Migrazioni e teatro / Un Supercontinent a Drodesera
Supercontinent è il titolo della 37a edizione di Drodesera, che si svolge negli spazi di Centrale Fies. Per provare a intercettare il senso di questa “pangea ricucita dalle nuove tecnologie così come dalle tratte migratorie, in simbiosi con un territorio che muta aspetto in continuazione, in cui tradizione e innovazione si intrecciano per dare origine a un equilibrio possibile solo grazie alle diversità” – così la descrive la presentazione della manifestazione – sarebbe stato da osservare con la giusta attenzione tutte le diverse iniziative e progetti di cui è composto il festival. Ma in qualche modo si può forse cogliere qualche tratto di questo scenario in movimento anche soltanto attraversando il programma di spettacoli che chi scrive ha potuto vedere, fra il 26 e 27 luglio. O almeno provarci.
ThomasBellinck/ROBIN, SimpleasABC#2, ph. Laura Van Severen
Della migrazione in teatro
È la migrazione il nodo incandescente al centro dei temi affrontati da molti degli spettacoli in programma al festival fra il 26 e 27 luglio: dal flusso di persone che si mettono in viaggio alla prospettiva di coloro che li accolgono, dalle dinamiche gestionali dell'emergenza a quelle alla base del suo sfruttamento, dalle micro-storie delle persone a visioni macroscopiche del fenomeno, dalle ragioni della fuga ai suoi esiti umani, sociali, politici.
In quest'area si trovano tre fra le prime internazionali in Italia programmate a Drodesera, la cui costellazione copre un arco che va dal contesto di innesco del fenomeno, al suo svolgimento, al punto d'arrivo. Il primo passaggio è toccato dall'installazione feroce e delicata di Tania El Khoury (Gardens Speak), che porta il singolo spettatore ad ascoltare la storia di uno dei tanti morti nella repressione delle rivolte siriane, ricostruita minuziosamente grazie a testimonianze dirette e restituita in formato audio. Simple as ABC #2: Keep Calm & Validate di Thomas Bellinck / ROBIN, che ha come oggetto la macro-analisi dei flussi migratori e si interroga sulla funzione delle nuove tecnologie al loro interno, assume invece una forma prossima al musical: la storia è raccontata, commentata, rappresentata da due performer che cantano su una piattaforma rotante accompagnati da musiche live. La messinscena tocca questioni come le modalità di reclutamento alla partenza, i diversi itinerari di viaggio, il soccorso e l'arrivo, con schedatura, accoglienza, integrazione; il tutto, dal punto di vista dell'interazione di questi processi con le tecnologie attuali, dalla stimolazione del fenomeno alla sua possibile gestione. La visione della questione a livello macroscopico, così come viene portata in scena, rende il peso della tragedia e la difficoltà di affrontarla, soprattutto nel contrasto fra la mole abnorme di dati e le figure dei due performer, che – come dicono loro stessi in diversi frangenti – sono “soltanto” umani (così come i rifugiati, i soccorritori eccetera). Così fra informazioni reali e racconti distopici, le immagini suggestive dei grandi sfondi che racchiudono la scena, rimane soprattutto il palese senso di inadeguatezza che domina a 360 gradi il racconto degli attori.
Massimo Furlan, Hospitalites, ph. Alessandro Sala
Migrazioni e oltre: la relazione con l'altro
Infine, Hospitalités di Massimo Furlan si sofferma sull'esito dei percorsi migratori, cioè sul punto d'arrivo delle persone in Europa, sull'impatto di questo incontro sulle comunità locali e sulla quotidianità: insomma, in un sola parola – come recita il titolo – sulla questione dell'ospitalità, vista dalla prospettiva di una piccola comunità basca francese. Su invito di Kristof Hiriart, l'artista è stato più volte in residenza a La Bastide, paesino di un migliaio di abitanti nel Sud del Paese, incontrando i cittadini e scoprendo il problema del suo progressivo spopolamento; ha così proposto loro di accogliere una famiglia di migranti, costruendo un dibattito in cui i vari abitanti avrebbero dovuto interpretare delle parti loro assegnate (favorevoli, contrari ecc.). La storia si conclude con la fondazione di un'associazione e – fuor di teatro – con l'arrivo della famiglia a La Bastide, con la sua accoglienza e integrazione. E Hospitalités lo spettacolo con cui Furlan porta in giro per i palcoscenici d'Europa questa vicenda, con l'interpretazione di una decina di cittadini (fra cui il sindaco e l'ex sindaco, una giovane coppia, una ceramista, un'organizzatrice di gare di tori appassionata di danze popolari, e così via).
