Il più ampio epistolario dello scrittore / Primo Levi e l'amica tedesca

10 Giugno 2017

La prima lettera la scrive lei: 18 ottobre 1966. Ha appena scoperto l’edizione tedesca di Se questo è un uomo, in ritardo di cinque anni. Gliel’ha data Herman Langbein, ex deportato, uno dei più attivi nel dopoguerra nell’azione contro i criminali nazisti. Si chiama Hety Schmitt-Maass, è coetanea di Primo Levi, bibliotecaria, collaboratrice di giornali, socialista, diventerà membro del governo regionale dell’Assia. Nel 1935 è stata espulsa da scuola perché non iscritta alla gioventù hitleriana, mentre il padre, pedagogista, socialista, nel 1944 è deportato a Dachau. Ed è sopravvissuto. Si riferisce alla prefazione all’edizione tedesca del primo libro del chimico torinese: “Capire “i tedeschi” sicuramente non le riuscirà – non riesce neppure a noi tedeschi”. E aggiunge: “Libri come il suo, che ricordano in maniera così umana il disumano, sono dunque, in particolare per la nuova generazione, estremamente importanti”. Corrisponderanno per quattordici anni.

 

Sono oltre cento lettere scritte in lingue diverse (italiano, tedesco, inglese, francese), conservate presso “Stadtarchiv” di Wiesbaden, probabilmente l’epistolario più importante di Levi, e uno dei più vasti. Hety, nominata con la sola iniziale H., e con parole encomiabili nel capitolo di I sommersi e i salvati dedicato alle lettere ricevute dai lettori tedeschi, gli spedirà articoli suoi e di altri, recensioni, suggerimenti di libri, e lo metterà in contatto con due persone importanti per l’ex deportato di Monowitz: Jean Améry, ebreo e antinazista, detenuto nello stesso Lager di Levi, e Ferdinand Meyer, un chimico tedesco presente nella fabbrica della Buna, presso cui Levi lavorava a Monowitz. Hety cercherà un contatto anche tra Levi e Albert Speer, l’architetto di Hitler e ministro degli armamenti, cui il chimico torinese, pur curioso di conoscere i suoi aguzzini, e di parlare loro direttamente, si sottrarrà. 

 

Levi risponde alla donna il 5 novembre. Scrive in italiano, poi passerà al francese e quindi al tedesco, e Hety gli rimanderà le lettere con le sue correzioni: corso di tedesco per corrispondenza. Hety sarà anche una confidente in momenti particolarmente difficili: alcune crisi depressive degli anni Settanta; e nello scambio entrerà anche la moglie di Primo, Lucia. Nella prima lettera Levi scrive: “Si pentono gli innocenti, non i colpevoli: è assurdo, eppure molto umano. Appunto per questo, penso che i tedeschi coscienti, piuttosto che abbandonarsi a uno sterile senso di colpa, dovrebbero operare in tutti i modi che sono loro consentiti (la scuola, l’educazione dei figli, la giustizia) affinché quanto è stato commesso non venga dimenticato, ed i veri colpevoli siano puniti, o almeno espulsi dalla vita del Paese, o almeno ancora si sentano giudicati e mostrati a dito”. A spingerlo a rispondere, oltre la cortesia e l’interesse verso una lettrice entusiasta, è un nome che lei fa nella sua missiva: Heidebroek, un chimico, ingegnere capo nella Buna. Si tratta di un collega dell’ex marito di Hety.

