Metazoa di Peter Godfrey-Smith / Gamberi, polpi e altri pesci interiori
All’inizio degli anni ’90, ai margini di un incontro di Spoletoscienza, uno Steven Jay Gould insolitamente divertito raccontava di un pranzo consumato qualche giorno prima a Parigi insieme al suo editore francese, entusiasta dell’ultimo libro che stava per pubblicare e così convinto delle tesi di Gould da provare a spiegare, al suo stesso autore, le ragioni per cui l’evoluzione degli organismi viventi non poteva più essere illustrata dalla metafora della scala del progresso. Tutto bene, finché l’appassionato commensale, al momento del dolce, come una candelina sulla torta gli aveva mostrato in anticipo la prova di copertina: con il disegno di una scala orientata da sinistra a destra, dal basso verso l’alto e con homo sapiens sull’ultimo piolo. Potenza delle metafore. Che Peter Godfrey-Smith con Metazoa pubblicato in originale nel 2020 e arrivato in libreria in Italia da qualche mese per i tipi di Adelphi, prova a smontare immergendosi di nuovo negli oceani, come aveva già fatto con Altre menti, da vero “palombaro immerso nella scienza della vita” come nel risvolto di copertina lo celebra il biologo Carl Safina, autore del primo saggio della indispensabile collana Animalia.
“Anche se l’abitudine di parlare di loro in questi termini sembra difficile da sradicare, gli animali non formano una scala che va da forme “inferiori” a forme “superiori”. Sull’albero genealogico, alcuni compaiono più in basso perché sono più antichi. Gli insetti odierni, però, non sono inferiori a noi; tutte le creature oggi viventi si trovano in cima a quell’albero […] Certi animali sono più complicati di altri in vario modo ma in biologia non c’è spazio per una scala che raccolga tutte le forme, da quelle inferiori a quelle superiori, come sembrava naturale prima di Darwin”.
Da qualche tempo non sono pochi i libri che, tra le altre e buonissime ragioni per cui vengono scritti, provano a sradicare l’immagine metafora – potentissima, c’è da dire, dalla quale è difficile emanciparsi – della scala progressiva che ci pone sul gradino più alto del podio evolutivo in qualità di esseri “superiori”. Ancorché non definitivamente tali. E infatti tutte o quasi le distopie fantascientifiche si interrogano su quanto a lungo sapremo mantenere la supremazia acquisita – che sia stata teleologica necessità o casuale combinazione – prima di cedere lo scettro alla prossima specie dominante, in genere quella delle macchine intelligenti da noi stessi progettate: un racconto tanto obbligato quanto esaurito.
A maggior ragione imprescindibile e meritorio diventa il tentativo di destrutturarne la narrativa, accingendosi ogni volta a ridisegnare il piano prospettico di quell’albero intricato del quale anche noi siamo un ramo, percorrendo di nuovo la lunga storia di noi stessi, magari immergendosi ancora una volta in quelle acque da dove tutto è partito, dalla vita alla mente, qualcosa è anche tornato indietro, come i delfini e i capodogli, e dove è ancora possibile incontrare specie e individui che testimoniano di svolte che oggi sappiamo in buona approssimazione ricostruire ma che in quell’altrieri, di qualche centinaia di milioni di anni fa, avrebbero potuto premiare uno sviluppo diverso, altrettanto legittimo, forse non meno complesso e interessante, ma la cui visione ci è preclusa da tutta la storia che invece ha portato proprio noi a raccontarla. Bel tema fantascientifico, sarebbe, per uno scrittore che volesse cimentarsi con l’immaginazione, non necessariamente distopica, di uno o più contro-passati.
Libro affascinante, quello di Godfrey-Smith, ancorché non del tutto coeso – proverò ad argomentare in chiusura – di assoluta raccomandabile lettura e non solo per il tema.
