che incarna o per il suo successo, sbaglia tanto perché prende tutto alla lettera e non è furbo. Soprattutto: "per il fatto che rifiuta qualsiasi autorità deputata è nelle condizioni favorevoli per riconoscere l'autorevolezza ovunque si nasconda, una voce stenta da bar, il colore mesto di un fiore, il gesto o l'ammicco di un cane pastore, l'insegnamento di un nemico perfino può rivelarsi utile…" (si sa, l'autorevolezza non è legata a uno status). A ben vedere questo anarchico sembra una figura del cosiddetto stoicismo universale di Pierre Hadot: dunque un modo di stare al mondo, un'arte di vivere che si accorda con il ritmo (e logos) del cosmo... L'ultimo capitolo, "Sconfessione" contiene un palpitante frammento autobiografico in cui scopriamo l'humus da cui nasce l'intero sragionamento.
Ma ora andiamo al cuore del libro di Morelli: lo stile colloquiale, elegante, e rasoterra, e soprattutto l'invenzione di una voce. La scrittura è una mimesi del parlato, ma si tratta di un parlato che a sua volta è il massimo dell'artificio: un manufatto fabbricato con estrema cura artigianale (l'autore ha scritto otto volte l'incipit). Da dove viene questa voce? La voce – insieme popolare e appena straniata – di chi citando il nome di uno studioso precisa "si chiamava, perché è morto", di chi spesso ripete "qui non ci piove" e al posto di dire "in concreto" dice "in solido". Innumerevoli le fonti possibili, o i semplici echi letterari. Un po' la linea padana dei Cavazzoni, Nori, etc., un po' la Macchina mondiale di Volponi, perfino un po' un legnoso Pinocchio (credulone, testardo, mai rassegnato): è la voce e il punto di vista di chi sta in basso e dalla parte del torto. Ma ognuno trovi le suggestioni che vuole. Il punto è che questa voce riassume perfettamente non solo la poetica ma anche la postura anarchica di Morelli, nel suo mix di stupore interrogante, di moderato ma fermo dissenso, di fraternità accogliente. I "francofortesi" ispirano molte di queste pagine: una meticolosa attenzione ai dettagli della "vita offesa". Solo un esempio: gli spot televisivi che raccolgono fondi per ogni disgrazia sulla faccia della terra, intervistando poveri scheletri umani: "confessano la regola dell'ingiustizia proprio essendone l'eccezione". Tra i vari maestri e ispiratori non troverete tanto Bakunin e Kropotkin, quanto Montaigne, Etienne La Boétie, gli anarchici italiani Malatesta e Berneri, Orwell, un imprevisto Kant e il sapiente taoista Chuang-tzu (Morelli è traduttore dal cinese e ha ne ha trasposto in romanesco – lingua "stoica" per eccellenza – le sentenze)!
C'è poi, verso il finale, una sezione esplicitamente ludica: una sequenza quiz, per verificare il quoziente di "anarchia" del proprio stato mentale, e un elenco di koan, enigmi irrisolvibili che però ci servono "per far fare errori al funzionamento della testa". Il punto è che – proudhonianamente – "solo pensare a una soluzione, voler intervenire in qualche modo nel mondo, non è altro che una nevrosi" Mi limito a un prelievo: "Ma l'intellettuale ci fa o ci è?": nel nostro abbrutito paese gli intellettuali "si credono l'unica parte sana in virtù delle idee che hanno ben chiuse in capoccia", ma sono i "veri garanti dell'oppressore".
La pars costruens consiste nel "vivi nascosto" di Epicuro, nel cercare l'ombra e defilarsi, nel non mostrarsi. Un po' la secessione silenziosa in fratrie, in piccoli gruppi fondati su relazioni libere da costrizione e dominio, che raccomandava Nicola Chiaromonte, grande libertario in un paese che non se lo merita, e infatti lo ha dimenticato.
Unica obiezione. Quando leggo che l'anarchico vuole "restare in una posizione scomoda", unica garanzia per vedere le cose come sono, penso che ogni tanto invece bisogna pur stare comodi. In che senso? Come sapeva Camus una rivolta ha buon esito quando nasce da una esperienza di felicità, dunque di "comodità", dall'amore per il mare, il sole, la vertigine del meriggio, quando nasce cioè dal desiderio di estendere quella "comodità" al resto della vita e a tutti gli altri. Altrimenti la rivolta che proviene solo da rabbia e indignazione diventa autodistruttiva. Ma l'autore potrebbe concordare con me: qui intendeva soprattutto la "comodità" coatta della società tecnologica dei consumi.
Per Enrichetta Di Lorenzo, dolce innamorata di Pisacane, l'anarchia era "la forma politica dell'amore". Lo psicanalista Elvio Fachinelli scrisse un meraviglioso libretto al ritorno dal Portogallo, dove nel 1974 c'era stata la Rivoluzione dei Garofani, il rovesciamento incruento di una dittatura da parte di militari di sinistra, e lo intitolò "Uma tentativa de amor". Ecco, qui l'anarchia potrebbe ricongiungersi con la poesia, che secondo la definizione di don Milani, citata con ammirazione da Pasolini, non è che la trasformazione dell'odio in amore.