 

Parte importante della corrispondenza si svolgerà intorno alla ricerca degli uomini che erano là nella fabbrica chimica. Non le SS ma i tedeschi che collaboravano con loro. Nel 1967 compare nella loro corrispondenza il nome del Dr. Ing. Meyer, che diventerà poi il protagonista del più incredibile racconto dello scrittore torinese, Vanadio, con il nome di dottor Müller. Nel 1967 Levi parla di un uomo, Meister Groner, tedesco mezzo olandese, che dava del pane a un ebreo olandese e che sparì nel cantiere dove lavorava. Spiega l’ex deportato: “a dire il vero bastava poco per aiutarci, era sufficiente un pezzo di pane, una parola, uno sguardo: uno sguardo che era molto difficile da incontrare”. A riguardo dei chimici che hanno collaborato, ed erano andati ad Auschwitz, come affermavano, “affinché non arrivassero là dei veri nazisti”, Levi sostiene che “si tratta di una scusa molto vecchia e molto conosciuta, che si è sentita ovunque (anche in Italia) là dove qualcuno è stato accusato per aver offerto i suoi servizi a un’autorità abominevole. Ci si può credere in un sol caso: se l’accusato può dimostrare di aver fatto in effetti qualcosa, anche poco, in aiuto delle vittime e contro l’autorità”.

 

Sono temi che riprenderà quasi trenta anni dopo nel cercare di definire i modi e le forme della collaborazione con il potere nel Lager. Il tema di quella che sarà poi la “zona grigia” è uno dei centri focali della corrispondenza con Hety. Le lettere della bibliotecaria socialista sono molto lunghe; quelle di Levi più brevi e secche, ma tutte puntuali e precise. Spiega alla sua interlocutrice, sempre nel 1967, che non è uno scrittore di professione, bensì “chimico militante”, direttore tecnico di una fabbrica vicino a Torino; scrive, le dice, la sera o la domenica, “quando non sono troppo stanco”. La ringrazia del contatto con Meyer e per aver spedito al chimico tedesco Se questo è un uomo. Lei gli rivela come e perché si è separata dal Dr. Ing. Bernhard Schmitt, e come esista ancora un conflitto con l’ex marito riguardo il giudizio da dare sui tedeschi che hanno collaborato. Ne ha parlato con il figlio Klaus in casa, racconta al suo interlocutore italiano, e la domestica è intervenuta: “Perché devono fare ancora oggi questi processi? Quando mio marito tornava dalla Polonia, in licenza, mi raccontava: “La maggior parte del tempo abbiamo solamente sparato agli ebrei (…) il braccio mi faceva male dal tanto sparare”.

 

 

Hety la mette alla porta. Le lettere a Primo s’intrecciano con quelle di Levi a Meyer, di Meyer ad Améry e viceversa. Il tema è quello del giudizio da dare sul passato nazista: perdonare, dimenticare, superare il passato? Levi è molto deciso su questo: dimenticare mai. Si scambiano libri. Levi manda volumi di Pavese che Hety conosce; discutono di Grass, Gatto e topo; lei gli suggerisce libri sui campi di sterminio che Primo non conosce; lui le invia l’edizione tedesca del libro di Presser La notte dei Girondini, che tradurrà anni dopo per Adelphi. La bibliotecaria di Wiesbaden gli narra dettagli della sua vita familiare e lo sconvolgimento che suscitò in lei e nel padre ex deportato il discorso di Thomas Mann alla radio quando nel dopoguerra rivelò i crimini nazisti. Nel 1967, in occasione della Guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi arabi, il chimico torinese scrive: “Per quanto mi riguarda ho provato in sequenza: una crescente angoscia prima che la situazione velocemente precipitasse; vergogna, sì, la vergogna di Auschwitz, davanti ai miei figli, per averli generati in un mondo in cui la guerra incombe stabilmente; e infine un po’ di sollievo alle prime notizie del successo militare degli israeliani”.