Per la scrittura, per esempio, che procede restituendo l’esperienza acquatica delle osservazioni, muovendosi quasi al rallenty senza quella gravità della terra ferma (la stessa che l’autore avverte all’inizio del capitolo 8 – “Sulla terraferma” non a caso – uscendo dalle immersioni, quando la muta e l’attrezzatura improvvisamente pesano una tonnellata) e che a volte caratterizza altre trattazioni più “pesanti”, certamente meno agili di quella che accompagna il lettore di Metazoa. Ed è sempre una piacevolissima sorpresa quando il genere di discorso si costruisce isomorficamente rispetto al piano del contenuto di un argomento complesso e difficile: ne facilita assai la comprensione, molto più delle “necessarie” quanto velleitarie semplificazioni e delle improbabili traduzioni dall’italiano all’italiano. E non è solo una notazione di stile: il filosofo cognitivista Daniel Dennett, ricorda proprio Godfrey-Smith, nota che quando osserviamo animali lontani da noi, siamo enormemente influenzati “dal tempo e dal ritmo dei loro comportamenti”. Metazoa è raccomandabile anche per le conoscenze che si fanno. Magari non i più esigenti habitué, ma certo gli occasionali spettatori di National Geographics o di Airone hanno facile se non esclusiva familiarità con gazzelle, felini di ogni tipo, elefanti, pesci coloratissimi, uccelli di ogni taglia: ma con i granchi decoratori? E le spugne a canna d’organo, quelle vitree e il Cestello di Venere (Euplectella aspergillum), i gamberi pulitori trasparenti e quelli pugili? Il gambero pugile (nome scientifico, Stenopus hispidus) ha un corpo lungo qualche centimetro, due grandi braccia con chele potenti e lunghe antenne, più lunghe dell’intero corpo. Straordinario l’incontro del palombaro Godfrey-Smith con uno di loro che, in un combattimento, aveva perso una delle sue grandi braccia armate.
Aggrappato a testa in giù su una roccia, se ne vedevano solo alcune lunghe antenne: “Pensai, “Perché non le tocchi?” La cosa avrebbe potuto spaventarlo, ma se voleva poteva scappare sotto la roccia. Così allungai una mano e con delicatezza gli accarezzai un’antenna, sfiorandola. Con mia grande sorpresa, il gambero scese dalla roccia e mi restituì lo sguardo […] l’occhiata in pieno volto lanciatami da questo gambero mi lasciò sbalordito”. In effetti, c’è da rimanere sbalorditi, per non parlare delle ascidie che starnutiscono… ma torneremo a parlarne.
Si fa conoscenza anche di luoghi che nemmeno la penna di Jules Verne: Octopolis e Octlantis, due siti australiani per l’octopus watching, due scenari marini dove nel primo caso, probabilmente in conseguenza del naufragio di qualche mini imbarcazione o, comunque, della caduta di un oggetto fabbricato dall’uomo, un polpo o forse due sono riusciti a farsi una buona tana, volgendo a loro beneficio la dinamica preda-predatore, mangiando pettini e lasciando sul posto conchiglie vuote che, accumulandosi, hanno fornito materiale da costruzione per tane ancor più sicure, spazio per nuovi amici… e così via; a Octlantis, invece, probabilmente grazie ad un paio di rocce affioranti dal fondale che debbono aver facilitato i primi “coloni”, si è formata un’altra comunità che i naturalisti sommozzatori come Godfrey-Smith o Matt Lawrence studiano con passione.
Per capire cosa? Per provare a indagare ancora una volta la dinamica materia-anima, mente-corpo, il rapporto tra materia, vita e mente che accompagna la riflessione filosofica almeno da Aristotele ai giorni nostri; per rispondere alla domanda di Thomas Nagel su cosa si prova ad essere un pipistrello, cosa significhi provare qualcosa, sentire qualcosa; per colmare lo iato esplicativo indicato da Joseph Levine giacché, se siamo sufficientemente certi che la mente debba avere a che fare con una base esclusivamente fisica e benché le difficoltà poste da altri approcci ci convincano che il materialismo debba essere vero, pure “è difficile capire perché lo sia, perché le cose possono stare così”.
Per altro, avverte Godfrey-Smit, lo scopo di Metazoa non è quello di rispondere alla domanda di Levine, che è compito delle neuroscienze: più semplicemente – ma insomma! – l’autore si prefigge di capire “perché noi proviamo qualcosa a essere il tipo di creature materiali che siamo […] l’obiettivo principale della mia indagine non è costituito dalle complicazioni della coscienza umana, ma dall’esperienza in generale, qualcosa che potrebbe estendersi a molti altri animali”. Una ricerca e un libro per esplorare l’evoluzione della soggettività, cosa sia e come venga in essere, essendo i soggetti il luogo dell’esperienza, “…il luogo in cui essa abita”. Progetto difficile, – mette in guardia Godfrey-Smith – che prova a dimostrare come un universo di processi che non sono mentali o coscienti di per sé stessi, possa organizzarsi così da generare l’esperienza “sentita”: una mente che è generata da una parte dell’attività che ha luogo nel mondo, “…spesso in assenza di mente”.
