Effetti di serie
I sintomi si confondono con quelli della depressione. Apatia, malinconia del presente, alienazione, insoddisfazione, acuita percezione della propria pochezza. Li si potrebbe sintetizzare con le parole di Amleto, «how weary, stale, flat and unprofitable seem to me all the uses of this world», se non fosse per l’afasia che colpisce chiunque abbia trascorso buona parte del pomeriggio adagiato sul divano in compagnia del suo dispositivo mobile, risucchiato negli universi alternativi messi generosamente a disposizione da siti come guardaserie o eurostreaming. Non è solo il rimorso del tempo perduto, e neppure un generico rincoglionimento da video. È qualcosa di più specifico che riguarda il rapporto, di per sé già problematico, con la dimensione extradiegetica, altrimenti detta realtà.
Per chi riemerge da ore di immersione ininterrotta nei mondi di Game of Thrones, Homeland, True Detective o House of Cards – per citare alcune delle serie più celebrate – il ritorno all’io qui e ora richiede una laboriosa ristrutturazione cognitiva. La sensazione che il mondo vero sia quello della fiction, di cui la realtà non è che un pallido riflesso, è dura da scalzare quando il primo chiama in causa una soggettività carica, satura, vibrante e primordiale, per quanto vicariamente vissuta, mentre al confronto la realtà stinge nei colori pastello di un io rattrappito e dimesso, alle prese con compiti modesti, ma proprio per questo faticosi e debilitanti. Il problema è che le due dimensioni non sono del tutto sganciate: qualcosa nei serial riattiva parti sopite della personalità, desideri sepolti e istinti atrofizzati che malauguratamente tendono a spandersi sull’immagine del presente. Dimodoché, finita la visione, si conserva per qualche minuto una traccia della postura eroica sollecitata dalle gesta televisive e così combinati ci si accinge ad affrontare la telefonata della mamma, la spesa online, le mail degli studenti e la preparazione della cena. Il down è assicurato. Unico rimedio, gettarsi in un’altra serie: una manna per l’industria televisiva.
Nel 1953 gli psicologi Peter Milner e James Olds condussero esperimenti su ratti a cui erano stati impiantati elettrodi nel cervello. I roditori ricevevano una lieve scarica ogni volta che premevano una leva collegata agli elettrodi. Senza volerlo, Milner e Olds avevano centrato i circuiti cerebrali del piacere: i ratti giunsero a premere la leva sino a 7000 volte all’ora, perdendo ogni interesse per cibo, acqua, sesso, igiene personale e cura della prole. Con le serie succede la stessa cosa: si clicca sull’episodio successivo mentre si sta ancora guardando quello in corso per non perdere tempo con il buffering, si finge di non sentire la telefonata in arrivo persino quando la fonte è una persona cara, si trascurano i più immediati bisogni fisiologici pur di non interrompere il flusso che più sta a cuore, si opta per un menu serale a base di surgelati e si sbircia l’orologio con irritazione scoprendo che è quasi ora di uscire con gli amici.
È una droga, si dice. Prova ulteriore della tossicità seriale, il senso di colpa che accompagna la visione coatta degli episodi in streaming. Una parte del cervello resiste all’allettamento e invia segnali di allarme al resto dell’organismo, sotto forma di tachicardia, sudorazione e altre manifestazioni adrenaliniche che tuttavia si mescolano con gli effetti emotivi della trama, ragion per cui l’unica disposizione che arriva dritta ai centri di controllo è l’impazienza di giungere alla fine dell’episodio, come la fretta dell’alcolista di svuotare la bottiglia una volta per tutte, salvo stapparne subito una nuova. Togliersi il pensiero non è un’opzione quando la sostanza intossicante è fatta apposta per non essere abbandonata mai.
Tutte queste reazioni le ho provate, come si suol dire, sulla mia pelle. Proprio perciò vorrei capire da che cosa dipende questa dipendenza. Quali mancanze compensa, e in che modo? Con quali principi attivi operano le serie? L’attenzione si sposta dagli effetti alle cause, e dunque dalle interpretazioni ai testi che le generano: esiste un nucleo di tratti distintivi cui attribuire la catena di suggestioni che promanano dalle serie televisive?
