Elezioni europee: tragicommedia alla francese
Un ecosistema politico scombussolato
Due settimane fa lo stile solenne, regale, napoleonico, gaullista, che sempre aleggia sui momenti cruciali della vita politica francese, e su quelli in particolare che riguardano le deliberazioni presidenziali, ha lasciato spazio a una gesticolazione forsennata e scomposta, tale da ricordare piuttosto lo stile italiano, e il suo talento per la commedia grottesca, tutta animata da calcoli cinici, guerre intestine, colpi bassi e maniere da spaccone. I colpi di scena non sono mancati: batosta della maggioranza di governo alle elezioni europee; l’estrema destra di Le Pen e del giovane Bardella primo partito di Francia (con più del 30% dei voti); immediata decisione presidenziale di sciogliere il governo e di andare alle elezioni legislative a poche settimane dall’inizio dei Giochi Olimpici; miracolosa e istantanea alleanza delle sinistre fratricide in un nuovo Front Populaire; Éric Ciotti, presidente del partito della destra conservatrice (quello di Chirac e Sarkozy), che proclama un’alleanza con l’estrema destra, rompendo un tabù fino a oggi inviolabile, e viene immediatamente smentito da tutte le personalità del suo partito, trattato come traditore e privato della sua carica; contesa tra Ciotti e il suo partito davanti al tribunale, con decisione di giustizia che permette al presidente appena ripudiato di riacquisire le sue funzioni; l’espulsione di Marion Maréchal Le Pen dall’altro partito di estrema destra, quello di Éric Zemmour, per aver espresso la volontà di allearsi con il partito della zia Marine. Di tutti questi eventi, l’unico veramente prevedibile, grazie all’arte divinatoria dei sondaggi, era la vittoria del Rassemblement National (ex Front National), il più enigmatico riguarda la scelta di Macron di andare alle urne subito (il 29 e 30 giugno per il primo turno, il 6 e 7 luglio per il secondo), il più inverosimile l’accordo delle sinistre, firmato nell’arco di qualche giorno, con tanto di programma assai dettagliato per “realizzare delle grandi biforcazioni” sui temi sociali, economici, ecologici, e di politica internazionale.
In tutto ciò – e questo è tipicamente francese –, l’Europa, il nuovo parlamento europeo, le sue future e ipotetiche alleanze, sono spariti dalla scena mediatica a una velocità impressionante: cronisti, commentatori ed esperti si sono dovuti dedicare a una questione molto più urgente, la decifrazione della scatola nera inserita nel cranio presidenziale. Ognuno si è impegnato allora a divinare il senso recondito del comportamento di Macron, sondando la psico-patologia del presidente o il suo raffinato machiavellismo. Siamo ormai confrontati a un discorso sul funzionamento del governo caratterizzato da un tasso spaventoso di autoreferenzialità. La moderna “autonomia” della sfera politica trova, in circostanze come queste, e proprio nella parola dei commentatori titolati, un suo riflesso involontariamente parodistico: il piano delle azioni della classe politica è descritto secondo la logica del circuito chiuso, dell’ambiente stagno, in cui è del tutto irrilevante stabilire legami tra quanto accade su quel piano e quanto, di conseguenza, potrebbe accadere su quello della vita degli elettori, che in parte ne dipende. E qui non sto parlando della distanza tra le condizioni di vita dei dirigenti politici e quelle della gente che li vota, ribadendo ancora una volta la condanna populista del distacco tra la classe politica e i cittadini comuni. Peggiore di questo distacco, per altro innegabile, è forse quello operato dal commento giornalistico che riduce l’agire politico a un sistema di etichette ed enunciati, da considerare esclusivamente in rapporto tra loro, e non come una serie di mosse prodotte da condizionamenti extrapolitici (economici, ad esempio) e aventi effetti sul mondo reale (sull’ambiente o le condizioni di vita, ad esempio).
