Dress Code 6. L'eleganza degli affari

17 Maggio 2024

Ho la Cartafreccia oro da più di dieci anni, perciò posso affermare che l'alta velocità è parte integrante della mia esistenza, così come le persone che la popolano. Azzardando una categorizzazione semplicistica, si può dire che la comunità dei passeggeri si sposta per tre ordini di ragioni: diletto, motivi personali, lavoro. Ecco, a me interessa chi viaggia per questioni lavorative perché ritengo che il percorso verso il luogo di lavoro costituisca gran parte della mansione, poiché è il momento in cui si approntano le ultime cose, in termini di contenuto e immagine. I malcapitati che si sono trovati a dividere la mia stessa carrozza hanno assistito a scene di immensa disperazione prima di importanti convegni, quando cercavo di approntare l’intervento, o ancora, specialmente di mattina presto, alla mia makeup routine. Ho pensato anche di realizzare dei tutorial sull’applicazione dell’eyeliner in movimento, ma la “serietà” imposta dalla mia afferenza accademica ha avuto la meglio.

Una volta, in viaggio per Firenze, credo di aver addirittura messo lo smalto sotto lo sguardo attonito di una compassata passeggera. Il tragitto colma i buchi di tempo che non riusciamo a trovare nella routine sulla terraferma, e l’alta velocità forse rende più rapide le operazioni di approntamento. Ma torniamo alle persone che viaggiano per lavoro. Come riconoscerle? C’è bisogno di un dottorato in fatti altrui? No, la questione è più semplice, sono i loro indumenti che parlano, anzi urlano, “business attire”. I completi da lavoro fanno molto rumore, non li zittisce neanche la carrozza silenzio, perché vogliono attirare l’attenzione e gridare "siamo persone di successo, guardateci". Se nel mondo la deriva streetwear è stata impercettibilmente arrestata dalla tendenza stealth wealth o silent/quiet luxury, invisibilità e quiete suggeriscono una volontà di alienarsi dall’enfasi, di non ostentare lo status, come sdoganato dalla serie tv Succession (HBO 2018-2023). L’implementazione di attività formali post-covid, e, più semplicemente, i corsi e ricorsi storici della moda, hanno reso fuori moda il baccagliare vistoso di logo e ornamenti barocchi, elementi che persistono nel business “loud” attire – diverso dal loud luxury stampato sulle t-shirt Moschino – per motivi che spaziano dall'autostima ai codici vestimentari lavorativi. Il problema è che il troppo rumore annienta ogni tentativo di tracciare un percorso identitario netto, ragion per cui nei miei viaggi in treno udito e senso estetico vengono messi a dura prova, soprattutto dai miei coetanei, i thirty/forty something (dopo tutti questi anglicismi mi becco l'estradizione).

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Esempio di loud business attire versione “palestra”.

Presi dall’affermazione delle loro carriere, ambiscono a reinterpretare i completi formali con alcuni elementi estrosi – almeno secondo loro – come pantaloni maschili iper-skinny alla caviglia e improbabili scarpe eleganti, scollate e ornate da fibbie, indossate senza calze (anche d'inverno). L’ensemble pantaloni stretti scarpa che scopre il collo del piede crea un ibrido straniante palestra-prima comunione, come se si stessero abbinando leggings e giacca doppiopetto. Il total look femminile ha una costante metallica, nei tessuti e negli accessori, possibilmente di color oro, perché stando al senso comune – quello dei matrimoni napoletani trasmessi su Real Time – impreziosisce la silhouette e trasmette eleganza, stesso ruolo dei diversi gioielli indossati. Questi ultimi sono un tratto invariante comune a tutti i generi, e ogni persona esibisce almeno due tipi del sistema-gioiello rivelatore di status: bracciali, collane, orecchini, orologi di metallo o smart, per i più produttivi. Tra questi accessori ogni tanto si intravede, su polsi o, più raramente, caviglie, un meno prezioso braccialetto di pezza, tipo quelli dell'amicizia comprati dagli ambulanti in spiaggia. L'ornamento dissonante racconta che il negotium intenso prevede pause di otium vissute "al massimo", comunica che oltre alla serietà si è “pro” anche nel divertirsi. La palette cromatica non segue i principi armocromatici, bensì delle regole sedimentate negli usi, come la predilezione per nero, blu e grigio, a cui si alternano bianco, beige, marrone, accompagnati da colori più accesi a seconda delle stagioni. La cravatta spesso ha i loghi in vista per comunicare una fascia di spesa, così come la cintura, meglio se di Hermès con l'H dorata.

Gli orpelli barocchi come la pubblicità gratuita al marchio pagato profumatamente – o alla sua copia – sono banditi dal lusso silenzioso, perché contravvengono ai principi dell’eleganza senza tempo, quella ereditata da generazioni, non proporzionale a un conto in banca lievitato in tempi record. In questo modo kitsch e chic descrivono la parabola delle fortune personali, dei vantaggi nepotistici, o del facile arricchimento dovuto all'esplosione di alcuni comparti di business. Se riflettiamo sulla serie che ha lanciato il silent luxury ci rendiamo conto che racconta di una famiglia di milionari newyorkesi e la scelta di chi deve dirigere la conglomerata di proprietà. I Roy non hanno bisogno di marcare il loro territorio, sono “nepo-baby”, perciò il loro stile conta su particolari che colpiscono l’occhio esperto, come la qualità di tagli e tessuti, e la scelta di creazioni artigianali, su misura, e su tonalità neutre che resistono nel tempo e non sono soggette alle mode, similmente alla loro ricchezza. L’importante è non fare rumore e attirare l’attenzione, il contrario dei miei compagni di viaggio in treno.

