Cyrano e la Fata
Era scritto da qualche parte che Arturo Cirillo avrebbe messo in scena prima o poi Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand. L’attore napoletano da sempre lavora sulle maschere, su personaggi che celano la loro identità. Come raccontava Andrea Porcheddu in un libro a lui dedicato (Il falso e il vero, Titivillus 2008), in Cirillo si osservano il ricorso a maschere e la ricerca di squarci su una vita sempre più convenzionale, la marionetta e il disagio per un mondo dove non c’è posto per l’ingenuità, il dubbio, la tenerezza, in uno sguardo sul nostro essere oggi attraverso le strutture della commedia classica. Il corpo e la parola, l’attore e la regia, la lingua del passato e la drammaturgia che affonda il coltello nella carne di oggi vivono in questo autore di teatro una tensione singolare, producendo opere che amalgamano le risate e le ferite di un quotidiano spesso difficile da sopportare.
Tutto questo è avvenuto in lavori su testi del rinnovatore della drammaturgia napoletana, Annibale Ruccello, straordinario attore autore scomparso nel 1986: in L’ereditiera e nei più impegnativi Cinque rose per Jennifer e Ferdinando, pièce piene di simulazioni, di travestimenti, di travisamenti messi in atto per nascondere l’anima, per proteggerla, per rivelarne la solitudine, la disperazione, le oscure trame. Nell’Otello di Shakespeare ha interpretato il maestro di tutte le trappole e gli inganni, Iago. Ha frequentato il naturalismo americano del Novecento, spingendo il pedale sulla epifania di quello che urge sotto le apparenze del perbenismo familiare. E poi, oltre a una costante opera di scavo nel teatro napoletano, da Petito, Scarpetta e Viviani a Patroni Griffi, si è dedicato al classico che forse gli è più congeniale, il nemico di tutte le ipocrisie, quel Molière che usava il teatro come medicina della psiche, come rivelatore: “Attacca i falsi nobili, le probità fittizie, / i falsi coraggiosi, i plagiari È un furore!”.
Ho fatto un salto. Dai Molière di Arturo Cirillo sono passato ad alcune battute del testo da cui è tratto il suo ultimo spettacolo, appunto Cyrano de Bergerac da Edmond Rostand.
La pièce debuttò con grandissimo successo nel 1897: è uno dei caposaldi di un teatro di forte suggestione popolare, ‘pop’ perfino, che da fine Ottocento a oggi ha affascinato vari mattatori per i suoi ritmi spigliati, le sue scene madri che fanno venire i brividi anche agli spettatori più disincantati: i duelli accompagnati da improvvisazioni poetiche e chiusi dalla nota formula “al fin della licenza io tocco”, la dichiarazione d’amore alla bella Rossana fatta di notte, sotto il suo balcone, per procura, con parole ricche di preziosismi, di concettismi, di artifici retorici, messe in bocca e attribuite al bel Cristiano, perché lui, Cyrano, sa che con quel naso che si ritrova, appendice proboscidea, non può aspirare all’amore; poi le rodomontate, gli assalti uno contro cento, la morte del giovane amico, il finale malinconico tra le cadute foglie autunnali...
Il testo si conclude con Cyrano morente e con la notizia dell’apparizione sulla scena parigina (siamo nella seconda metà del Seicento) di un altro spirito caustico, quel signor de Molière che il nostro nasuto eroe accusa velatamente di averlo imitato. E Rostand a Molière guarda con più di una strizzatina d’occhio, facendo di quella Rossana una “preziosa” innamorata delle belle fattezze di Cristiano, ma anche di quelli che crede i suoi virtuosismi di frasi amorose, i suoi ghirigori sentimentali (“l’amore è un apostrofo rosa tra le parole ti amo”, per tutte), una “preziosa” in certi momenti perfino ridicola.
Cirillo ha messo in scena un ansiogeno Avaro e un grottesco Le intellettuali di Jean-Baptiste Poquelin, nonché La scuola delle mogli, e dell’autore ha a cuore la capacità di scorticare la società con perfido garbo, deformando, facendo ridere, sempre con un occhio a non saltare nell’intellettualismo, nel linguaggio condivisibile solo da circoli ristretti. La contaminazione è il segno dell’attore e regista napoletano, all’insegna di un nuovo teatro ‘popolare’, molièrano se mi è consentito, che parli a molti, di cose profonde, con una spinta alla leggerezza, con spessore di pensiero, perfino con una punta, o più di una, di infantile romanticismo.
Nelle note allo spettacolo il regista racconta di essere stato folgorato da bambino, lui che si chiama Arturo in onore del romanzo di Elsa Morante ambientato a Procida, da un musical cui lo portò il padre: un Cyrano riscritto e musicato da Domenico Modugno. E in questo lavoro mobilita una bella compagnia di attori (riprenderò l’argomento), per creare un musical diverso, il sogno di un musical, che possa, grazie a quel popolare, esagerato eroe, Cyrano, far cantare i personaggi, far danzare i corpi (Cirillo aveva iniziato la sua strada nel teatro come ballerino e danzatore), per ritrovare, tra scenografie che richiamano il varietà televisivo o Ginger e Fred di Fellini, un’aria di libertà, un sapore di espressiva felicità infantile. Come con quel lungo naso visibilmente posticcio, tenuto su con un elastico. E allora, naso naso, l’eroe di Rostand, il proverbiale cadetto di Guascogna si avvicina a un altro maestro di avventure mirabolanti, di fughe da assassini, di metamorfosi, di sprofondamenti nelle viscere di pescecani, voli nel cielo sotto la luna, di menzogne seriali: Pinocchio.
