Intervista ad Armin Linke / L'apparenza di ciò che non si vede
“L’apparenza di ciò che non si vede” è il titolo dell’ultimo progetto di Armin Linke (Milano, 1966), in parte presentato nel 2015/2016 allo ZKM di Karlsruhe ed ora in mostra al PAC, in cui scienziati e specialisti di vari ambiti disciplinari* rileggono il suo archivio fotografico. In questo modo si innesca un processo di ricontestualizzazione e di trasformazione delle immagini, che acquistano un nuovo significato. Come afferma Armin Linke: È stato interessante vedere ciò che loro vedono nell’immagine, che spesso è differente dall’idea iniziale per cui io ho realizzato i singoli scatti. Mi interessava questo scarto tra quello che io vedo in un’immagine e quello che vi vedono gli altri. L’idea era di fare una mostra in cui l’immagine fotografica non fosse il punto di arrivo ma il punto di partenza per un dialogo.
Perché l’archivio, innanzitutto?
Il tema dell’archivio è pericoloso perché va molto di moda nell’ultimo periodo. O meglio, è un tema urgente per la pratica fotografica perché negli ultimi dieci/quindici anni c’è stata la transazione dall’analogico al digitale. La stessa materia dell’informazione è cambiata e gli archivi fotografici si sono semplicemente dissolti, digitalizzati. Il metodo fotografico è sempre lo stesso da Canaletto in poi: quello della camera oscura. All’inizio era il vetro su cui si disegnava, poi un dagherrotipo, poi un altro tipo di emulsione, ora è un chip digitale. Nella fotografia stessa non cambia nulla, a cambiare è invece la velocità di distribuzione che ora è possibile. A me interessava incentrare la mostra non sul tema dell’archivio ma domandarsi come usare l’archivio per attivare dei processi, e non bloccarli.
In passato hai già lavorato con l’archivio. Vuoi parlarci di questi progetti e di come questi poi hanno avuto influenzato “L’apparenza di ciò che non si vede”?
Un lavoro importante per la genesi del progetto è il sito di Bruno Latour “Modes of Existence" (modesofexistence.org). Per questo suo progetto aveva bisogno di alcune immagini che potessero funzionare come delle note visive, e per questo motivo mi ha coinvolto. Abbiamo fatto una specie di workshop con i suoi studenti ed io ho messo a disposizione il mio archivio. Nel giro di due giorni abbiamo scelto alcune fotografie e le abbiamo ordinate per tema e per concetto. È stato molto interessante vedere come veniva letto tutto l’archivio e non la singola immagine. Così a quel punto è scattata l’idea che ci potesse essere una lettura all’incontrario, che ci potesse essere uno scambio: così come io potevo mettere a disposizione delle fotografie, qualcun altro poteva mettere a disposizione un testo.
Un altro progetto importante dove ho operato come curatore insieme a Doreen Mende ed Estelle Blaschke è “Double Bound Economies”. Nasce dall’archivio di un fotografo della Germania dell’Est, che ha fotografato soprattutto gli elettrodomestici che venivano prodotti nell’Est ma venduti nell’Ovest per fare valuta. Proprio nella produzione stessa di queste fotografie era contenuta una sorta di schizofrenia: facevano vedere il lavoratore socialista ma anche l’oggetto come feticcio venduto nel mondo capitalista. Abbiamo così messo a disposizione l’archivio a diversi specialisti per vedere quali fotografie sceglievano dall’archivio. E questo stesso meccanismo poi l’ho applicato alle mie stesse fotografie. In un certo senso facevo una specie di passo indietro diventando curatore dell’archivio e non solo autore, allargando il gruppo di lavoro.
