Roma e le orecchie dell’altro
Potenza straordinaria dell’ascolto! Le orecchie dell’Altro condizionano la voce di chi parla: non solo la intercettano, ma addirittura la attirano, la accalappiano. Prova sicura che, come Phoné, la Voce, anche Ous, l’Orecchio, ha una forza irresistibile, quasi divina. Un solo esempio che traggo dall’ultimo, magnifico libro di Maurizio Bettini, Roma, città della parola (Einaudi, 2022, pp. 410), sulla cui copertina fiorisce un incredibile cammeo del III secolo a. C. con una mano che tiene un orecchio, accompagnato dall’iscrizione greca: Mnemóneue, «Ricorda». Sarà per questo, mi domando, che una tradizione popolare, dei tempi che Berta filava, invita a tirare il lobo di chi compie gli anni, una volta per ogni anno trascorso: un memento del tempo che passa legato all’idea, garantita da Plinio, che «nel lobo dell’orecchio è insita la memoria, toccandolo chiamiamo qualcuno a testimone»…
Ecco l’esempio a cui alludevo. Intorno al 102 dopo Cristo, rientrato a casa nella spagnola Bilbilis (dalle parti dell’odierna Saragozza), Marziale apriva la lettera indirizzata all’amico Prisco, che funge da prologo del XII libro di Epigrammi, con una frase sbalorditiva, in cui giustifica il suo lungo silenzio letterario: «Ascolta, dunque, le mie ragioni. La prima, e la più importante, è che le orecchie di Roma, a cui ero abituato, qui invano le cercherei, e mi par d’arringare in un tribunale di paese ignoto: perché quante piacevolezze si trovino per avventura nei libri miei, colui stesso che le ascoltava, me le dettava» (cito il brano nella traduzione indimenticabile di Guido Ceronetti, Einaudi 1964, che restituì in perfetta consonanza il tono ironico e malinconico, violentemente spudorato del poeta provinciale, vissuto trent’anni con varia fortuna a Roma, e poi di colpo fuggito così lontano, così solo e nostalgico).
Quella nostalgia che il poeta prova per le «orecchie di Roma», spiega acutamente Bettini, mette in luce con «un paradosso molto elegante, ma anche molto rivelatore» il rapporto di «interazione fra il poeta e il suo uditorio, realizzata attraverso il medium della voce», che genera «un effetto di ritorno sul testo». Accanto alla formula ormai consueta di intertestualità Bettini propone quella originale e molto efficace di «interoralità», «una dimensione apertamente dialogica del comporre che la nostra (moderna) rappresentazione del “testo” letterario sostanzialmente non prevede». Prima ancora che nella dimensione grafica e visiva il carattere sonoro della voce poetica si esprimeva, a Roma, nella dimensione interiore della meditatio compositiva, e poi nella dettatura allo scriba: così «le immagini mentali del poeta prendevano forma poetica per la prima volta». E poi uscivano, dilagavano verso «l’orecchio esterno» del mondo, che ne rilanciava gli echi e le tracce nella direzione dell’autore. Si potrebbe aggiungere che un atteggiamento antropologico non dissimile prenderà forma secoli più tardi con la prima poesia volgare europea, quella dei trovatori provenzali, che si impernia sul chan, il “canto” del poeta che esprime il melhurar della sua interiorità e condensa la vocalità del gesto creativo e della sua circolazione, spesso attraverso “tenzoni” verbali, anche con richiamo esplicito a un dialogo fra il poeta e il suo pubblico (composto in prevalenza da altri poeti).
Seguendo una «pista squisitamente linguistica», che consente di ricostruire campi semantici e dispositivi sociali condivisi, Bettini svela quanto profondamente nella cultura romana, specie la più antica, la parola, il “dire”, contasse più dello “scrivere”: Plinio e Ovidio insistono sul fatto che l’orecchio «è dotato di memoria, si tratta di un luogo in cui si possono “riporre” (condere) le informazioni». Ricorrono alla memoria i saperi normativi, specie nel diritto, e quindi nella religione, che in Roma al diritto si lega strettamente in quanto funzione politica (ricordo le ricerche di un maestro di storia delle religioni classiche come Angelo Brelich – che pure Bettini non cita – sul ruolo politico-giuridico-amministrativo della classe sacerdotale romana, in confronto alla sua totale assenza in Grecia). Però il giureconsulto e il pontefice di Roma sono assimilabili all’exegetés greco, e trovano il loro significato «all’interno di un contesto orale»: exegetés è «qualcuno che “conduce” (ex-hegéomai), una voce che precede nel cammino enunciando le formule necessarie alla realizzazione di un determinato processo». Bettini richiama l’esempio della Cappadocia, che sceglieva come exegetés giuridico «un nomodós, ossia un “cantore di leggi”»: e il metodo comparativo, frequentemente applicato, rafforza, storicizzandole, le specificità romane.