Data la varietà delle ambientazioni, dei motivi e dei generi (fantasy, medical drama, dark comedy, thriller psicologico, dramma storico…), non è sul piano tematico che va cercato il dispositivo ultimo dell’effetto seriale. E neppure su quello enunciativo: le tecniche di ripresa spaziano dallo sguardo in camera di Frank Underwood ai lunghi piani sequenza di True Detective, dalle inquadrature a volo d’uccello di Game of Thrones alla shaky camera di Homeland. L’essenziale è altrove, e più precisamente nell’azione combinata di tre elementi indispensabili, i quali a loro volta retroagiscono con le predisposizioni di un certo tipo di spettatori. Potrebbero essercene degli altri, e non mi è del tutto chiaro come i tratti che sto per elencare si amalgamino in un unico dispositivo generatore di senso. L’ipotesi di partenza andrà affinata, applicata a una varietà di casi, e magari riformulata: lo schema che segue è perciò la puntata pilota di una ricerca più ampia sulle possibili cause degli effetti di serie.
Tyrion Lannister, Game of Thrones
Primo, la serialità continua. È nota la differenza tra la serialità episodica delle sit-com (in cui ciascuna puntata è autosufficiente e riporta alla situazione di partenza), la serialità aperta delle saghe (in moto perpetuo verso ulteriori sviluppi), e le gradazioni intermedie della serialità a spirale (che combina iterazione e progressione) e della quasi-saga (serie progressiva con episodi incapsulati). Solo la serialità continua provoca la dipendenza di cui stiamo parlando qui. Né Dr. House né Sex and the City, né Friends né How I Met Your Mother ci hanno mai ridotti a schiavitù: uno o due episodi alla volta ci appagavano, e lo scioglimento dell’intreccio ci riportava dolcemente a terra. I serial continui viceversa frustrano il bisogno umano di compiutezza (closure), intrecciando trame e sottotrame che non si risolvono neppure a fine stagione, ed è questa vorticosa fuga in avanti a catturare il pubblico, come ben sapevano i romanzieri d’appendice. Con la differenza che in quel caso la scansione delle puntate imponeva un consumo dilazionato del racconto, laddove il libero accesso agli episodi in streaming ne incoraggia l’uso smodato e la conseguente insoddisfazione. Senza chiusura non c’è catarsi, e senza catarsi non c’è pacificazione col presente.
Frank Underwood, House of Cards
Intrecci complessi e moltitudine di personaggi contribuiscono alla costruzione di mondi narrativi iper-ammobiliati: è il secondo requisito. Il caso limite è Game of Thrones, con i suoi sette popolosissimi regni, ma in generale gli universi seriali sono capolavori di architettura narrativa. L’attenzione per i dettagli – agli antipodi rispetto alle scarne descrizioni fiabesche – conferisce profondità a personaggi che, lungi dall’essere modellini in azione, riempiono la scena con le loro tortuose motivazioni. I rapporti che li uniscono, e le azioni che ne derivano, risultano psicologicamente plausibili grazie a sceneggiature accurate ed esaurienti. Non ci sono smagliature, ma tutt’al più fili in sospeso che verranno riannodati in seguito, di modo che alla lunga le motivazioni psicologiche finiscono per coincidere con quelle compositive. Tutto si tiene, o perlomeno si terrà. Entrare in questi mondi labirintici richiede addestramento, e non ci sono scorciatoie possibili, tant’è vero che gli episodi vanno visti nell’ordine giusto, dal primo all’ultimo, altrimenti ci si perde. Agli spettatori non resta che lasciarsi guidare passo per passo dagli sceneggiatori, i veri demiurghi con cui le diverse serie vengono identificate (mentre, diversamente da quanto accade nel cinema, i registi tendono a essere fungibili e meno caratterizzanti). Nella filiera che va dal soggetto alla sceneggiatura, alla regia e alla post-produzione, e infine alla fruizione del testo, sono le primissime fasi a contare di più: prova ne è che i discorsi critici sulla serialità televisiva si concentrano prevalentemente sui retroscena della scrittura, mentre le variabili interpretative sembrano incuriosire molto meno.
Infine, la centralità di personaggi psicologi e ideologi. Si dice che le nuove serie sono intelligenti, ed è vero. Ma anche gli individui che le animano sono dotati di facoltà cognitive superiori. Da questo punto di vista Gregory House è il prototipo dell’eroe intuitivo e idiosincratico di cui Rust Cohle (True Detective) e Carrie Mathison (Homeland) sono le evoluzioni più recenti. Altri protagonisti – come Tyrion Lannister di Game of Thrones, Frank Underwood di House of Cards, Saul Berenson di Homeland, Ragnar Lothbrock di Vikings e Ray Donovan dell’omonima serie – hanno doti quasi altrettanto prodigiose che applicano per elaborare piani d’azione imprevedibili, per motivare gli aiutanti dubbiosi, per sorprendere gli avversari, e per catalizzare gli eventi in funzione degli obiettivi che si prefiggono. Dove passano creano la storia.