Il progetto di un materialismo biologico. Quello dell’autore. E se in Altre menti, partiva e girava per buona parte intorno al Polpo, in Metazoa, sono molti e diversi gli animali scovati – per lo più in mare – ed osservati alla ricerca delle fasi di transizione, graduali vedremo, nell’evoluzione della mente.
Se si parla di vita, il punto di partenza è sempre la cellula in un tempo vicino ai 3,8 miliardi di anni fa (la Terra ne ha all’incirca 4,5), e alla regolazione della vita, portando ordine nella baraonda intracellulare, molto contribuì il controllo dell’elettricità che certamente è alla base del successo delle rivoluzioni industriali del XIX secolo, ma che era già stata imbrigliata miliardi di anni fa: come afferma Maureen O’Malley, “essere vivi richiede che si impari a coesistere sulle montagne russe dell’ossidoriduzione, in un costante dai e prendi”. Se si parla di animali pluricellulari, di Metazoa – termine introdotto da Ernest Haeckel in contrapposizione ai Protozoa (il prefisso “meta” in origine significando “dopo e accanto” ma poi avendo assunto la connotazione di “superiore”… di qui la potenza della matafora) – comunque si ri-parte da un eucariote unicellulare, ricordando appunto la prima scoperta/rivoluzione dell’elettricità, passando per la comparsa dei sistemi nervosi e dei sistemi muscolari dai quali nasce l’azione su scala pluricellulare; si riflette sui concetti di soggettività e agentività; si arriva al bilateralismo, passando per la conoscenza dell’Ediacarano, un tempo meno noto e per molto tempo considerato placido e silenzioso al cospetto dell’esplosione del Cambriano, di cui molto abbiamo appreso leggendo i libri meravigliosamente scritti da quello Steven J. Gould che ricordavamo all’inizio.
“Con il Cambriano – conferma Godfrey-Smith – ci fu una corsa agli armamenti sia per quanto riguarda l’azione, sia per le abilità sensoriali”. Nel Cambriano osserviamo già gli artropodi ma stanno per arrivare vertebrati e cefalopodi che, nella dinamica studiata dall’autore, occuperanno il centro della scena. In questa storia, sempre affascinante da seguire, qualsiasi autore la ripercorra, quale che sia la sua idea meravigliosa, i pesci hanno un ruolo speciale, “sono nel nostro gruppo di animali”. Neil Shubin ci invita a pensare al pesce che è dentro di noi, al nostro “pesce interiore”: noi non abbiamo un gambero o un polpo interiore, i nostri parenti più prossimi sono pesci dall’aspetto tozzo e sgraziato, pesci dalle pinne lobate, oggi rappresentati dal celacanto, un abitante degli abissi.
“Che bisogno avevano i pesci di essere intelligenti?”: formidabile la domanda di Godfrey-Smith! “Gran parte della risposta sembra risiedere nel fatto che i pesci sono animali gregari […] l’interazione sociale crea un ambiente complesso per un animale, e molto spesso è un fattore chiave nell’evoluzione dell’intelligenza […] moltissimi pesci si intrattengono con altri pesci almeno una parte della loro vita”. E per collegarci idealmente alla voce “Bontà”, redatta su queste pagine da Annalisa Ambrosio: “C’è una battuta famosa di Jean Paul Sartre – ricorda Godfrey-Smith – che per inciso aveva una fobia per granchi, polpi e altre cerature marine, “L’enfer, c’est les Autres”. Nel caso dei pesci, sembra che gli altri siano il paradiso”. Connettersi con gli altri. Pensare al nostro pesce interiore. Riprendersi la bontà.
Ma tornando e ripartendo dal Cambriano: da lì più ossigeno nell’atmosfera, e poi la capacità di movimento, il bilateralismo, la dinamica azione-sensazione, i pesci e poi la terraferma, inizialmente con gli artropodi (ragni e millepiedi) che sulle terre emersero almeno sette volte distinte, mentre 380 milioni di anni fa, i vertebrati il “passo epocale” sulla terraferma lo fecero una volta sola con i “sarcopterigi”, i pesci dalle pinne carnose di cui abbiamo già detto. Prima, molto prima, tornando indietro 600 milioni di anni, un verme piatto fu probabilmente l’ultimo antenato comune tra noi e il Polpo, la creatura che potrebbe avere 1 + 8 menti, le altre essendo dislocate nelle braccia. Forse 300 milioni di anni ci separano da una lucertola dall’aspetto tozzo, intenta ad arrampicarsi in una palude, quattro zampe e buoni occhi, ultimo parente comune tra noi e gli uccelli. Una successiva biforcazione è quella tra i sinapsidi, il nostro ramo, e i sauropsidi, quello dei dinosauri vincenti… fino al botto del meteorite, 60/70 milioni di anni fa: ma prima, forse, circa 252 milioni di anni or sono, ce n’era stato un altro di meteorite, oppure una combinazione di cause con forti ripercussioni sul clima, che i dinosauri invece li aveva premiati… la lotteria dell’evoluzione!