Roma, città della parola, che si apre con l’emblema ermetico dell’«orecchio della memoria», è dedicato con grande respiro antropologico e solidissima erudizione storiografica alla forza simbolica dell’oralità, della «parola parlata» nella «memoria culturale dei Romani»: «un flusso crescente di racconti che ripercorre i vestigia del passato» dotato di un’eccezionale «natura “ricostruttiva” », un fascio complesso e ramificato di dispositivi che coinvolgono «le pratiche politiche, istituzionali e giuridiche». Si attraversano queste ariose arcate di ragionamento, che si svolgono in quelle che Singleton per Dante definiva visioni retrospettive, come se fossero un mirabile theatrum memoriae, edificato con la fascinosa limpidezza di scrittura e la coerenza argomentativa che da sempre conosciamo nei libri di Bettini, a partire da Voci. Antropologia sonora del mondo antico (Einaudi 2008), su cui poggiano gli assi problematici del libro odierno.
Le pagine più avvincenti di Roma, città della parola sono dedicate ai «quattro principî cardinali della cultura romana», che «hanno la forma di monosillabi: ius, mos, lex e fās». «Ennesima manifestazione della parsimonia, della frugalitas, virtù romane per eccellenza, perfino nel linguaggio? Potremmo divertirci a pensarlo», commenta sornione Bettini, aprendo un problema di storia semantica delle idee di grande interesse, che fa, appunto, molto pensare. La sua riflessione muove da alcune sottili considerazioni di Riccardo Orestano sul fatto che nel diritto romano «moltissime delle espressioni che anche in età posteriore indicano attività normative, di comando, di decisione, di designazione, di dichiarazione da parte di organi pubblici […] ci riconducono a manifestazioni verbali; e quando anche, nel corso dei secoli, talune di esse porteranno a una redazione scritta, […] il termine con cui continueranno a essere designate manterrà vivo il ricordo della loro origine orale».
Una potenza mnemonica sostiene la forza simbolica dello ius, in cui si rivela addirittura, agli inizi, una «riluttanza» nei confronti della scrittura, paradossale giacché «in assenza di scrittura […] il “tornare indietro”, da una volta all’altra, sui singoli enunciati è molto più difficoltoso, perché la loro formulazione è affidata unicamente alla memoria e alla voce». La presenza costante della «memoria delle orecchie» e della «parola parlata», di una parola «di tipo dialogico» che trasforma l’interpretatio delle leggi in una disputatio, fa sì che la sede del diritto prenda dimora nella memoria collettiva, anche quando «le norme (finalmente) scritte» avviano «uno ius dal carattere (nuovamente) orale». Ed è davvero formidabile, nella dimostrazione di come lo ius circoli in permanenza anche fra la gente semplice, la prova del nove che Bettini propone, individuando nelle commedie di Plauto certe battute che si intendono solo ipotizzando una comprensione di allusioni ironiche al diritto da parte del pubblico: «le leggi erano entrate a far parte della memoria culturale dei Romani, del loro stesso linguaggio, e come tale circolavano, disperse e frammentate, nella consapevolezza comune».
La parola giuridica è relativamente libera, ma al contempo subisce un forte controllo: si esprime per formulas, ossia, come si deduce da un luogo inatteso qual è il commento di Servio all’Eneide, attraverso concepta verba, parole “cucite insieme” con cura ed eleganza da un “sarto” (sarcinator) artefice di vestimenta verbali di origine varia, «fra loro connessi e armonizzati per formare un enunciato unico e corrispondente a un determinato modello». Questa è autentica, raffinata antropologia di una civiltà, colta nei dettagli minimi, con un acutissimo sguardo in tralice che attraversa àmbiti assai diversi cogliendovi la diffrazione prismatica di una stessa luce: appunto lo stile di pensiero, la memoria culturale che sostiene i grandi paradigmi riconoscibili sotto la superficie dei fatti e degli atti quotidiani. Lo stile di pensiero e di vita della Roma antica è vocale-aurale: una Voce penetra nelle stradine della Suburra e nei teatri, nei mercati, nel Foro; passa da Orecchio a Orecchio, generando rivoli di altre Voci che tornano, meditative, ad altre Orecchie, di cui le pagine degli scrittori e dei poeti ci lasciano memoria, tracciati sottili ma robusti, come quelli dei carri sui lastricati delle strade: «Ibam forte via sacra, sicut meus est mos, / nescio quid meditans nugarum, totus in illis»…
Ho amato molto (e penso che li avrebbero amati anche Brelich, e Dumézil, e Benveniste) i capitoli, che costituiscono il nerbo dell’intero libro, sul «Fatum, il destino parola» e sul passaggio semantico «Dai “Fata” alle Fate»: «A Roma il destino è, prima di tutto, parola, sia pronunziata dalla divinità sia divinità essa stessa, in prima persona. Il nome latino del destino, infatti, è fatum, un participio passato neutro di fari: ossia il verbo che significa “dire”», un «“dire” potente ed efficace». Il destino è «un prodotto della “voce”, un verdetto proferito, si tratti di un fatum pronunziato nella modalità del fari o di un carmen che ci rimanda alla sfera del canere». Si ricordi che nella religione di Roma antica gli dèi «non sono persone, dotate di una identità fissa e definita, ma “potenze”, la cui rappresentazione è indipendente dai vincoli (anche linguistici e grammaticali) imposti agli umani».