O la tecnocrazia (repubblicana) o il populismo (di estrema destra)
La sconfitta della maggioranza presidenziale è la sconfitta di un vero e proprio paradigma politico, di cui Macron è stato in Francia una tardiva ma esemplare incarnazione. Il suo successo, infatti, si è costruito sull’idea tardonovecentesca – nata alla fine degli anni Settanta e comprovata dal crollo del muro di Berlino –, secondo la quale, con l’esaurimento della grandi narrazioni collettive, viene meno anche la pertinenza del conflitto ideologico tra destra e sinistra, che ha strutturato per almeno due secoli la vita politica in occidente. Macron si è imposto nelle elezioni presidenziali del 2017 come l’uomo nuovo, con un partito nuovo, in grado di ergersi come soggetto imparziale ed esperto al di sopra delle tradizionali contese elettorali. E la novità del suo discorso ha sedotto non solo una grossa fetta dell’elettorato, ma anche una legione di commentatori che si trovavano finalmente tra le mani “etichette” inedite con cui giocare. L’imparzialità, ossia il suo stile pragmatico e non-ideologico, permettevano a Macron di svincolarsi da tutte le questioni di principio, i dibattiti dottrinari tra eguaglianza sociale o libertà d’impresa, tra difesa del lavoratore o protezione degli investimenti. Rispetto a questo posizionamento, era soprattutto la sinistra a uscirne sconfitta, erede di prospettive progressiste “grandiose” che sempre meno si adattavano alla moderata amministrazione dell’esistente – quella esibita proprio dai recenti governi socialisti. Quanto al suo profilo tecnocratico, esso costituiva lo scudo più efficace nei confronti del populismo montante dell’estrema destra. E ancora in queste elezioni europee, Macron ha giocato la carta dello scontro tra esperto e non-esperto, tra professionista della politica e dilettante populista, promuovendo un faccia a faccia televisivo tra il suo giovane primo ministro Attal (e perfetto clone tecnocratico) e il giovane Bardella, campione nei sondaggi per il Rassemblement National. Attal ne è uscito vincitore in TV, aveva tutte le risposte, laddove Bardella faceva scena muta o schivava le difficoltà. Ma l’illusione tecnocratica è stata doppiamente infranta. Le estreme destre, in Francia come in Europa, vengono votate non in base a un giudizio positivo su ciò che sanno fare, ma sulla fede in ciò che potrebbero fare (“non hanno mai governato il paese, proviamoli almeno una volta”). Inoltre vi è una larga fetta dell’elettorato che le sceglie per motivi strettamente ideologici, perché insomma placano le ricorrenti ansie identitarie e legittimano il più viscerale risentimento. La grande scommessa tecnocratica di Macron non poteva essere smentita nel modo peggiore: non solo le ideologie novecentesche non sono morte, ma non lo sono neppure le più detestabili, quelle fasciste e naziste, contro cui le democrazie europee si sono costruite nel dopoguerra. D’altra parte, anche gli eredi politici dei grandi partiti operai non sono alla fine scomparsi, e la vitalità delle sinistre proprio in Francia è confermata da questo imprevisto fronte unito in vista delle legislative.
Il Rassemblement national come baluardo della democrazia
Ma il tecnocrate Macron non è passato invano. Lascia dietro di sé non poche macerie, e non solo sul piano delle politiche sociali. Entro certi limiti, il suo gioco ha ben funzionato. Le sinistre sono state fin da subito delegittimate, o in quanto obsolete (quelle più moderate) o in quanto antidemocratiche (quelle più radicali). La destra tradizionale, crollata al 7%, è implosa sotto una doppia pressione: l’assorbimento nella sfera del governo Macron o la tentazione di avvicinarsi sempre di più all’estrema destra (il caso di Ciotti, il presidente del partito dei Repubblicani). L’obiettivo di Macron è stato di creare un vuoto sia a sinistra che a destra, per potersi presentare alla fine come l’unico argine contro il partito di Marine Le Pen, che in questo modo acquistava, però, sempre più importanza, divenendo l’unico e grande antagonista del governo e della presidenza. Questa strategia è stata favorita dai media di proprietà del miliardario Vincent Bolloré, che ha messo al servizio delle sue concezioni reazionarie ben tre canali televisivi (CNews, C8, Europe 1). La lezione di Berlusconi ha fatto adepti. Anche le TV di Bolloré utilizzano un duplice e potente fuoco propagandistico, quello dei programmi a contenuto informativo, animati da giornalisti ed esperti schierati, e quelli d’intrattenimento, che sono in realtà parte attivissima nel condizionamento ideologico del pubblico meno istruito. Tra il giornalismo più filogovernativo e quello più orientato sulle posizioni lepeniste, si è assistito in questi ultimi anni a un fenomeno ben preciso: demonizzazione della sinistra radicale e normalizzazione dell’estrema destra. A conferma di ciò, abbiamo in questi giorni una situazione paradossale: Marine Le Pen proclama la necessità di un governo di unità nazionale, che raccolga destra ed estrema destra, per far baluardo al pericolo costituito dal Nuovo Fronte Popolare, considerato come un organismo politico avvelenato alla radice dalla presenza della sinistra radicale (La France Insoumise di Mélenchon). Quali che siano le colpe della France Insoumise, difficilmente esse possono giustificare un rovesciamento del discorso così plateale. Da quando l’ex Front National (fondato all’inizio degli anni Settanta) ha cominciato ad acquisire peso elettorale, a partire cioè dalle elezioni europee del 1984 (8,5%), si è delineata una forma bipartisan di difesa dell’arco repubblicano, che oggi è ufficialmente smentita per la prima volta. Smentita non solo dalla forza dei numeri, e neppure dalla decisione di una singola personalità politica di tradire il “patto repubblicano”, ma da una mentalità più largamente condivisa, che non percepisce più la presa del potere da parte dell’estrema destra come un reale pericolo per il paese e i suoi cittadini.