 

La distruzione di Israele sarebbe stata “una spaventosa tragedia e una profonda pena”; e subito aggiunge: “Questa non è la Terra promessa che avevamo sognato. Forse questa è assoluta ingenuità, simili Terre non esistono sulla terra: ma Israele, dal suo inizio, ci aveva abituati a tali miracoli che noi speravamo potesse compiere il meglio, il solo vero miracolo, quello di stabilire la pace permanente con i propri vicini”. Anni dopo Levi indicherà con chiarezza in un’altra missiva l’antisemitismo di sinistra presente nelle posizioni filoarabe del Partito comunista italiano. Nel gennaio del 1969 Levi le confida di essere depresso: “Sfortunatamente non sono nuovo a questi episodi, sia prima che dopo Auschwitz, e non è sempre facile attribuire a questi una causa definita; l’ultima potrebbe essere connessa forse alla conclusiva risacca dell’onda letteraria, fuori da cui sono stato solito vivere in questi ultimi anni”. Dopo il 1970 le lettere di Levi contengono vari dettagli sui libri che sta scrivendo, o che progetta. Si incontrano in Italia, in occasione di vacanze o viaggi di Hety, anche con Lucia; in Germania durante le trasferte d’affari di lui; ma la loro comunanza più forte sarà per lettera. Nell’agosto del 1971 un’altra missiva disperata in cui le confessa di aver perso la voglia di vivere. S’interroga sulla radice del suo forte malessere: “Auschwitz forse? No, non penso, appartiene a un lontano troppo remoto passato, e inoltre è stato esorcizzato dai miei libri. La vera ragione della mia inquietudine giace in qualcosa di atavico”. Ricorda la sua appartenenza al popolo ebraico: “e gli ebrei sono sempre preoccupati del loro futuro”.

 

Già a dicembre il tono delle lettere cambia e parla a Hety della sua visita a Togliattigrad, che racconterà in La chiave a stella nel 1978. Nel 1973 sta scrivendo Il sistema periodico: “le mie storie “chimiche” stanno andando avanti in modo lento e macchinoso, ho appena finito quella dedicata allo zolfo, la decima della serie. Alcune sono piatte, alcune divertenti, nessuna memorabile: non sono certo di pubblicarle”. Le parla della politica italiana delle speranze suscitate da un nuovo governo di centro-sinistra. Nel 1974 le dice: “La DC deve andarsene, o perlomeno i vecchi, corrotti, mandarini della DC devono andarsene: ma chi seguirà? Non ci rimangono politici: la forza politica più pulita e coerente è forse il PC, ma sono ben consci dell’infattibilità della loro successione nel governare un paese così vicino al collasso economico, e legato così intimamente, nel bene e nel male, agli USA”. Grazie a Hety trova il Dr. Meyer, il Dr. Müller di Vanadio, un chimico presente nella fabbrica della Buna dove lavorano i deportati ebrei di Monowitz. Con lui si scambia varie lettere, tutte mandate per conoscenza anche a Hety.

 

Dopo la morte del chimico scrive a lei: “mi sono concesso la libertà di trasformare in un racconto la mia reale vicenda con il compianto Dr. Meyer” (giugno 1975). Le chiede però consiglio riguardo alla eventuale traduzione tedesca: si sentirà offesa la famiglia di Meyer per quello che ha scritto in Vanadio? Cosa ha scritto? Ha trasformato le vicende accadute. Non vi parla di Hety e della sua mediazione; ha inventato uno scambio epistolare tra lui e Meyer in veste di fornitore di materie chimiche alla sua fabbrica. La vicenda è trasfigurata, e il giudizio sull’interlocutore tedesco appare nel libro durissimo, cosa che le lettere contenute nell’epistolario non evidenziano. Levi si era detto disposto a incontrarlo, ma alla vigilia del viaggio in Italia del Dr. Meyer, che chiede ripetutamente una sorta di avvallo, una forma di perdono, questi muore improvvisamente d’infarto. Vanadio mostra come il testimone Primo Levi sia prima di tutto uno scrittore che dà una forma narrativa alle sue vicende personali, e come la testimonianza si fonda sulla sua capacità di narrare, di essere scrittore. Ha fatto così nella storia con Meyer. Hety, che ha letto una traduzione del racconto in tedesco, fatta da un’amica, è colpita: “Io stessa sono un po’ sorpresa di leggere quanto sia critico nei confronti del suo “Müller”, molto più critico di quanto avessi notato – all’epoca – quando avevamo discusso del Dr. Meyer”. Perché è stato così duro? Perché il racconto contiene una parte d’invenzione? Levi risponde il 6 ottobre 1976: “Fino a che era vivo, mi sono sentito più o meno legato a lui da quel generico vincolo che c’è tra le persone civili; sentivo che, se ci fossimo incontrati, io (anche solo per ragioni di lingua) non mi sarei potuto permettere “mich aufzurafen” in una discussione seria, e, più o meno consciamente, ho voluto vedere in lui un goffo, vagamente comico, sostanzialmente positivo personaggio.

