Un libro di Anna D'Elia / L’arte che salva
Portare la bellezza nell’ordinario della vita come condizione essenziale per prendersene cura, questo è quello che traspare in ogni riga e nelle intenzioni di fondo nel libro di Anna D'Elia, Vedere scorrere. L’arte che salva, Meltemi, Milano 2021.
La riscoperta dell'ordinario, una delle più significative tendenze del pensiero contemporaneo, come documentano i contributi di filosofi alla stregua di Stanley Cavell e Cora Diamond, si rivolge in particolare alla ricerca del senso e del significato di abitare la vita. Se si può sostenere che nella vita abituale sia in questione un indebolimento della relazione con il tutto, è altrettanto sostenibile che è proprio nell’ordinarietà del quotidiano che esistono le condizioni per innalzare e rendere sensibile la vita. È così che quanto vi è di più comune e insignificante, cioè la vita abituale, può diventare infinitamente significante. Come sta accadendo in questo tempo di pandemia, uno dei traumi più sconvolgenti, di dimensioni planetarie, il primo in quanto a percezione immediata e pervasiva. Un trauma in nessun modo imprevisto ma derivante dalla normalità indifferente al sistema vivente di cui siamo parte, in cui siamo ciecamente immersi nel percorso inarrestabile di modernizzazione, per dirla con Bruno Latour, che giustamente pone l’alternativa tra modernizzare o ecologizzare per continuare ad essere di questa terra [B. Latour, Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino 2017].
Appare necessario chiedersi se non sia l’habit, la costruzione ordinaria della nostra appartenenza, con i suoi effetti di normalità, quella dimensione che ci vincola nel cambiare, da cui il trauma proviene, a contenere il possibile, a generare la via d’uscita. Se l'espressione più significativa della vita ordinaria, quella che vive secondo abiti e abitudini, può contenere la possibilità di cercare e trovare i significati più rilevanti e pertinenti per la nostra esperienza esistenziale, l’arte e l’esperienza estetica possono aprire le porte a quella possibilità, generando sguardi inediti e inaudite possibilità. Il percorso di Anna D’Elia è impegnato proprio ad evidenziare la rilevanza dell’arte, e in particolare dell’arte contemporanea, come prospettiva più rilevante e generativa per veder scorrere l'esistenza. Il sottotitolo del libro, infatti richiama l'arte che salva. Tutta la struttura del testo è messa in stretto dialogo con la condizione pandemica che stiamo vivendo, in quanto l'esperienza della pandemia diviene nella riflessione di Anna D’Elia un idealtipo di natura traumatica per evidenziare la rilevanza dell’esperienza estetica come condizione per giungere ai più profondi significati dell'esistenza e come base per prendersi cura della vita.
“Crearsi uno spazio all’interno del quale far vuoto intorno per svuotarsi dentro”, è un bisogno che, nell’angustia del trauma, abbiamo la possibilità di riconoscere. Ci accorgiamo di essere stati da tempo lontani da una simile attenzione a noi stessi. Certo la via attraverso la quale possiamo arrivare alla riappropriazione di un tempo per l'inattività riflessiva emerge da una quarantena legata al trauma. Allo stesso tempo però, se si considera la dimensione generativa del trauma, possiamo ricevere da artisti come Marina Abramović la suggestione che ogni esperienza traumatica sia un punto di partenza per un percorso di conoscenza e trasformazione di sé. In questo caso quella possibilità coincide con la condizione per molti aspetti paradossale in cui milioni e milioni di persone si sono trovate a causa della pandemia.
Allora gli artisti e l’arte ci offrono la possibilità di sintonizzarci con il pensiero della metamorfosi.
