Dress code 4. Meloni e von der Leyen
Disclaimer: scrivo sulle donne della politica internazionale per analizzare il loro stile, non per fare ostruzionismo filo-patriarcale. La ragion d'essere di questo articolo sta nella convinzione che il linguaggio vestimentario costituisce il modo più immediato e comprensibile alla moltitudine per disseminare modelli di personalità, nel caso specifico paradigmi di successo al femminile.
Il punto di partenza e il fulcro di ogni comparazione è scontato, così come la mia scelta di termini al maschile: Giorgia Meloni.
Meloni è una pagina di storia italiana come Presidente del Consiglio della XVIII Legislatura della Repubblica Italiana e per due primati importanti: più giovane titolare di un ministero italiano e prima premier donna. Che si sia in accordo o meno con la sua ideologia politica rimane un dato di fatto, così come l’amplificazione mediatica di ogni sua esternazione, di ogni suo gesto, di ogni suo capo di abbigliamento, di ogni cambio di look. Personalmente trovo ridondante lo sforzo cognitivo relativo al vestire delle donne impegnate in politica, però viviamo in un mondo dove per ogni celebrità esistono almeno dieci account social dedicati al loro guardaroba, con tanto di liste di oggetti, prezzi e consigli su dove trovare copie a prezzo irrisorio (i “dupe”, tendenza di TikTok). L’interesse per le scelte di moda di Meloni e colleghe è dovuto a tre ordini di motivi: a) la sovrainterpretazione dei segni che producono; b) la necessità del senso comune di trovare modelli a cui ispirarsi, soprattutto in un campo minato come il power dressing; c) la facilità di cadere in fallo e commettere crimini di moda che porgono il fianco alle critiche dei detrattori. La moda è un linguaggio, pertanto fornisce ulteriori elementi per analizzare il sentire di una donna al potere in un momento importante della sua carriera e del paese che governa. Inoltre, è d’obbligo aggiungere che, stando anche all’ormai datato adagio discotecaro a cui si attribuisce il suo picco di notorietà, Giorgia Meloni, in quanto donna italiana, ha l’obbligo del ben vestire. Mi spiego meglio: Meloni ha fortemente voluto il Ministero del Made in Italy, così come l’omonimo liceo perché consapevole che tra gli asset vincenti del belpaese c’è la moda, ragion per cui è tenuta a incarnare al meglio questo aspetto, a incorporarlo nelle sue forme di espressione. E così, guardando meglio, ci accorgiamo che predilige borse di artigiani italiani, lasciando nell’armadio le griffe straniere che le sono valse critiche relative all’ostentazione del suo poter spendere. Meloni rinuncia alla Vuitton e alle borse di lusso probabilmente nel 2015, quando la Francia rifiuta di importare prodotti ortofrutticoli dalla Puglia per timore della xylella. Senza una Vuitton Meloni può sopravvivere di certo, nonostante sia parte dell'uniforme di ordinanza di una donna in carriera della borghesia medio-alta, ma non si può dire lo stesso di Christine Lagarde e Hermès, Maison di cui è praticamente testimonial, visto lo sfoggio costante di borse e foulard. Se la scelta di oggetti di moda lussuosi può essere giustificata dalla possibilità di spendere di donne che sostanzialmente lavorano, guadagnano, e sono protagoniste di eventi importanti – le migliori occasioni d'uso per questi oggetti –, allora non bisogna biasimarle per la cura della propria immagine, accusandole di non avere a cuore le questioni “realmente” importanti e di ostentare una capacità di spesa maggiore a quella del popolo.
Per via della predilezione per Chanel e Hermès, Lagarde viene più spesso definita “elegante” che brava o valida, o, ancora, la sua libertà di espressione vestimentaria viene censurata con la rimozione dei gioielli tramite Photoshop per essere più in linea con i visual delle testate "populiste". Lagarde, in una sua intervista a Vogue America del 2011 adduce le sue scelte di moda a qualità sartoriale, vestibilità e resistenza ai tragitti in aereo. Lagarde è senza dubbio l'icona del power dressing, tanto che Miranda Priestly, l'Anna Wintour di Il diavolo veste Prada interpretata da Meryl Streep, si ispira a lei. È significativo che la signora della moda finzionale corrisponda alla seconda donna più potente al mondo, almeno secondo la classifica di Forbes del 2022 capitanata da Ursula von der Leyen, con Kamala Harris terza e Giorgia Meloni settima.