 

 

Dopo la sua morte, e scrivendo la “sua” storia, ho avuto l’impressione che sarebbe stato più toccante per il lettore attenuare le sue particolarità individuali e accumulare nel personaggio Müller qualcosa più della borghesia tedesca, generalmente considerata; aspetto che, dopo tutto, mi è apparso abbastanza evidente rileggendo le sue lettere e il vostro resoconto dell’incontro con lui”. Una dichiarazione importante, da cui non si può prescindere. Vanadio e queste lettere aprono infatti una nuova lettura della testimonianza di Levi e del suo rapporto con l’invenzione letteraria. Nel 1977 chiede poi a Hety cosa sia successo a Stammheim e del suicidio della Banda Baader Meinhof. Gioisce per l’elezione di Pertini al Quirinale. Parla del caso Moro: le Brigate Rosse hanno colpito un inesistente cuore dello Stato: “un autentico centro del potere non esiste più”. Le BR sono intelligenti in quanto a organizzazione, ma anche stupide, “poiché il crimine stesso non ha portato ad alcun risultato, e ha solo contribuito a riabilitare la Democrazia Cristiana, e ha trasformato in un eroe un uomo inaffidabile e contorto come era Moro”. Nella medesima lettera chiede notizie circa il suicidio di Jean Améry: “i suicidi sono generalmente misteriosi: il suo non lo è stato”. Cerca di far tradurre il libro di Améry, che uscirà molto tempo dopo, Intellettuale ad Auschwitz, con cui pure polemizzerà in un capitolo de I sommersi e i salvati, cui sta già faticosamente lavorando. L’ultima lettera di Hety è del 1981, dove parla di una “novella” che sta scrivendo e riguarda la storia di una cugina schizofrenica. Hety muore due anni dopo. Per Primo sarà un brutto colpo: perde la sua principale interlocutrice tedesca, una delle più importanti in ogni caso. A lei saranno dedicate le ultime pagine del libro, un segno di stima e amicizia.

 

Questo articolo è apparso su “L’Espresso” che ringraziamo.

 

 

***

 

18 ottobre 1966

 

Signor Primo Levi a Torino!

 

Già da anni è uscito il Suo libro nelle edizioni Fischer. L’ho “scoperto” solamente ora. Più precisamente: il signor Hermann Langbein me lo ha fatto notare. Ha letto la mia recensione di alcuni libri sul tema “il recente passato tedesco” e ha notato che non l’avevo menzionato; sono riuscita a porre rimedio a questa mancanza – in vista della discussione (che desidero mandarle prima che esca su un giornale tedesco) e soprattutto per me stessa. Spero che Lei sia tra quelli che ancora oggi (così tanti anni dopo!) sono felici di venire a sapere che il loro libro continua ad avere una buona risonanza e che viene letto. Penso che conserverà una tale popolarità per un lungo periodo.