Quando prendono forma e nome queste “potenze divine” occupano e proteggono stati interiori individuali e momenti condivisi, spazi, azioni, gesti anche minuti. Secondo una testimonianza di Varrone, ad esempio, «quando i bambini cominciavano a parlare (fari), si sacrificava al dio Fabulinus». Lungo i secoli medioevali, nei racconti cortesi e poi nelle favole popolari, all’incredibile, al tenerissimo Fabulinus, “Favolino” o forse anche “Parlantino”, protettore del passaggio dal balbettìo dell’infans alla parola adulta, si sostituirà la buona fata protettrice: e i Fata, le Fatae, saranno l’estrema metamorfosi delle Parcae che filano il fato di ogni individuo, e di un’intera civiltà. «Evidentemente la denominazione originaria, Fata, neutro plurale, non aveva retto alla pressione delle diverse rappresentazioni culturali e religiose che circolavano riguardo alle potenze del destino in un territorio culturalmente ed etnicamente sempre più variegato. […] ùÈ molto affascinante vedere le Moire che assisterono un dì alla nascita di Meleagro, le Parcae o Carmentes profetiche di cui ci parla Varrone, i Fata divina dipinti nella Catacomba di Vibia, e così via, popolare adesso gli stessi boschi incantati, e gli stessi meravigliosi castelli, in cui si aggirano anche Morgana e Melusina. Questo nuovo scenario ci mette di fronte a uno dei tanti fenomeni culturali in cui la struttura e il tempo – dimensioni non poi così inconciliabili fra loro – si combinano per dar vita a credenze, immagini e racconti, in cui il passato continua a vivere sotto nuove forme».
Circa 150 pagine del libro si snodano su questi temi centrali, con una sagacia e un’erudizione perfettamente calibrate, e soprattutto con un tono serenamente discorsivo e colmo di umori e sapori narrativi, che accompagna per mano il lettore in territori ardui e impervi. Nel ragionamento sul Destino-parola sono di straordinaria originalità e bellezza le pagine sull’attività vaticinatoria dell’augure, il quale attraverso il gesto dell’effari («propriamente “parlar fuori”») consacrava e purificava, ma al contempo segnava i confini: «Si tratta di una parola che non solo enuncia il carattere sacro di un luogo, ma direttamente lo realizza: appena pronunziata essa recinge, chiude, circoscrive. Se il “dire” si esprime nella modalità dell’effari, il noto proverbio “fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” suona del tutto vano. Di mezzo non c’è nulla». A Roma dire “è” fare; fari “è” agere. La parola, strumento del vates, come del poeta, ha il potere di controllare e orientare il fatum, i fata, ossia «ciò che gli dèi fantur»: nella civiltà romana «le divinità prendono il loro nome dalla sfera di influenza che occupano», di fatto definiscono e proteggono i confini degli spazi e dei tempi reali come di quelli simbolici.