L’eleganza di Lagarde va a braccetto con il suo ruolo e non dovrebbero stupire neanche Chanel e Hermès, simboli di francesità. Ha una simile natura l’associazione di Meloni a un marchio italiano nel giorno del suo giuramento, Armani, che esprime la volontà di inquadrarsi in uno stile classico, scevro dalle definizioni legate al genere, al pari della preferenza per la carica declinata al maschile. Non a caso Meloni acquista i suoi completi delle grandi occasioni a meno di un km da Palazzo Chigi, presso la boutique Armani, le cui giacche, come già ho scritto qui qualche anno fa, fungono da “pelle ulteriore, capace di dilatare il genere di chi la indossa”. Il perno del power dressing è la giacca, capo formale, rigoroso e autorevole, che Armani destruttura per liberarla dagli schemi culturali e renderla funzione della proporzione dinamica tra femminilità e mascolinità, dove la prima sta alla forza e la seconda alla fragilità. Per una donna che deve segnalare il proprio potere la giacca costituisce la struttura su cui si costruisce l’immagine: chiedo alle lettrici di pensare al loro quotidiano, soprattutto a quando devono recarsi a un’occasione formale, dove bisogna “rendersi autorevoli”. Andiamo sul sicuro scegliendo la giacca, oppure una camicia, se fa troppo caldo e lo stile da adottare è casual. Si tratta di due capi che abbiamo in comune con il guardaroba formale maschile, stabilmente classici ed eleganti nonostante i corsi e i ricorsi delle mode. Va da sé che Giorgia Meloni, Elly Schlein, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, ma anche Hillary Clinton, Kamala Harris, Alexandria Ocasio-Cortez, compaiono la maggior parte delle volte in giacca, in praticamente ogni occasione d’uso. Variano i colori, i pattern, l’abbottonatura, i colletti, le lunghezze, e i tessuti, cioè elementi che rispecchiano l’identità delle donne in questione. Giusi Ferrè ha definito le giacche di Ursula von der Leyen neo-banali in un suo Buccia di Banana del 2020. In effetti, scrive Ferrè, "dopo essere stata la classica divisa maschile, la giacca lo è diventata al femminile per le donne di potere. Che la peggiorano con qualche intervento frivolo". D'altronde von der Leyen stessa, nel suo discorso sul sofagate del 2021, si appella alla retorica vestimentaria, imputando – ironicamente – l'irrispettosa penuria di sedie alla mancata osservanza del dress code formale in cravatta, vale a dire al suo non essere uomo, perché la giacca la indossava eccome.
È ovvio che una donna, per via delle sovrastrutture patriarcali, è al centro di una serie di illazioni e feticismi. Cercando su Google i nomi delle maggiori esponenti della politica internazionale, il completamento automatico della ricerca mi suggerisce parole chiave come “fisico”, “young”, “abbigliamento”.
Poi ogni donna ha il suo tratto distintivo: Lagarde il foulard, von der Leyen la camicia con colletto a punta, Meloni l’abbinamento di colori tra orecchini e abbigliamento, Schlein le sneakers bianche, Santanché il dettaglio frou-frou, tipo le piume, i glitter o il plateau. Qui entrano in gioco i diversi modi di essere femminile.
Sicuramente ci vestiamo per apparire, ma non bisogna sottovalutare la nostra esistenza negli abiti che scegliamo: per quanto assistita, la giornata della premier è sicuramente lunga e complessa, quindi va anche privilegiato il comfort. In una delle occasioni più penose del suo percorso da premier, Meloni, sballottata tra Egitto, Israele e la separazione dal compagno Giambruno, sceglie di umanizzarsi con un morbido maglioncino traforato, dall’aspetto home-made, nel video di scuse per la sua mancata partecipazione all'evento "L'Italia vincente. Un anno di risultati del governo Meloni" organizzato da Fratelli d’Italia, il suo partito. L’insieme Indumento/Mondo è così lampante nelle scelte di Meloni da risultare didascalico. Il maglioncino morbido assume una funzione definitoria svolta dal materiale di confezione che significa in funzione della tattilità stabilendo una relazione con il sentire correlato all’occasione d’uso in cui si indossa il capo. Come spiega Michela Finaurini in La grammatica dei tessuti (Gribaudo 2023), il filo intessuto funge da grammatica tattile, che regola e scandisce una storia, abita un tempo e identifica una persona. Dunque, dalle caratteristiche morfologiche delle fibre di un tessuto possiamo inferire il comportamento e il contegno desiderato da chi lo indossa, attribuendo ora tenacia e resilienza, ora suscettibilità e fragilità. Non a caso il termine tecnico usato per indicare l’intreccio tra trama e ordito è “armatura”. Il maglioncino, la mantella con le cifre GM, o il cardigan, ricorrono quando è necessario dare conforto al corpo e allo spirito in una situazione complicata, oppure creare un’atmosfera di familiarità per ridurre il distacco percepito dall’interlocutore e dal pubblico. Penso all’incontro con Elon Musk o il Primo Ministro del Burundi – in cardigan – e alla chiacchierata tra colleghe con von der Leyen – in mantella – o al maglione “sufragette white” con collo ad anello indossato per fare visita a Zelensky. Il bianco suffragetta è uno statement: meno parole più fatti, in un momento in cui sottolinea ancora una volta il suo posto nella storia. Il sostegno all’Ucraina però si manifesta anche attraverso un elemento “militare”, cioè gli anfibi Dr. Martens, che probabilmente avranno segnato l’era di Meloni militante, considerandone la diffusione negli anni '90. Probabilmente l’oggetto mutuato dal vestire della gioventù è servito anche a sentirsi confortevole e al sicuro, non solo ad adeguarsi alla tenuta da soldato di Zelensky, il quale ha fatto t-shirt e felpa la manifestazione di un universo di senso, come ho scritto per il Dizionario mediologico della guerra in Ucraina a cura di Davide Bennato, Manolo Farci, Giovanni Fiorentino (Guerini 2023). Difatti, anche la presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola rende un omaggio “vestimentario” al suo ospite Zelensky indossando l’iconica maglietta verde militare come sottogiacca per l’incontro di aprile 2022.