 

Capire “i tedeschi” sicuramente non Le riuscirà – non riesce neanche a noi tedeschi; all’epoca è avvenuto così tanto che non sarebbe mai dovuto accadere, per niente al mondo; ha fatto sì che un gran numero di tedeschi abbia in realtà perso per sempre tutto ciò che la Germania una vota aveva significato – concetti come “madre patria” sono stati cancellati. Tuttavia, persino il lutto per le speranze perdute, per gli ideali perduti (o come vogliamo chiamarli) e la vergogna per tutto ciò che i tedeschi hanno combinato sbiadiscono con il tempo; questo succede addirittura anche a quelli che cercano di comprendere. Ciò che, ciononostante, non ci è permesso è dimenticare tutto questo. Libri come il Suo, che ricordano in una maniera così umana il disumano, sono dunque, in particolare per la nuova generazione, estremamente importanti. (Desidero scrivere all’editore Fischer e chiedere se non sia possibile ristampare questo libro importante; poiché è esaurito, potrei ottenerlo solamente in prestito. Ed in particolare mi dispiace soprattutto non poterlo consigliare ad altri, come vorrei).

  

All’epoca avevo alcuni amici e persone di fiducia nei campi di concentramento tedeschi. Ma nessuno ad Auschwitz. Il signor Langbein è la prima persona in cui mi sono imbatutta; “imbattuta” per strada, grazie al suo ultimo libro. E ora voglio solamente dirle che anche il Suo libro è diventato un “incontro”; questo non capita molto spesso. Spero di essermi avvicinata di qualche passo al cogliere – al capire. Completamente non lo capiremo mai, noi che eravamo “fuori”, davanti al filo spinato; ma se tentiamo di capire, è forse già un passo avanti. E dobbiamo ringraziare ognuno di voi che si esprime in una tal maniera da farci osare per lo meno questo tentativo.

 

Per giorni mi sono portata il piccolo volume della libreria Fischer letteralmente con me, dovunque, e mi sono riletta più volte alcuni passaggi. Forse Lei non si rende conto di quanto una persona possa dire di sé – e con ciò sull’uomo in generale –; questo rende però ogni paragrafo dello scritto semplicemente più importante e qui prezioso. Ciò che in particolare mi ha colpito sono state le esperienze nello stabilimento Buna. Dunque era così quando i “liberi” incontravano i “prigionieri”. Mi chiedo che altro mi fossi aspettata. Le uniche possibilità di contatto – all’epoca – erano i prigionieri di guerra russi che per esempio in autunno dovevano portarci carbone o patate in cantina (se si tentava di dare loro di nascosto per lo meno delle mele e delle sigarette – e questo si svolgeva in cantina perché era “punibile” – ringraziavano dicendo “Heil Hitler!”…), oppure con i “lavoratori stranieri”, cioè quelli “ai lavori forzati”; tra questi c’era, ad esempio, una giovane francese che ogni tanto riuscivo a far uscire dal suo campo di concentramento – era “permesso” invitarla a casa, portarla ad un concerto, rifornirla di vestiti e cibo. Che cosa avrei fatto se avessi dovuto (o potuto) lavorare con i prigionieri? Anche questa ragazza non poteva lavarsi nel campo di concentramento dei prigionieri ai lavori forzati e aveva i pidocchi… E mi ricordo, non senza vergogna, che mi dava fastidio – che sì lo accettavo – ma che ospitarla mi costava sforzo.

   

“Se questo è un uomo” – questa espressione la riferisco a coloro che non sono mai stati dietro al filo spinato; attraverso le Sue esperienze della Buna, Lei mostra in modo chiarissimo che noi spesso siamo stati poco “uomini”. E assolutamente non riesco ora, pur con sufficiente distacco, a dire che ciò non mi riguardi per niente… (a proposito: per caso, là non si è imbattuto nell’ingegnere capo di nome Heidebroek? Vorrei sapere che ruolo abbia effettivamente avuto nella Buna nei confronti dei detenuti).

Si potrà mai “superare” il fatto di essere stato prigioniero a Auschwitz? Sicuramente no. Io sono sempre in vena di “penitenza” e “ammenda” quando tento di riflettere su tutto questo; se almeno potessimo ottenere che qualcosa di simile non si ripeta mai più!

Spero non che non soffra più troppo per il passato e Le mando un saluto [manca una riga scritta a mano]

 

Hety Schmitt-Maass

 

Traduzione di Tiziana Roncoroni.

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