Ciascuno di loro parla di sé con grande semplicità, in piccoli frammenti narrativi: della sua infanzia, famiglia, del lavoro e della vita, della propria idea di ospitalità e di viaggio, con il contrappunto di piccole danze o canti, mentre sul fondo scorrono le immagini del paesino in questione, proiettate su un grande schermo. Il progetto è particolare e la sua resa scenica, pure di gran forza, forse non riesce a restituire integralmente il processo che ha condotto dal dibattito sui migranti al loro arrivo, al percorso di accoglienza e integrazione, cui è riservata – oltre che parte del testo – una scena in cui i cittadini discutono brevemente della questione, che potrebbe rimandare a uno spaccato della vicenda. Però dall'altro lato, l'approccio registico di Furlan al proprio oggetto scenico rivela piani differenti del discorso: innanzitutto, l'emergenza della migrazione dischiude immediatamente la prospettiva sul tema della relazione con l'altro, cioè appunto con le persone da accogliere ma anche in realtà a livello dei rapporti fra i membri di una stessa comunità.
Bersani-D’Agostin, Formazioni, ph. Roberta Segata
Le potenzialità implicite nel coinvolgimento di non-professionisti della scena che diventano interpreti degli spettacoli in quanto protagonisti autentici dei processi che si presentano sul palco, vale a dire l'idea del teatro concepito come strumento di interazione, confronto, approfondimento delle dinamiche individuali e sociali, è alla base del lavoro di Furlan e anche di altri spettacoli presenti al festival: per esempio nell'Amleto di CollettivO CineticO, sorta di provino aperto per il ruolo principale della performance, o in Formazioni di Chiara Bersani e Marco D'Agostin, che hanno coinvolto una decina di adolescenti del territorio in un gioco-messinscena legato alle evoluzioni dell'universo (raccontate in audio dall'astrofisico Andrea Ferrara e concretizzate in corpo, relazioni, movimenti dai giovani performer). E ancora, da un altro punto di vista, il coinvolgimento delle persone nella messinscena è centrale in Think much. Cry much di Rima Najdi, spettacolo anch'esso di stampo ludico ma integralmente interattivo, dove gli spettatori sono divisi in gruppi e devono eseguire i diversi compiti che ricevono – squadra per squadra – da una voce in cuffia. Anche qui, seppure non in maniera narrativa né diretta, la questione di base è quella della migrazione, intesa nella sua sostanza basilare e sintetica di spostamento, incontro con l'altro, solidarietà e differenza, adesione e distacco.
Rima Najdi, Think much cry much, ph. Roberta Segata
Di noi, della nostra identità
Fuori e dentro Drodesera, il tema della migrazione – che sembra attraversare le arti performative soprattutto in contesto europeo – disegna un campo di ricerca, riflessione, creazione che non si ferma alla sola – pure fondamentale – resa, interpretazione, analisi dei fatti, ma che apre a tante, diverse e ulteriori questioni. Se quando si parla di migrazioni una delle prime questioni a presentarsi è quella delle modalità di contatto, incontro, relazione con l'alterità, un'altra che emerge, speculare e collegata, altrettanto delicata e centrale è quella della propria identità. Succede nel già menzionato spettacolo di Massimo Furlan, dove scopriamo via via che la questione migratoria si rivela parte fondante del patrimonio socio-culturale degli abitanti de La Bastide e soprattutto che la messinscena si concretizza in una storia costruita live, in corpo, voce e persone, di quella comunità. Ma anche in The Perfumed Garden: Hekmat, xx di Raafat Majzoub, lavoro suggestivo a metà fra l'installazione e la performance, parte di un più ampio, omonimo progetto (questo il sito) che vede l'artista all'opera nella scrittura di un romanzo sul mondo arabo a partire da diversi esperimenti multimediali e performativi. Nella tappa portata a Drodesera, le cartoline scritte dall'artista libanese a un'orchestra israeliana occupano uno spazio fisico locale (ce ne sono diverse copie su un tavolo) e uno immateriale e transnazionale (il rumore registrato dell'operazione di scrittura viene diffuso in loco e riprodotto in diretta durante la performance da una radio israeliana). A questa parte – che era l'intenzione iniziale di progetto per il festival di Dro – si aggiunge un computer che “scrive” pezzi del romanzo in progress (è il performer a distanza, che non ha potuto ottenere il visto per venire in Europa e interagisce live col pubblico in sala tramite la trascrizione). Nel suo particolare livello di astrazione e allo stesso tempo nella concreta, semplice autenticità, The Perfumed Garden riesce a parlare con forza ed esattezza della questione delle frontiere, della mobilità, del controllo, delle diverse possibilità garantite a cittadini di uno stesso mondo. Ma anche dei rapporti fra realtà e finzione, fra autorialità e fruizione, fra qui-ora e altrove e in generale delle strategie di interazione fra questi elementi all'interno di un esito performativo.
