Dario Fo. La figlia del papa
Che si ricordi, nessun premio Nobel per la letteratura aveva mai esordito nella narrativa a 88 anni. Ci voleva Dario Fo, che esordisce nel genere con una biografia romanzata di Lucrezia Borgia (La figlia del papa, Milano, Chiarelettere, 2014. Pagg. 190, 13,90 euro).
In una fra le mille e mille interviste concesse durante il lancio dell’opera, il drammaturgo luinese ha confessato: “Quando ho iniziato a scrivere, non pensavo a Franca Rame. Pagina dopo pagina, però, mi sono accorto che Franca era lì accanto. Allora, sì, la mia Lucrezia è anche Franca. Le due donne hanno in comune la discrezione e il pudore con cui hanno combattuto tante battaglie al fianco dei più deboli”.
Nella ricostruzione di Dario Fo, Lucrezia Borgia è proprio questa. Non già l’avvelenatrice impietosa, la donna dissoluta, quella che, secondo l’autore, è protagonista del secentesco Tis pity she’s a whore, di John Ford. No, qui si racconta di una donna ricca e sfortunata, moglie sì di più mariti, è vero, e tuttavia dedita a opere di bene, capace di opporsi alla corruzione e propriamente combatterla.
Anche Alessandro VI Borgia, colui che Lucrezia chiama zio e invece è il padre illegittimo di lei, non è la figura deplorata da Machiavelli nel capitolo XVIII del Principe, ma un riformatore. In altra intervista, Fo si spiega così: “Come il nostro (sic) Papa Francesco, anche Alessandro VI vuole cambiare tutto. Appena eletto pontefice, mette a nudo la sua vita con i parenti; e nessuno ha mai raccontato i suoi dolori quando, ucciso uno dei suoi figli, chiama a raccolta i cardinali e, appunto, impone la rivoluzione dentro la curia romana”.
Il primo romanzo di Fo è, come si vede, un romanzo a tesi. Non se ne leggeva da un po’, e sarà forse cura d’altrui stabilire quanta sia la parte narrativa del testo, quanta quella di saggio, quanta, eventualmente, quella di pamphlet. Poco importa di fronte a pagine scritte con tanta passione e conseguente, necessaria ingenuità. Si prenda a esempio un dialogo fra Papa Alessandro e Cesare Borgia, suo figlio malvagio (pag. 58):
“Padre, hai recitato una sceneggiata davvero sconvolgente: complimenti!” “Lo sapevo che avresti preso male questa mia decisione, figlio” lo anticipa il papa. “Scusa, ma a te non è mai successo di entrare in crisi per qualcosa? Per la vita che stai conducendo, ad esempio?” “Padre, eviterei di parlare di me e darei un orecchio, come si dice, a ciò che dicono di te tutti coloro che in questo momento fingono di sostenerti e che, come te, sembrano caduti da cavallo, fulminati sulla via di Damasco, pentiti e pronti a trasformare il mondo”.
Più interessante ancora, verso la fine del racconto, un dialoghetto amoroso fra la Borgia e Pietro Bembo, che si svolge a Roma nel 1504. Alla vista di colui, Lucrezia stupisce:
“Temevo proprio di non vederti più”. “In verità, vedendoti assisa su questo letto mi sono mancate le parole e il coraggio per venirti a confortare”. E lei, accarezzandogli il viso: “Di te non sono solo le belle parole che mi mancano, ma la tua presenza”. “Vorrei davvero che la mia presenza bastasse a portarti via tutto il dolore”. “Stringimi, ti prego, chi mi rimane adesso se non te”.
Lo storico della letteratura ricorderà che le belle parole non possono non essere quelle degli Asolani, che Bembo pubblica da Aldo Manuzio nel 1505. Il cinefilo ricorderà che dialoghi si ascoltano nel famoso Lucrezia Borgia di Christian-Jacque (Lucrezia è un’indimenticabile Martine Carol). Il lettore comune deporrà questa Figlia del papa con un poco di comprensibile sbigottimento.