Contro il no profit. A che pro?
Pubblichiamo con piacere la replica di Giovanni Moro alla recensione al suo libro scritta da Nicola Villa e che potrete leggere qui.
Nella sua recensione pubblicata in questo sito qualche settimana fa, Nicola Villa giudica il mio libro Contro il non profit «un testo in ritardo, fuori tempo massimo, un’occasione persa», e ancora «deludente e superato». Ohibò. Sinora mi ero solo sentito dire: "È il libro che avrei voluto scrivere", e: "Finalmente qualcuno ha tirato il sasso nello stagno". E le stesse critiche di alcuni addetti ai lavori mi hanno fatto pensare che il libro almeno un po’ abbia colto nel segno. In questo caso, invece, il mio lavoro riceve una vera e propria stroncatura globale, che va dal linguaggio ai contenuti.
Non conosco il recensore né il suo lavoro e di questo faccio ammenda. Però cerco di capire le ragioni di tanta hybris, non prendendo nemmeno per un attimo in considerazione la ipotesi che essa sia dovuta al semplice gusto di stupire e di cantare fuori dal coro. Sfuggo quindi alla tentazione alla moda di dire che me ne farò una ragione, perché non è giusto e nemmeno educato nei confronti di qualcuno che ha fatto la fatica di leggere il mio libro, anche se non lo ha letto tutto.
Una premessa è però necessaria. Io non sono uno studioso del welfare e nemmeno del cosiddetto terzo settore. Effettivamente in una precedente vita ho diretto un importante movimento di cittadini e in questa continuo a studiare la cittadinanza attiva come fenomeno sociale e politico nel quadro di grandi mutamenti nella cittadinanza: non si tratta però del magma del non profit, ma di una sua parte molto più piccola (100.000 contro 300.000 organizzazioni in Italia, quelle di cui parla Luca Rastello nel suo libro, per intenderci).
Il libro è stato quindi pensato e scritto volutamente dal punto di vista di un osservatore partecipe ma non specialista, utilizzando conoscenze e materiali a disposizione di tutti. Ciò è specificato ripetutamente nel libro e mi dispiace che questa rivendicazione dei limiti di quanto ho fatto anziché come un punto di partenza venga considerata una grave mancanza. Forse ho tradito delle aspettative, ma i limiti del mio lavoro sono chiaramente esplicitati e non credo quindi di averle generate.
Cos’è che ha così profondamente deluso il nostro recensore? Mi sembra che siano tre i peccati che vengono attribuiti al mio lavoro. Il primo è che, a differenza di Zaccheo del racconto evangelico, non sono salito sull’albero per scrutare cosa si approssimava all’orizzonte (nel caso specifico Gesù), essendomi invece occupato del passato. Il secondo peccato è che il libro si occupa della invenzione del non profit come concettualizzazione scientifica e di policy e non dei mutamenti strutturali, economici e sociali del welfare; cioè la cosa veramente importante. Il terzo peccato è quello di aver ignorato che da tempo nel mondo del cosiddetto non profit sono state sviluppate analisi e riflessioni critiche sulle degenerazioni del settore e che il mio libro, al meglio, arriva buon ultimo e comunque in ritardo.
Il primo peccato lo ammetto: il mio libro parla di un processo che si è svolto tra gli anni '90 e oggi, quello della invenzione della etichetta "non profit" e della sua affermazione globale attraverso un sistema di classificazione da esso derivato da parte di un gruppo di ricercatori americani e una invidiabile politica di comunicazione e relazioni. Essa è diventata così il modo canonico di organizzare la realtà da parte di policy maker, istituti di statistica, ricercatori, dirigenze politiche, ecc., anche nella sua versione di “terzo settore”.
Questa invenzione ha avuto una serie di conseguenze negative sia sul piano della conoscenza che della operatività, dovute alla debolezza intrinseca di questa definizione residuale (non-qualcosa), ma anche al suo sostrato ideologico connesso a un approccio economicista e a una visione di mercato del welfare. Che cosa sta accadendo e che cosa ci aspetta dipende anche dalla capacità che avremo di capire cosa è successo. E con gli occhiali sbagliati si può anche salire su una gru, ma si vede poco lo stesso.