Michikazu Matsune, Dance if you want to enter my country, ph Alessadro Sale
Epica e immaginazione
Anche Dance, if you want to enter my country! di Michikazu Matsune tiene al proprio centro argomenti piuttosto prossimi, trattandosi di una performance creata a partire dal fatto – realmente accaduto – che vede protagonista un danzatore americano dal nome arabo in tournée in Israele, bloccato alla dogana e invitato a dare prova – ballando – di essere davvero chi sosteneva (la questione dei confini e del loro attraversamento è anche al centro della mostra curata dall'artista a Fies). Ma anche in questo caso, a partire da qui si innescano reazioni – performative, emotive, concettuali – a catena, che pur affrontando il tema con la dovuta cautela, lo declinano su altri piani più trasversali. Quello dell'identità per esempio, della sua definizione e presentazione agli altri, argomento negoziato anche tramite un piano sottile di interazione col pubblico. Diversi piani di azione e racconto sono coinvolti nello spettacolo, montati insieme con ironia e delicatezza: dal danzatore americano in Israele ai viaggi di Matsune stesso, documentati in video tramite i passaggi alla dogana o con aneddoti personali e passaporti, i selfie e le macchine fotografiche; fino a trovarsi – come recita infine un pannello che introduce la terza e ultima parte del lavoro – “beyond the horizon”, oltre l'orizzonte della storia, della presenza dell'artista, della performance che stiamo vedendo.
Un “oltre” che apre a un ultimo tema di un certo interesse, anche questo trasversale ai vari lavori toccati: quello dell'immaginazione, che si insinua come spazio operativo proprio dello spettatore fra il piano di realtà e il piano di finzione su cui agiscono gli artisti; e che Matsune invoca fin dai primi minuti quasi fosse uno statement, una cornice del proprio lavoro, proponendo un buffo esercizio al pubblico (di spostare mentalmente le sue sopracciglia in giù, convertendole in baffi) e su cui torna in diversi momenti (per esempio ponendo domande sulla prova performativa del danzatore nella dogana israeliana o ripetendo coreografie celebri senza alcuna ambientazione scenica, chiedendo appunto di immaginarle). “Imagine that...” è anche il refrain che costella il lavoro di Thomas Bellinck, la temperatura di Formazioni e di Think much. Cry much, il nocciolo di The Perfumed Garden. Lo sforzo immaginativo sembra dunque una delle chiavi di questi lavori, lo spazio d'azione previsto per un intervento – impalpabile quanto centrale – dello spettatore, soprattutto se si tiene conto che molti di essi – come tante opere performative del nostro tempo – investono molto sul piano del racconto, del commento, dello storytelling, insomma dell'epica (campo in cui l'immaginazione di chi ascolta è il punto fondamentale). Il fatto che la scelta degli artisti spesso ricada esplicita e intensa su questo tipo di dinamiche assume ancora maggior coerenza se valutata rispetto ai temi trattati della migrazione, dell'alterità, dell'accoglienza: come ad auspicare di non fermarsi all'assorbimento dei fatti che accadono, magari così come ci vengono proposti ripetutamente dai media, ma di provare a fare un passo personale più in là, in proprio, a pensare un modo diverso, un futuro alternativo, un contesto migliore. Come se il Supercontinent evocato dal titolo del festival sia qualcosa che contribuiamo a costruire noi, artisti e spettatori, insieme ogni giorno.