Un elettorato dalla fisionomia ambigua
Noi italiani questa storia la conosciamo bene, anche perché Silvio Berlusconi l’ha scritta con maggiore efficacia di Macron, grazie anche a una variante decisiva: è inutile costruire il grande duello con il nemico politico di ascendenza fascista e antirepubblicana; è più comodo assimilarlo a sé, normalizzarlo al proprio interno, con la pretesa di tenerlo a bada (almeno finché ci sono i dané che rammolliscono i principi). Quanto alla sinistra, beninteso va demonizzata, e anche qui Berlusconi non sfigura, avendo costruito il grande significante del “comunismo”, dentro cui poteva ficcare avversari politici, giornalisti, scrittori, giudici, tutto quanto insomma gli stava comodo. Naturalmente gli esiti del genio politico berlusconiano sono ancora aperti, e non abbiamo ancora finito di scontarli.
Comunque, nonostante la varia complicità soggettiva e oggettiva dei media e della strategia presidenziale, se il Rassemblement National ha vinto, è perché qualcuno l’ha votato. Solo che questo qualcuno non è così facile da indentificare sul piano strettamente sociologico (ceto) e delle motivazioni. L’elettorato di estrema destra è eterogeneo e contraddittorio, come le componenti ideologiche e i programmi di governo che caratterizzano i partiti di estrema destra europei, e quello francese in particolare. Si è molto insistito, ad esempio, sul voto di protesta delle classi popolari, che non troverebbero più nella sinistra un’adeguata rappresentanza. Questo voto popolare e operaio in parte esiste, ma non permette di spiegare da solo un tale successo. Innanzitutto, ricordiamo che, a queste europee, il primo partito in Francia resta comunque quello dell’astensione (48,5% di non votanti). E anche in questa occasione il segmento maggioritario degli astensionisti viene dai nuclei famigliari a reddito più basso. Inoltre, secondo alcuni dati diffusi settimana scorsa, una componente importante del voto dell’estrema destra è fornito da manager e quadri d’azienda, da diplomati con almeno due anni di specializzazione, e da nuclei familiari che guadagnano non meno di 3000 euro al mese. Il Rassemblement National funziona come “ricettacolo interclassista” di diverse frustrazioni e inquietudini. Lo scontento sociale, tanto sbandierato da Le Pen stessa e da gran parte degli opinionisti, non è certo il solo né il più importante. La controprova è fornita dai primissimi dibattiti della nuova campagna elettorale, con il Front de Gauche all’offensiva grazie a un programma sociale assai avanzato (tassazione dei grandi patrimoni, annullamento della legge sulle pensioni, ecc.). Di fronte a una tale chiarezza di proposte, l’estrema destra perde immediatamente terreno, ed è quindi costretta a rilanciare con i temi, rispetto ai quali non conosce vera concorrenza: immigrazione, sicurezza, identità culturale, preferenza nazionale. E con le questioni d’identità, ritroviamo la formula magica del capro espiatorio e le pulsioni razziste e xenofobe che l’alimentano. Era facile per Le Pen mettere in sordina i ritornelli identitari e sfoggiare una generica empatia per chi ”fatica ad arrivare alla fine del mese”, quando di fronte a sé regnava incontrastato il neoliberista Macron, soprannominato “il presidente dei ricchi”. Ed è a questo punto che le spiegazioni basate sul reddito e la crisi sociale non sono sufficienti per comprendere l’ascesa dell’estrema destra, così come non lo sono quelle basate sulla crisi migratoria o sull’impatto diretto della microcriminalità sulla vita di tutti i giorni. Vi è una parte della popolazione che, anche se vive lontana da studenti woke, da raduni queer, da giovani spacciatori d’origine africana, da militanti ecologisti attivi in certe zone rurali, da rifugiati accampati in angoli poco frequentati della città, non sopporta tutta questa realtà, conosciuta per lo più attraverso il solo diaframma mediatico; ne è spaventata, non la capisce (né vuole capirla), e la detesta. Una signora, abitante di un tranquillo borgo della Charente, enumera le tre ragioni del suo voto: ci sono troppi stranieri in Francia, bisogna difendere la nostra identità cristiana e non se ne può più dell’impunità di alcuni. È il voto di chi non vuole vedere neppure l’ombra di eventuali “problemi sociali” proiettata sul suo tranquillo scenario quotidiano.