Noi, di cambiare, siamo in grado. La voce degli artisti può essere decisiva per cercare di accedere a una diversa dimensione del tempo e dello spazio. Di fatto oggi noi abbiamo bisogno di costruire una nuova sensibilità nei confronti del mondo. L'ambiente in cui viviamo non è qualcosa che se ne sta là fuori inerte, è utilizzabile a nostro piacimento. A pensarci non è nient'altro che l'esito delle nostre azioni. Si stabilisce quindi una connessione, sulla quale Anna D’Elia insiste, tra il modo in cui percepiamo il nostro corpo, i disagi e i lutti che sperimentiamo a livello individuale e collettivo nelle nostre vite, e la ricerca di modalità di incontro inedite con l'altro e l'altrove. Anna D’Elia trae dagli artisti indicazioni preziose per ripensare il ruolo dell’arte e dell’esperienza estetica per favorire l’accesso al nostro mondo interno e alle sue connessioni con gli altri e il mondo esterno.
“Dove un popolo ama la bellezza, dove onora il genio nella sua arte, là soffia come un’aria vitale uno spirito universale, là si apre una schiva sensibilità; l’amor proprio scompare e pietosi e grandi sono tutti i cuori…”, scrive Hölderlin in Iperione.
L'arte è un buon farmaco, sostiene Anna D’Elia, un farmaco per contrastare i mali del presente: disattenzione, superficialità, pregiudizi. Può aiutarci a sintonizzarci con l'essenziale, può offrirci la possibilità di tornare in contatto con contenuti profondi e rimossi, divenendo prezioso dispositivo del pensiero critico. Citando Maria Lai, artista maestra nell'arte delle ricuciture, l'autrice sostiene che la coesione sociale e la crescita collettiva sono da mettere in relazione con gli obiettivi raggiunti valorizzando il potenziale creativo custodito in ciascuno. Non solo, ma considerando le opere di Frida Kahlo o di Francis Bacon, l'arte si configura come specchio dove guardarsi per prendere coscienza delle trasformazioni del corpo in condizioni di estrema sofferenza e ci può consentire di elaborare il dolore e trasformarlo in sostanza vitale. Configurando l'ipotesi della rilevanza di una seconda nascita Anna D’Elia sostiene che “nessuna trasformazione sarà possibile se non a condizione di rimettere al mondo se stessi”. Il libro si propone come un viaggio che accompagna il lettore dentro la pittura e nella natura, un viaggio iniziatico in cui l'arte restituisce a esperienze come il silenzio, il vuoto, l'isolamento, la loro valenza positiva e le loro possibilità generative. Parlando di Van Gogh l'autrice sostiene che: “in questi giorni di sospensione del tempo in cui i ritmi si dilatano e lo sguardo si concentra sui dettagli, guardare le fotografie dei suoi dipinti restituisce una sensazione di pace”. Se si considera la funzione emancipativa dell'arte, non è difficile riconoscere come essa si associ alle possibilità di ripensare la libertà e di riconoscerne i vincoli derivanti dal valore dei diritti personali e dal bisogno di tutelare la collettività. Citando Joseph Beuys, l'intento è quello di valorizzare il capitale creatività di ogni essere umano.
Come sosteneva appunto Beuys, “ogni uomo è un artista e non esiste altra forza rivoluzionaria che il potere creativo dell'uomo”. Ci sono notevoli livelli di preoccupazione espressi da Anna D’Elia nell’affascinante percorso che compie attraverso l'arte per creare possibilità di emancipazione nel presente. Queste ultime dipendono significativamente dallo spazio di espressione di voci dissidenti. Quelle voci sono sempre meno, e sempre più marginali. Eppure, spesso è da loro che possiamo ricevere segnali riguardanti una critica ai miti dell’efficienza sempre e dovunque, della prestanza fisica come valore supremo, dell’iperconsumo come fonte di felicità, i cui limiti del resto la pandemia sta evidenziando in modo drammatico. Il percorso del libro di Anna D'Elia è particolarmente concentrato sul ruolo che l’arte può svolgere per una presa di coscienza della nostra condizione, al fine di tentare di trarre vantaggio dalla poetica degli artisti anche in prima persona. La narrazione artistica è concepita come un suggerimento costante alla ricerca di metamorfosi ed estensioni di sé, mettendosi in gioco. Non pochi aspetti del contenuto del libro riguardano la percezione del corpo, partendo dall' ipotesi che un corpo che non conquista la propria complessità è ancora più fragile, vulnerabile, scisso, disconnesso dalle altre specie e dell'ambiente, quindi, più esposto alla malattia e alla morte.
