Fumetto e autobiografia / Intervista con Lorenzo Mattotti
Giunto alla sua quarta edizione, l'evento di tardo inverno del Festival del film di Locarno, curato dal Direttore Carlo Chatrian insieme a Daniela Persico e incentrato sul rapporto fra cinema e scrittura, è stato dedicato per questa edizione 2016 all'universo del graphic novel. Chiamati a raccogliere l'invito del festival sono stati Blutch e Lorenzo Mattotti, protagonisti assoluti del fumetto europeo, con una tre giorni ricca e multidisciplinare in cui i due artisti hanno potuto non solo parlare del proprio lavoro in intensissime masterlcass mattutine, ma hanno avuto la possibilità di scegliere alcuni film importanti per il loro percorso personale e professionale.
BLUTCH sconta purtroppo nel nostro paese un numero piuttosto esiguo di traduzioni. L'autore di “Per farla finita con il cinema” e “Il piccolo Christian” nella 3 giorni locarnese ha dato sfoggio di tutta la sua sterminata ed enciclopedica conoscenza del cinema, fatta di un culto quasi feticistico per gli attori, unito ad un approccio estremamente personale nel raccontare e rielaborare le peculiarità del linguaggio cinematografico. Dalla fissità monumentale dei volti di “The Wind “ di Victor Sjöström, al superamento grottesco del realismo in Buñuel, Blutch ha raccontato, con l'ironia e la profondità intellettuale che contraddistingue la sua opera fumettistica, il proprio amore e la propria ossessione per il cinema. Dagli esordi a Fluide Glacial con parodia di Tintin per arrivare ad opere come “Mitchum” e “Total Jazz”, da sempre in Blutch il fumetto si nutre della altre arti. I suoi libri masticano altre discipline, le liberano nel gesto del segno grafico e le condensano e bloccano nella fissità della vignetta. Il tutto rifiutando il realismo in nome di una forma narrativa assolutamente libera che ha il mistero del sogno e la profondità del grande saggio teorico.
LORENZO MATTOTTI ha portato a Locarno tutto il suo bagaglio di opere e riflessioni che ne fanno oggi uno dei fumettisti e illustratori più importanti al mondo, un autore unico per profondità di sguardo e capacità di mettere costantemente in discussione il proprio lavoro. Con grande generosità Mattotti ha condiviso il racconto del proprio processo creativo, in un viaggio fra le sue opere che ha saputo restituire al pubblico l'eccezionalità di un grande artista della contemporaneità che travalica senza alcun dubbio il mondo del fumetto. Abbiamo avuto il piacere di conversare con Mattotti a Locarno, per parlare di illustrazione, convenzioni e autobiografia.
Qual è per te il rapporto tra illustrazione e racconto a fumetti?
In questi anni mi sono sempre più fatto affascinare dalla forza dell’immagine fissa. Anche proprio ragionando a partire dal fumetto e dalle sue convenzioni narrative: primi piani, campi lunghi, paesaggi, taglio delle inquadrature. Sono tutti elementi che mi interessano sempre meno e mi rendo conto che alla fine ho difficoltà a raccontare secondo le modalità più convenzionali. Quello che invece mi affascina sempre più, e credo che lo si veda molto chiaramente nei miei ultimi lavori, è l’efficacia dell’immagine in sé, la sua potenzialità visionaria, intesa come capacità evocativa in grado di racchiudere in sé diversi elementi e significati che esplodono letteralmente, prendendo senso, nella mente di chi la osserva. Si tratta di una dinamica che oggi preferisco di gran lunga rispetto a dover ricondurre tutto questo potenziale dell’immagine nella struttura del fumetto più tradizionale fatto di vignette e dialoghi.