Non solo gli eroi seriali fanno capitare le cose, ma sanno anche perché le cose capitano. Così come gli sceneggiatori sono i veri artefici delle serie, i personaggi sono gli sceneggiatori interni delle storie in cui compaiono, sempre in controllo di una vasta gamma di scenari controfattuali: se faccio X potrebbero succedere A, B oppure C, ma se succede C io farò Y e il mio avversario penserà che Z… Tengono d’occhio il quadro d’insieme, come si conviene ai migliori strateghi, formulano continue ipotesi su ciò che accade nelle menti degli altri, sanno intrattenere una molteplicità di mondi possibili alternativi senza confondersi tra l’uno e l’altro, e non esitano a mentire, a ricattare, e persino a uccidere, pur di perseguire i loro scopi. La distinzione tra bene e male non è particolarmente rilevante, né per loro né per chi ne segue le vicende: conta l’abilità strategica di sopravvivere e di prosperare in ambienti spesso ostili o insidiosi.
Marty Hart e Rust Cohle, True Detective
L’ambivalenza morale va di pari passo con l’impulso a teorizzare la propria filosofia di vita. Come i personaggi-ideologi di Dostoevskij descritti da Bachtin, gli eroi seriali amano discettare sui massimi sistemi, talvolta in contrasto con antagonisti-filosofi altrettanto eloquenti (memorabile, a questo proposito, il confronto tra il direttore della CIA e il capo talebano nella quarta stagione di Homeland), e non mancano di dispensare aforismi fulminanti a chiunque li stia ad ascoltare. Nelle versioni letterarie delle fiabe europee, la fondamentale amoralità dei personaggi veniva talvolta compensata da una morale conclusiva (in versi o in forma proverbiale) che rendeva espliciti i precetti comportamentali raccomandati dal racconto: non fidarsi degli sconosciuti, dotarsi di un protettore potente, agire d’astuzia in situazioni difficili, eccetera. Qui la situazione è un po’ diversa, perché a parlare non è il narratore esterno, latore di messaggi per così dire imparziali, bensì i personaggi stessi che, in quanto parti in causa, sembrano voler giustificare le proprie azioni, motivandole con argomenti di portata generale. Chi, dentro o fuori dal testo, subisca il fascino degli eroi ideologi è invitato a riplasmare la propria visione del mondo in accordo con quelle particolari focalizzazioni, ossia a identificarsi con la prospettiva interessata dei personaggi.
Diversamente dall’azione narrativa, fruibile a patto di sospendere l’incredulità, e cioè di far finta di credere finché si resta confinati nel mondo narrativo, le argomentazioni rispondono a un regime di verità che aspira a essere universale. Le conclusioni a cui pervengono potrebbero riferirsi ad altri mondi, oltre a quello che le ha partorite. Così, quando Rust Cohle, Frank Underwood e gli altri impartiscono le loro lezioni di vita, gli spettatori ne sondano la tenuta rispetto alla propria esperienza. Sarà vero che «We are things that labor under the illusion of having a self», o piuttosto che «We are nothing more or less than what we choose to reveal»? Chi ha più ragione, Rust o Frank? Quale filosofia mi rispecchia meglio? Finalmente da casa ci si sente interpellati.
Tra tutte le trappole che le serie ci tendono questa è forse la più insidiosa perché rischia di produrre effetti allucinatori. Noi non saremo mai come Rust o Frank, non solo nel senso che non ne possediamo le supreme capacità intellettuali (neppure quelle di Ulisse, di Miss Marple e di Reed Richards se è per questo), ma anche perché non esercitiamo mai il tipo di monitoraggio maniacale sugli eventi di cui essi sono capaci, sia perché è nella loro natura, sia perché i mondi in cui agiscono hanno il vantaggio di essere completi, organizzati e iper-reattivi, mentre il nostro è lacunoso, informe e tendenzialmente inerziale. Pensare, anche solo per un momento, che i due mondi siano intercomunicanti significa esporsi a cocenti delusioni. Per capire cosa intendo basta chiamare l’antennista e, dopo due ore di smadonnamenti, sentirsi dire che l’elementare collegamento alla parabola condominiale non si può fare (“Come non si può?”…“Non si può”). Cosa farebbe Frank Underwood? La risposta è irrilevante.