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La famiglia Roy di Succession.

Per valorizzare il contrario dei Roy di Succession e canonizzare il santo patrono del loud business attire restiamo nell’ambito delle serie televisive con l’avvocato Saul Goodman, ritenuto un esempio del vestirsi da vincitore. Goodman dimostra di essere la “persona più intelligente nella stanza” – cito da quest’articolo – con la scelta degli indumenti, che rifuggono il basso profilo per intimidire gli avversari dentro e fuori l’aula. Colori sgargianti, camicie che fanno a cazzotti con le cravatte, mai bianche o celesti, bensì sempre vistose, Saul manifesta quel senso di moda rumoroso che attua una strategia persuasiva. I suoi indumenti traducono l’ideale modo di essere e del ruolo tematico “avvocato vincente”. In effetti, i tribunali sono luoghi molto caotici e sovrappopolati, dove distinguersi dalla massa va di pari passo con una buona arringa e memorie ben scritte. Il completo buono e le scarpe eleganti comunicano il mestiere di avvocato, quello di manager perché – lo scriveva anche Eco – siamo parlati dagli abiti. Ho un amico avvocato ormai tanto assorbito dal suo ruolo tematico à la Saul, che ha partecipato alla grigliata di Pasquetta in completo beige e cravatta, motivando la sua scelta con un laconico «di casual ho solo il pigiama». 

La barriera del suono si infrange con i colori, ma ciò che qualifica la ricchezza discreta è la fattura di un oggetto di moda. Ricordo che durante uno dei miei primi lavori nella comunicazione, l’anziano e spocchioso direttore dell’agenzia giudicò il mio cappotto cammello “uno straccetto” perché non era di puro cashmere (ce l’ho ancora, può contare su un 10%, meglio di niente). Il cashmere ha la consistenza dell’opulenza e “la morbidezza dei sogni”, cito Nicoletta Polla-Mattiot su Brunello Cucinelli nel libro Sogni su Misura (Luiss University Press 2023). Polla-Mattiot, a tale proposito, sottolinea la doppia natura del cashmere, rustica e delicata che racconta l’origine bucolica di un lusso senza tempo, da riutilizzare all’infinito e rattoppare. Cucinelli, infatti, è convinto che gli oggetti in cashmere dovrebbero far parte dei beni materiali da tramandare in famiglia. Forse è proprio questa la base del silent luxury, il valore etico che si aggiunge a quelli estetici ed economici. Mi viene in mente la scena più famosa del film Miseria e Nobiltà (1954), dove Totò – lo scrivano Felice Sciosciammocca – viene istruito dal fotografo don Pasquale – interpretato da Enzo Turco – su come pignorare il suo cappotto buono e cosa fare con i soldi ottenuti.

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Corporate business attire.

La lista della spesa è così lunga per un cappotto liso e antiquato che Totò chiede al fotografo: «Pasquale dimmi una cosa: ma qui dentro c’è il paltò di Napoleone?». L’importanza attribuita a questo indumento deriva dalla fattura e dalla centralità nel guardaroba: un tempo, specie tra Ottocento e inizio Novecento, non tutti potevano fregiarsi di avere un cappotto, seppur fuori moda. Bisogna aggiungere che la battuta di Totò non è solo un’iperbole, perché tra i colli possibili di un cappotto figura proprio il tipo “Napoleone”, dal bavero largo a due punte e la chiusura sottogola, ricorrente sui modelli trench impermeabili. Questa e altre informazioni sull’anatomia dei capi di abbigliamento si leggono nel bel volume “operativo” di Irene Festa Moda illustrata. Il linguaggio dell’abbigliamento (Hoepli 2022).

Seguendo la tassonomia proposta da Festa, il cappotto e gli altri indumenti possono essere dissezionati per studiarne conformazione, struttura, tracciare i rapporti con la superficie del corpo e nominare le singole componenti del capo, proprio come in anatomia. Festa mappa ogni indumento rispetto a forme, lunghezze, componenti, dettagli e cultura di appartenenza. E così scopriamo che i modelli del cappotto ci raccontano la storia delle sue origini, territoriali come l’Inverness e il British Warm overcoat, o funzionali se guardiamo all’Admiral o Guard coat. Poi ci sono i cappotti denominati rispetto al tessuto, tra cui spicca l’italianissimo Teddy Bear di Max Mara che crea un morbido legame con il peluche preferito dell'infanzia, compagno instancabile di gioco e viaggio. Non a caso Achille Maramotti, fondatore di Max Mara, definisce il cappotto "il primo dei rifugi" come riportato da Polla-Mattiot nella sua ricerca sulle ingerenze del sistema moda sul tessuto sociale italiano. Il cappotto-dimora aiuta chi viaggia per lavoro a sentirsi a casa perché avvolgersi nel tessuto assomiglia al ripararsi in una confortevole tana anche se la giornata lavorativa dura 16 ore e la temperatura è sotto lo zero mentre si aspetta il prossimo treno in banchina. 

Come in tutte le cose della vita mondana, il discrimine tra silente e rumoroso va ricercato nello slittamento di senso di mostrare e dimostrare.

In copertina, Saul Goodman.

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