Che ha portato infine anche a noi, esseri coscienti. Fu una transizione di fase o un processo graduale? “Per gradi”, il titolo dell’ultimo capitolo di questa ennesima ma utilissima ricapitolazione, anticipa la convinzione di Peter Godfrey-Smith. “A guidarci – riassume – è stata l’idea che la storia della mente e dell’esperienza esperita scaturisca da quella della vita degli animali” che ha prodotto un nuovo tipo di essere dotato di modalità di coinvolgimento attraverso i sensi e l’azione – soggettività e agentività – e poi “a partire da un certo punto, l’agire efficacemente come un sé implica che si abbia un senso del sé […] Se vale il materialismo, allora le tempeste che hanno luogo all’interno delle cellule, l’intreccio delle attività di innumerevoli di loro, i ritmi perturbati, il loro coordinamento… su ampia scala sono tutto materia della mente”. Ovvero, non bisogna pensare che la mente sia una conseguenza di tutto questo, ma piuttosto che essa coincida con quelle attività: “L’esperienza è quello che si prova a essere quel sistema: non a guardarlo, non a descriverlo, ma a essere lui”. E tutto ciò gradualmente, con l’idea che nell’evoluzione le menti e l’esperienza non compaiano tutt’a un tratto, ma si presentino alla vista poco a poco, un po’ alla stessa maniera in cui torniamo alla coscienza al risveglio dal sonno. L’esperienza umana è una miscela di vecchio e nuovo e l’errore, per Godfrey-Smith, sarebbe di pensare che solo quello che è studiato negli esseri umani “è” l’esperienza: “L’alternativa è che se un cervello è diverso dal nostro, la sua esperienza sarà anch’essa diversa, ma non assente”.
Qual è nel mondo la configurazione generale della mente, si chiede l’autore? O un deserto o una giungla. Nel deserto, la mente è degli esseri umani e di qualche altro mammifero; nella giungla la mente è ovunque o quasi (fino al limite del panpsichismo). Godfrey-Smith non è convinto dell’alternativa, alla quale contrappone l’ipotesi di un biopschismo, l’idea cioè che tutti gli esseri viventi siano senzienti: “La sensienza non è assolutamente ovunque, neanche fra le varie forme di vita. Ce n’è però moltissima, dai gasteropodi (forse) ai cavallucci marini (sicuramente). Il mondo è più pieno, più ricco di esperienza di quanti molti abbiano ammesso”.
Libro di piacevolissima lettura, Metazoa, a dispetto di una certa mancanza di coesione, anticipavo, almeno nell’esperienza del recensore. Ché i due registri tra i quali si muove, la descrizione naturalistica nelle fenomenali immersioni, e la trattazione più propriamente saggistica, si alternano, e non sempre si avverte una chiara consequenzialità tra l’una e l’altra. Con, in più, l’impressione che la genuina meraviglia di fronte ad alcuni strabilianti cittadini delle profondità marine, forzi il confronto antropomorfo: con spugne che si espandono e contraggono in un “sonnolento e impercettibile starnuto”, polpi e gamberi che restituiscono lo sguardo “lanciando occhiate che lasciano sbalorditi”, canocchie che dicono, “Che vuoi? Che vuoi? con tono irritato”, e foche vicine a risolvere una contesa “a testate”. Ma, qualcuno sostiene, anche l’antropomorfismo potrebbe essere un carattere che abbiamo acquisito, evidentemente per qualche utilità.
In opposizione all’autorevolezza di Wittgenstein e rivalutando invece la convinzione di John Dewey, secondo il quale la mente ha sì un ruolo pratico, quello di guidare l’azione, ma è anche un “campo estetico”, un luogo dove si possono costruire scene e narrare racconti, mettendo da parte le circostanze attuali (riferendosi, l’autore, all’abilità dell’elaborazione off-line), Peter Godfrey-Smith ci invita a entrare nel suo giardino, quello che il filosofo austriaco rifiutava di considerare con riferimento alla mente, creando un’arena, un campo pieno di cose, oggetti, animali straordinari e storie fantastiche. Scrivendo Metazoa: un libro da leggere.