Questo gioco con le immagini e con il pubblico è presente anche nel progetto “Phenotypes/ Limited Form” e lì ho collaborato con Peter Hanappe che lavora presso the Sony Computer Science Laboratory Paris. In quel momento ero sempre allo ZKM: insegnavo all’università di design di Karlsuhe (che è dentro lo ZKM) e anche questo progetto è stato fatto con l’aiuto di studenti. Il pubblico aveva a disposizione mille fotografie che poteva disporre lungo la parete e poi riordinare, riformattare. In poche parole diventavi curatore della mostra. Lo spettatore poteva disporre di otto fotografie su un tavolo che, con un sistema RFID, riconosceva le fotografie e permetteva di stamparle in un libro in tempo reale. Il visitatore interagiva così direttamente con le fotografie e con l’archivio. È uno dei primi tentativi per un nuovo modo di relazione con il pubblico che sia ludico, in cui ci sia una specie di scambio, un’attivazione.
Come nasce la mostra al PAC?
Ho creato una specie di gruppo curatoriale con Linda van Deursen, Jan Kiesswetter, Alina Schmuch, Martha Schwindling. Il periodo di sviluppo della mostra ha preso quasi due anni, ma a vedere la mostra quasi non ce ne si accorge. Si è trovato un modo di esporre le fotografie dove il testo fosse importante quanto le fotografie, e questo si vede forse di più nel libro che accompagnerà la mostra. Questo libro è costruito in ordine alfabetico con ciascun autore e le immagini da lui scelte. E alcuni hanno scelto la stessa fotografia, ma con letture contrastanti. Per cui capita che ci siano delle immagini ripetute, che è una cosa insolita, tanto che il tipografo ci ha subito telefonato segnalandoci l’errore.
Come è stato gestito il tuo archivio?
Le fotografie in mostra al PAC vengono da vent’anni di produzione e facevo una pre-scelta di 500/2000 foto in base alla persona a cui chiedevo di intervenire sull’archivio e ai temi che immaginavo potessero interessare. Dopo di che facevano dei workshop di mezza giornata o una giornata. Stampavo tutte le fotografie in A4 e poi ne discutevamo. Il nostro dialogo veniva registrato, sia in forma audio sia video, ma giusto per capire di che fotografia parlavamo, per poterla rintracciare. E la scelta è stata fatta su fotocopie in A4: quello che mi interessava era il contenuto concettuale delle fotografie e non la parte estetica.
C’è qualche libro che consideri importante per il tuo modo di lavorare su testo e immagine?
Ci sono due opere molto importanti per la costruzione della mostra. La prima è il libro di Berger Ways of Seeing, un libro che nasce da un’opera in movimento, una serie della BBC. Tra l’altro per me è stato importante per la mostra al PAC avere come traduttrice Maria Nadotti, che ha curato la versione italiana del libro. È quasi un omaggio. Un altro lavoro che è stato interessante e che mi piace molto è il Diario di lavoro di Bertold Brecht, nei quali l’autore durante il suo esilio ad Hollywood ritaglia alcune immagini giornalistiche e non artistiche e scrive delle specie di haiku. Non è quindi tanto un diario quanto un commento, ed è molto interessante nel suo lavoro questa tensione che nasce tra testo ed immagine.
ARMIN LINKE. L’apparenza di ciò che non si vede
16 ottobre 2016 — 06 gennaio 2017
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
a cura di Ilaria Bonacossa e Philipp Ziegler
*Ariella Azoulay, scrittrice, curatrice d’arte, filmmaker, teorica della fotografia e della cultura visiva, docente di Cultura moderna e media presso la Brown University; Bruno Latour, antropologo francese e professore presso l’Institut d’études politiques di Parigi; Peter Weibel, presidente e amministratore delegato dello ZKM e docente di Teoria dei media presso la University of Applied Arts di Vienna; Mark Wigley, teorico neozelandese dell’architettura; Jan Zalasiewicz, geologo britannico e presidente dell’Anthropocene Working Group – , la mostra del PAC aggiunge il testo e la voce di Lorraine Daston, direttrice dell’Istituto Max Planck per la Storia della Scienza (MPIWG) di Berlino; Irene Giardina, fondatrice di un laboratorio dedicato ad applicare metodologie della fisica statistica allo studio teorico e sperimentale di comportamenti collettivi in sistemi biologici e gruppi animali, e professore associato presso il Dipartimento di Fisica, Università di Roma La Sapienza; e Franco Farinelli, direttore del dipartimento di Filosofia e Scienze della comunicazione presso l’Università di Bologna, dove insegna geografia.