Questo ci porta dritti al mio secondo peccato, quello di aver scambiato le idee con la realtà, ossia di aver attribuito a una concettualizzazione la capacità di influire su processi sociali, economici, politici ecc., in questo caso la ristrutturazione neoliberale del welfare. Il mio recensore, insomma, mi accusa di rovesciare il rapporto tra struttura e sovrastruttura, attribuendo alla seconda una priorità rispetto alla prima che invece non ha.
Ma tra il vecchio Marx (che peraltro non sottovalutava affatto la forza delle rappresentazioni) e oggi ci sono stati 150 anni di ricerca sociale che hanno dimostrato come i processi di costruzione sociale della realtà siano un fattore eziologico della massima rilevanza. La invenzione del non profit è appunto uno di questi processi, in cui le rappresentazioni incidono sul modo di conoscere la realtà e di operare in essa. Che questa concettualizzazione sia connessa a processi sociali, economici, ecc. quali quelli che Villa menziona, mi pare ovvio e non vedo che cosa avrei potuto aggiungere alle molte cose già dette in merito da chi ne sa più di me.
Il mio terzo peccato è quello di non aver considerato che una riflessione critica sul non profit è stata condotta già da molti anni. Non ho niente da dire su questo e non vedo il problema. Piuttosto, mi sarei aspettato che il mio recensore citasse soprattutto il libro Critica della ragione non profit di Paola Tubaro, scritto 15 anni fa e purtroppo esaurito, che io stesso non conoscevo, ma che mi pare il precedente più importante del mio lavoro. Temo tuttavia che Villa faccia una gran confusione tra microcosmo e macrocosmo.
II problema con cui il mio libro si misura, infatti, è lì fuori, nel macrocosmo della cultura di massa, dei media, della ricerca scientifica, delle statistiche ufficiali, dei parlamenti e dei governi, delle istituzioni europee e internazionali. In questo grande mondo il fatto che, detto con molta franchezza e il massimo rispetto, a Scampia un'associazione abbia organizzato un seminario per riflettere criticamente sulla degenerazione del non profit, è purtroppo irrilevante. Tutti tendiamo a pensare di essere il centro del mondo, ma di solito non lo siamo.
Questa notazione mi porta a un'ultima considerazione, più generale, su quanto Villa ha scritto. La cosa che mi ha veramente interessato nella recensione è che il suo autore, sicuramente in ottima fede, si dimostra una tipica vittima del paradigma del non profit. Ciò si può cogliere in tre aspetti dei suoi argomenti. Per Villa il “non profit” è composto da associazioni di cittadini, volontariato, cooperative ecc., mentre invece, che a lui piaccia o meno, è composto anche da Confindustria, sindacati, partiti, enti lirici, fondi pensione professionali, bar, ristoranti, palestre, università private e cliniche religiose.
In secondo luogo anche per Villa il “non profit” opera essenzialmente come costruttore ed erogatore di servizi nel welfare: esattamente quello che pensano i suoi inventori, dimenticando che nel magma c’è anche moltissimo impegno civico nell’ambiente, nel territorio, nella cooperazione allo sviluppo, nei servizi pubblici e di interesse generale, nella lotta alla discriminazione, ecc.
Infine, per Villa il “non profit” era una cosa bella, progressiva e sana all’inizio ma poi è degenerata. Insomma: era una buona idea mal praticata e non, come ci dicono le informazioni provenienti da tutto il mondo, una cattiva idea attuata in modo coerente con i suoi presupposti.
Ecco: la mancata percezione che sotto l’etichetta “non profit” si raccoglie un magma di organizzazioni a cui si dà arbitrariamente un valore soprattutto economico nel mercato dei servizi di un welfare molto più americano che italiano ed europeo e in cui tutto è possibile è proprio l’essenza di questa invenzione, che ha fatto molti danni, in primo luogo a chi (come me e lo stesso Villa) ha invece pensato alla tutela di diritti, alla cura di beni comuni e al sostegno di soggetti in difficoltà.
Che Villa criticandomi aderisca a questo paradigma, anche se, diciamo così, “da sinistra”, ha qualcosa di ironico che confido che il mio recensore prima o poi coglierà. Non è mai troppo tardi, comunque.