Il mio ultimo lavoro, “Oltremai”, è un vero e proprio atto d’amore in tal senso, in cui ho deciso di dare totale fiducia alla potenza della singola immagine. A volte mi trovo a lavorare con immagini giustapposte l’una all’altra, legate tra loro in modo visivo e visionario, senza sentire l’esigenza di alcuna didascalia esplicativa, ma con la convinzione che solo in questo modo l’immagine saprà entrarti dentro e magari aprire qualche porta, qualche nuovo significato, in modo puramente visivo senza alcuna mediazione razionale. Poi può anche capitare di voler fare un passo indietro, perché quando arrivi a confrontarti con un linguaggio così puramente visivo può anche nascere il desiderio di recuperare strutture più tradizionali e altre modalità comunicative. Proprio in questo periodo, per esempio, quasi a contraddire quello che ti ho appena detto a proposito del fumetto più convenzionale, ho appena concluso una lunga storia che avevo cominciato dieci anni fa. Un’opera che sentivo la necessità di chiudere perché stava diventando quasi un’ossessione e che a me appare, per certi versi, assolutamente tradizionale. Non so se poi chi la leggerà penserà la stessa cosa, ma per me si è trattato quasi di tornare alle origini stesse del fumetto, alla sua forma narrativa più semplice, vergine.
Quando lavori su un’illustrazione, o più in generale su un'immagine fissa, lo fai sempre da narratore?
Il problema del racconto a fumetto è che bisogna lavorarci molto per trasformarlo in fiction, in un progetto che funzioni, e alla fine per forza di cose finisci per ragionare in modo convenzionale. Quando invece lavori su grandi tavole indipendenti le une dalle altre, puoi permetterti di dimenticare ogni convenzione perché la cosa importante diventa l’autenticità che sei in grado di esprimere quando le realizzi. Si tratta di un modo di lavorare che crea un rapporto molto speciale con il pubblico, che è molto intenso anche per me. Quando lavoro così mi sento come se stessi suonando davanti a un lago e riesco a lasciarmi andare in modo totalmente libero, aspettando semplicemente che la magia venga fuori quasi autonomamente.
Dunque, da fumettista, sono lavori di questo tipo che ti piacciono di più?
Sì, certamente. L'atto creativo è un momento di estremo piacere, ma che non ha alcun tratto di superficialità o frivolezza. È un piacere intenso perché è in grado di far emergere le cose più profonde nel modo più libero e non mediato possibile. E infatti l’impatto con chi dopo ne fa esperienza è molto intenso. Poi, naturalmente, esistono diversi tipi di illustrazione: da quella legata a un libro, alle copertine. O, ancora, quella creata per una serie di immagini. È il caso di Stanze, che era legato al tentativo di raccontare i piccoli gesti quotidiani per fare emergere la loro importanza. Se si guarda questo lavoro come una narrazione dilatata degli istanti più apparentemente banali nella vita di due ragazzi, ecco che si coglie tutta la meraviglia di lavorare sui gesti più semplici per farne emergere la loro dimensione più sacra, come per esempio quelli rappresentati dal piccolo movimento di una mano, il toccarsi il naso, l’accarezzarsi, il muovere un foglio, il giocare fingendo di fare la lotta o il togliersi la maglietta. Ma ecco che quelle stesse immagini, se inserite in una storia a fumetti, hanno sempre bisogno di una giustificazione o di essere inserite in una narrazione.
Per me invece lavorare su una serie significa poter affrontare liberamente delle narrazioni dilatate nel tempo. Con Stanze, per esempio, ho voluto prendere un minuto della vita di questi due ragazzi e creare un affresco più lungo e compiuto, lavorando su delle piccole variazioni, come se stessi girando al rallentatore. Un’operazione simile a quella messa in pratica da Bill Viola che, rallentando al massimo il tempo e sfruttandone lo scorrere, ti obbliga a osservare fin nei minimi particolari, per esempio, i cambiamenti del volto di un uomo.
Come disegnatore trovo poi che sia più efficace lavorare sul formato del quaderno. Mi piace questa idea di costruire un’opera che si sfoglia pagina dopo pagina, con un ritmo ipnotico che preferisco rispetto a quello più tradizionale della tavola in cui i dialoghi e le immagini creano un surplus di significato secondo me quasi inutile.
Tu parli spesso del tuo lavoro come di un viaggio interiore, di qualcosa che riguarda te e il tuo rapporto con il mondo. Mi chiedevo quindi che rapporto hai con l’autobiografia, intesa anche come genere narrativo del fumetto.