Meloni cerca spesso di coordinare abbigliamento e mondo, lo dimostra agli Stati Generali della Natalità di maggio 2023 quando infrange il dress code del “privilegio del bianco”, che sì, è caduta in disuso nel secolo scorso, ma nessuno ancora aveva avuto il coraggio di indossare colori troppo chiari al cospetto di un Papa. Il privilegio del bianco è riservato alle regine e alle mogli di re di religione cattolica, ma, in fondo, essere premier non è una forma di nuova monarchia? Meloni evidenzia la sua posizione al di sopra delle regole con la battuta «Oggi ci siamo vestiti uguali», marcata da una pacca sul braccio di Papa Francesco. Un total look che sicuramente non si può imputare al caso (non ci vuole molta fantasia a prevedere l’outfit papale…), volto a consolidare l’autorità di Meloni in tema di natalità e famiglia, tra i topic più sentiti della sua carriera politica. Per completare la rassegna cromatica, Meloni sembrerebbe preferire il rosso, come la storica giubba rossa militare, da professionista della protezione dello stato. Rimanendo nella semantica anglossassone, ma spostandoci in USA, il rosso colora il blazer delle agenti immobiliari, una divisa atta a rendere riconoscibili e autorevoli. E poi c’è tutta la gamma dei colori pastello o il tailleur pantalone blu “Europa”, da bandiera e non da automobile.
L’abbigliamento di Meloni descrive anche il grado di impegno fisico nella mansione che sta svolgendo, come quando è, letteralmente e in senso figurato, “in maniche di camicia”, rimboccate per dare una mano in Emilia-Romagna durante la visita ai luoghi dell’alluvione di maggio 2023, oppure in estate a Lampedusa e Caivano, dove l’implicito è “mi impegno per la vostra causa”. Le maniche, connotazione del grado di impegno, addirittura scompaiono dalla giacca il primo maggio 2023, quando, con un video messaggio, il Presidente del Consiglio annuncia di essere al lavoro nel giorno festivo, quando gli “altri” gozzovigliano tra picnic e concerti.
Da quando era una giovane ministro – la mancata concordanza è voluta – la graduale acquisizione di autorevolezza e potere ha coinciso con un'evoluzione dell'immagine pubblica. I capelli, oramai stabilmente lisci, si sono schiariti dal castano al biondo "deciso", come specificato da Antonio Pruno, l'hairstylist di fiducia che la segue nei cambi di look in ogni avanzamento di carriera. Anche il volto ha seguito la parabola del liscio, diradando le espressioni corrucciate a favore dei sorrisi, più sicuri e allineati rispetto all'era pre-Fratelli d'Italia. E di liscio e luminoso satin si è vestita il 25 ottobre 2023, in camicia e gonna, senza giacca, per gli interventi di replica alla Camera dei deputati e al Senato, dove ha entusiasmato gli animi elogiando una maggioranza compatta. E anche qui la scelta di campo è puntuale: la premier si veste da donna, rinuncia all'autorevolezza per estensione della giacca maschile privilegiando la solennità del satin, ma al contempo, le "maniche di camicia" e la silhouette morbida della gonna plissé comunicano un non volere essere limitata dalla scomodità, dall'aderenza, dalle lunghezze. È come se indossasse un'uniforme di lavoro che la presenta come sempre disponibile ad agire per il paese che dirige. L'ipotesi iniziale trova conferma nella costruzione del femminile attraverso gli abiti, nel senso di vestiti, ma anche in quello di Bourdieu, De Lauretis e Peirce, di habitus, dunque di modo di essere e pratiche di rappresentazione. E così ci rendiamo conto che ci vestiamo perché vogliamo comunicare uno stato di cose o uno stato d'animo.
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