Il signore di Bergerac affronta agguati a morte, e ha sempre al suo fianco qualcuno che vuole, come il Grillo parlante, dargli buoni consigli, che vuole moderarne i bollori, gli slanci, sia il cuoco poeta Ragueneau, sia la lenta governante di Rossana, una Lumaca. Con la elle maiuscola, perché essa è servitrice di Rossana, che in questo sogno infantile si sovrappone alla Fatina dai capelli turchini, buona “sorellina” di Pinocchio, amore inconfessato (qua, naso naso, ci sta anche un po’ di Carmelo Bene, che rivelò, impudente, l’attrazione del burattino per la Fata e fece del crescente organo olfattivo un simbolo sessuale). Quel delicato essere amoroso, fantastico, fatato, non eviterà di chiamare a fianco a sé un bel gruppo di girl, impiumate come in una rivista della Wandissima, come non mancherà di apparire un ballettò di cuochi, destreggiandosi, così come in assoli e in duetti, nelle musiche di Federico Odling, che riescono a inventare nuove atmosfere ritessendo note sugli spartiti di Modugno e sulla colonna sonora del Pinocchio di Comencini.
Mente Cyrano, nascondendo il suo amore per Rossana e delegandolo a Cristiano, e mentono tutti, come il burattino. E perfino Rossana alla fine ammette che tanto ha adorato i ricercati pensieri d’amore scritti da Cristiano (sic!) che potrebbe amarlo anche quando fosse brutto: fa consistere, insomma, il suo amore in un’altra apparenza, quella della bella parola, di per sé mentitrice, tanto che quei versi, quelle parole, sono frutto della passione di Cyrano e per Cristiano sono, come la bellezza, “una caduca maschera esteriore”.
I bei costumi di Gianluca Falaschi sono superfetazioni da varietà su semplici basi, piene di lustrini, luccicori, trasparenze e fantastiche suggestioni. Le scenografie di Dario Gessati evocano gli ambienti di Rostand, usando una piattaforma girevole e un fondale luccicante da serata televisiva anni Ottanta. Si fanno poi essenziali e cupe verso la fine, sacchi di sabbia a barricata nella scena spoglia per l’assedio di Arras che porterà la morte di Cristiano; foglie nell’atto ambientato quindici anni dopo, quando Rossana si è ritirata in convento. La scena si apre con Edith Piaf, Les feuilles mortes, e si conclude con lui, Cyrano, invecchiato, che appoggiandosi a un bastone che sembra il ‘figlio’ burattino, l’alter ego Pinocchio, si ammala e muore, con i medici della Fata che cercano inutilmente di rianimarlo. Con un guizzo finale, da monello, perché qui, oltre che nel mondo della menzogna, siamo nella favola che la bugia, la finzione nobilita. Siamo in una storia in cui mascherarsi serve per non affrontare il dolore, l’esclusione. Un mondo dove la falsità può curare o lasciare sospesa l’infinita malinconia con cui si affievoliscono gli amori, le cose, come le immaginazioni dell’infanzia nell’età adulta, con le luci sempre espressive di Paolo Manti, che sfumano, come la storia, come la vita.
Teatro d’attore è quello di Arturo Cirillo. La drammaturgia, delicata, inserisce a puntino i brani e i personaggi di Pinocchio e gioca bene con la vecchia, gloriosa e traduzione demodé di Mario Giobbe. Il testo, già affrontato da attori come Gino Cervi e Gigi Proietti tra i tanti, viene distanziato, senza cancellarne i picchi emozionali. E particolarmente apprezzabile è l’idea di misurarsi con la forma del musical, con una leggera ironia alla Paolo Poli, con il gusto per il salto fantastico alla Copi, in un “viaggio sulla luna” per dirla alla Cyrano.
Cirillo, da rinnovatore dell’antica figura del capocomico, come attore tiene ben salde le redini e le sfumature del gioco, dal sorriso alla serietà alla romantica malinconia. Egli, che ha valorizzatori attrici come Monica Piseddu, Sabrina Scuccimarra e attori come Salvatore Caruso, Michelangelo Dalisi e altri, si accompagna con una bella compagnia. Valentina Picello è la sua frizzante prima donna, una delicata e ammiccante, giocosa Rossana-Fatina. Da ricordare è lo spassoso, fedelissimo Rosario Giglio, nei panni del cuoco Raguenau e di vari altri personaggi. Ma tutta la compagnia si moltiplica nei ruoli, a cominciare dalla spiritosa Giulia Trippetta (la Governate Lumaca prima di tutto), fino agli interpreti dei vari cavalieri e cadetti, Giacomo Vigentini, un Cristiano giovane e (stolidamente) romantico comme il faut, e Francesco Petruzzelli. Deliziosi sono i testi delle canzoni.
La produzione, come spesso avviene di questi tempi, mette insieme un bel numero di sigle, a partire da Marche Teatro, poi Teatro di Napoli, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro Fondazione.
Lo spettacolo, visto al teatro Storchi di Modena in marzo, si replica ancora fino a domenica al Donizetti di Bergamo e allo Stignani di Imola dal 26 al 30 aprile, a chiusura di una lunghissima tournée.
Le fotografie sono di Tommaso Le Pera.