Non ho mai realizzato un’opera autobiografica in senso stretto, anche se ovviamente diversi miei lavori presentano tratti autobiografici. Spartaco per esempio. Anche Fuochi è in un certo senso autobiografico, pur se in senso metaforico: io l’ho sempre visto come la storia di un innamoramento, il racconto di un uomo che prima ha paura di vivere l’amore per poi perdersi completamente in questo sentimento, prima che arrivi il rifiuto e la distruzione. Mentre realizzavo Fuochi, pensavo proprio a un rapporto d’amore. Nelle mie storie c’è naturalmente tanta autobiografia, ma non ho mai amato parlare troppo di me. Sarà forse una forma di pudore o una paura di mettersi veramente a nudo. Sono quindi riuscito a raccontare alcune cose della mia infanzia solo creando una sorta di maschera, come quella di Spartaco. Un burattino che potevo osservare da una certa distanza, quasi con commiserazione, con una pietà mista a simpatia che mi ha permesso di dipingerlo con ironia e dolcezza, ma anche di maltrattarlo.
Il personaggio di Lucio nella prima trilogia di Alice brum brum, Tram Tram Rock e Incidenti è chiaramente il mio alter ego, ha le mie stesse fattezze e nelle storie ho inserito episodi vissuti realmente da me, anche se filtrati attraverso la fiction e dal linguaggio dell’avventura e del mistero. Un altro esempio è L’uomo alla finestra, in cui racconto la separazione da mia moglie e che è praticamente autobiografico. È un libro pieno di tensioni molto personali, anche se tutte sublimate e trasformate per creare una storia compiuta. Del resto, mi ha sempre affascinato la possibilità di sublimare il proprio vissuto in un una forma completamente differente così che il lettore possa tranquillamente leggere e immedesimarsi nella storia senza che per forza debba pensare all’autore e alla sua vita. Un narcisismo, se non un vero e proprio feticismo di sé, che non mi interessa assolutamente. Mi trovo invece a riflettere molto sull’idea stessa di autobiografia, che mi permetterebbe di raccontare la storia della mia famiglia ai miei figli: un progetto a cui penso da tanto tempo ma che non ho mai avuto il coraggio di affrontare.
Un’opera legata alla storia di mio padre, ma che racconti anche la visione che ne avevo io da bambino. O le tante avventure vissute da me e i miei fratelli da piccoli: storie che non ho mai preso in considerazione in passato, per stupidità, perché sono molto più avventurose di tante altre che ho inventato di sana pianta. Questa possibilità dell’autobiografia mi attira molto, perché mi obbligherebbe in questo momento a fare un salto qualitativo e a interrogarmi su come raccontare episodi vissuti realmente da me. Una bella sfida: con quanta intensità delineerei questi episodi? Da quale distanza e con quale distacco li osserverei? Si tratta senza alcun dubbio di uno dei due o tre progetti che non sono ancora riuscito a realizzare secondo la prospettiva di lasciare qualche traccia dietro di me. La chiave giusta credo sia quella, come dicevo prima, del raccontare ai miei figli la storia di mio padre, dei miei nonni, di me, della mia famiglia: vicende che non conoscono minimamente. Ovviamente narrata dal mio punto di vista, e mescolando memoria e racconto.
Alla Fellini, per intenderci. Amarcord è del resto un capolavoro assoluto nel suo riuscire a comporre un affresco globale, in cui senti che c’è tanta autobiografia, ma in cui nello stesso tempo sono inseriti moltissimi personaggi di fantasia, in cui c’è tanto racconto. Ecco, questo tipo di autobiografia mi piace molto. Io non riesco ad analizzare freddamente ciò che ho fatto, scomponendo in modo freddo e studiato la mia stessa vita: non fa per me, non ho questa capacità né la lucidità in grado di analizzare i vari tratti della mia personalità per poi inserirli nella mia opera. Non credo che ci potrei riuscire e del resto non mi interesserebbe neanche farlo. Per anni è stata una cosa che ho accuratamente evitato, cercando di sublimarlo in altri modi.
PS
Un ringraziamento particolare a Carlo Chatrian, Daniela Persico, Francesco Boille, Valentina Tua, Gaia D'Angelo, Guglielmo Maggioni.