Culture metropolitane e ossessioni identitarie
Andando sabato 15 giugno a Parigi, alla manifestazione indetta da tutte le forze della sinistra, sindacali, associative e partitiche, per sostenere il nuovo Front Populaire, mi sono detto che, oltre alle determinazioni economiche, nella scelta del voto conta inevitabilmente anche la cultura: la cultura della grande città, come crocevia d’individui conflitti e storie, di contro alla cultura di quelli che credono esista una sola forma di vita, sacra e intoccabile, ereditata da qualche vago e fantasmatico passato. Ma verso il Rassemblement National vanno ormai anche soggetti improbabili. Non è possibile avanzare cifre, eppure da diversi anni, e ancor più dopo il 7 ottobre, non è più tabù considerarsi, in quanto ebrei, simpatizzanti dell’estrema destra. Ma lo stesso si può dire per i francesi d’origine africana, in quanto il voto per Le Pen fornisce loro una sorta di patente di “francesità” indiscutibile. Per non parlare dei territori d’oltremare, come la Réunion e la Guadalupa, dove il primo partito è l’RN. Vi sono poi i giovani, sedotti massicciamente dal presidente del partito, il ventottenne Jordan Bardella, grazie alla sua pratica assidua di Tik Tok. Il grande scoop è che, a differenza di Macron, anch’egli frequentatore della piattaforma cinese, Bardella ha un vero apparato digerente, e non un intrico di cavi artificiali da androide tecnocratico. Infatti Bardella ama farsi riprendere mentre beve un calice di bianco dopo un meeting di campagna, o si getta su un hot-dog, prima di un intervento pubblico. Bardella non fa sermoni, si esibisce nella sua pura umanità (animalità) non-politica, e i suoi spettatori scoprono con eccitazione che anche i politici visti alla TV mangiano un paio di volte al giorno, hanno fame e sete, sono stanchi o eccitati, ridono e fanno battute sceme.
A Champigny, dove vivo, cittadina alla periferia di Parigi, una volta parte della “cintura rossa” (industriale e comunista), il primo partito alle elezioni europee è La France Insoumise (29%), segue Bardella (18%) e terzo partito i socialisti (13%). Qui tutte le sinistre assieme (verdi e comunisti inclusi) hanno fatto il 52%, nonostante la giunta attuale sia passata a destra alle ultime elezioni municipali. Ma si è trattato di una sanzione meritata, dopo un regno ininterrotto dal 1950 del Partito Comunista, il cui governo si era fatto assai sonnolento negli ultimi anni. La città, però, è rimasta “à gauche”, ancora impermeabile all’onda lepenista. E questo nonostante la grande concentrazione di classi popolari, e i reali problemi d’insicurezza nei quartieri, dove una piccola malavita è ben radicata. Qui i poveri non mancano, come J, madre di quattro ragazzi, lavoro casalingo, un solo salario per tutti, quello del marito che ha un impiego in un supermercato. Che sia povera non te ne rendi conto: manda avanti con efficacia militare vita scolastica e attività ricreative dei quattro figli. Ma vivono in un appartamento molto piccolo e si possono permettere la carne una volta sola alla settimana, e si tratta di pancetta. Vestiti e cosmetici sono acquistati per qualche euro esclusivamente sui siti cinesi. J non so cosa voti. Non sopporta i giovani spacciatori che si sono installati sotto il suo palazzo. È nata in Francia da genitori caraibici. Forse non vota proprio. Forse vota Bardella. Forse vota comunista come la maggior parte delle sue amiche dell’associazione di quartiere.