Anna D'Elia parla di cancellazioni demonizzanti della malattia e della morte e analizza contemporaneamente le mitologie del contemporaneo considerando le opportunità che l'arte ci fornisce di non fermarsi dinanzi alla verità esibita che spesso ci ammannisce apparenze svuotate. Secondo l'autrice abbiamo bisogno di riconoscere la comune sofferenza in questo nostro tempo e di dare voce anche alla pluralità di codici affettivi. Una rappresentazione della risonanza tra la sensibilità femminile, l'arte e le possibilità generative del nostro tempo sta nella seconda parte del volume, dove sono raccolte interviste e dialoghi con artiste, intorno alla necessità di ripensare il ruolo dell’arte nella vita che ci aspetta. “L’unica possibilità per tutelare spazi alternativi al pensiero omologato è allearsi con gli artisti controcorrente, capaci di pensare ciò che ai più appare impensabile”, sostiene Anna D’Elia, intravedendo così una via che l’esperienza rende necessaria e urgente: la costruzione di nuove identità capaci di annettere a sé l’altro da sé e di superare barriere all’apparenza invalicabili tra generi, religioni, tradizioni culturali e linguistiche.
Le artiste e gli artisti convocati da Anna D’Elia a testimoniare la propria ipotesi dell’arte che salva, finiscono per comporre un dizionario del nostro tempo. Così Van Gogh viene a testimoniare la nostra appartenenza alla natura e la ricerca delle condizioni per essere della natura; o Carla Lonzi interviene per mostrare come l'arte possa essere al servizio della libertà. I 26 km di nastro utilizzati da Maria Lai a Ulassai propongono un inedito modo di considerare lo spazio e il legame tra la città e il sistema vivente di cui la città fa parte. Mentre Pino Pascali con la sua opera testimonia l'importanza di un sistema per cambiare, è ancora una volta Marina Abramović a mostrare il valore della resistenza. Così come Frida Kahlo propone con la propria forza e la propria presenza vie per andare oltre la paura e Chiara Fumai mette in evidenza il coraggio delle donne.
L’estetica spietata di Francis Bacon viene ricondotta alla forza che si sprigiona dalla sua opera in termini di esame di realtà, mettendoci di fronte alla logica della verità.
Nel dialogo con l'artista Elena Bellantoni sulle nuove narrazioni che la pandemia sta sollecitando nell’arte emerge l'affermazione profetica di John Lennon: “Nobody told me there’d be days like this…; “Non me l'aveva detto nessuno che ci sarebbero stati i giorni così…”. In questa espressione c'è l'imprevedibilità di quello che stiamo vivendo con le sue conseguenze di deprivazione del contatto e della socialità, ma ci sono anche le potenzialità generative che vengono dall’arte. La carica di rottura della pandemia è riconducibile anche alla ricerca delle condizioni di superamento di un individualismo che è stato costruito illusoriamente sull’idea della perfettibilità e della potenza dell’io. Occorre allora ripartire dall’ordinario, dalla vita abitata per affrontare la straordinarietà della nascita, il senso e il valore delle morti e delle malattie, come qualcosa che appartiene profondamente all'essere umano. C'è qualcosa di scandaloso nell’ordinario e l'arte è in grado di sollevarlo da dove giace per restituircelo con un senso estetico che può essere la leva per la nostra emancipazione verso la capacità di riconoscere che ogni possibile per noi è nel limite.