Un’altra testimonianza di Varrone, che nel De lingua latina cita un antico effatum, formula augurale e quindi parola efficace, attraverso l’acuta lettura che ne dà Bettini permette di «entrare nella mente stessa di un augure romano, nel suo modo di “pensare” ciò che sta facendo attraverso la propria performance rituale»: «la definizione del templum è un fatto di rappresentazione mentale, espressa attraverso la pronunzia solenne della formula, e non un reale procedimento di delimitazione del terreno». L’aspetto più sorprendente della procedura rituale fondata sulla parola-fatum è «l’insistenza sulla percezione soggettiva dell’augure, il suo far riferimento non solo a ciò che ha detto, ma a ciò che “sente” di aver detto. […] La recitazione della formula è tutta fondata su un’aperta scissione fra il piano di ciò che si fa o si dice, e il piano di ciò che si “sente” fare o dire: e non c’è dubbio che, dal punto di vista dell’efficacia rituale, il piano della percezione sia ritenuto molto più rilevante di quello della realtà effettiva. È come se all’augure interessasse delimitare, con scrupolosa esattezza, non solo lo spazio sacro, ma anche e soprattutto lo spazio della propria consapevolezza. In un certo senso, è delimitando questa che lui delimita quello. Recitando una formula ritualmente composta (concepta verba) ciò di cui l’augure continua, paradossalmente, a non fidarsi sono proprio le sue “parole”, la sua “enunciazione”. L’atto religioso – che noi immagineremmo sprigionarsi dalla tensione fra reale e soprannaturale, fra mistica invasione della divinità e sconvolgimento dello spazio umano – si consuma piuttosto in un conflitto protocollare fra realtà e percezione, fra discorso e consapevolezza. Siamo a Roma, la patria del diritto».
Questo momento fondamentale dell’argomentazione di Bettini, che storicizzando elimina opportunamente ogni ricorso alle idee moderne di “soprannaturale” e di “mistico” e recupera il valore dell’efficacia rituale, mi riporta alla mente certe pagine determinanti di Ernesto de Martino, in Il mondo magico (1948), dedicate al «problema dei poteri magici» e al «dramma storico del mondo magico» (che vennero rudemente criticate da Croce), in cui il tema del caos, dell’incrinarsi dei limiti e dei confini, si collega dialetticamente alla forza simbolica che risarcisce «l’orizzonte in crisi». Scriveva de Martino, confrontando l’orizzonte della magia nella civiltà occidentale con quello delle culture etnologiche: «Necessariamente connesso al rischio di perdere l’anima sta l’altro rischio magico di perdere il mondo. […] Quando un certo orizzonte sensibile entra in crisi, il rischio è […] costituito dal franamento di ogni limite: tutto può diventare tutto, che è quanto dire: il nulla avanza. Ma la magia, per un verso segnalatrice del rischio, interviene al tempo stesso ad arrestare il caos insorgente, a riscattarlo in un ordine. La magia si fa in tal guisa, considerata sotto questo aspetto, restauratrice di orizzonti in crisi».
Tenendo conto delle differenze culturali, la protezione “magica” dell’orizzonte in crisi e il “sentire” dell’augure mentre “fa” e “dice” la parola-fatum spartiscono un’energia comune. Se si applica a Roma un’altra splendida formulazione demartiniana, anche il sacerdote-interprete dello ius e l’augure che fonda i confini dando loro senso, valore e forza, ristabiliscono «il limite che renda l’esserci presente al mondo». Essi sono operatori del rischio e della crisi, «i signori del limite, gli esploratori dell’oltre, gli eroi della presenza»: garanti dell’ordine sempre riconquistato attraverso la parola-fatum emessa rite (l’antico sanscrito ṛta, che indica lo stretto legame fra il rito sacrificale e l’armonioso ordine dell’universo).
Anche la Voce dev’essere emessa rite, se si vuole che divenga parte di un corpo sociale, elemento di un sistema di valori collettivo. Confrontando il carmen, il saturnio e altri metri antichi della cultura romana con le pratiche poetiche cantate (mvet) dei Fang del Camerun, dove una voce «si instaura in modo (apparentemente) autonomo all’interno di altre», fino ad «assumere la funzione di voce degli spiriti, voce della tradizione e dell’autorità», Bettini ci invita a immaginare nella memoria e nelle pratiche dei Romani una «voce risultante dell’armonia fonica», in cui gli enunciati prendono corpo in una dimensione sonora che li preserva, sottraendoli «al carattere effimero, caduco, sfuggente del parlare ordinario – il discorso “di consumo” – per essere collocati nella categoria del discorso che permane, quello che può essere ulteriormente “ri-usato”. Secondo la funzione, cioè, che compete alle formule augurali, alle preghiere, ai responsi dell’oracolo, agli enunciati giuridici, alla poesia, a tutta quella produzione linguistica, cioè, che deve avere la capacità di essere enunciata allo stesso modo in occasioni diverse».
L’ultimo dei quattro monosillabi che rappresentano gli assi cosmici, religiosi e socio-politici della civiltà di Roma, fās, occupa una posizione simbolica specialissima, che sembra sottolineata anche da una peculiarità linguistica: «fās è addirittura l’unico nome indeclinabile presente nella lingua latina», e «in quanto privo di casi obliqui, non può essere messo in relazione con qualche altra cosa: […] fās non è un sostantivo di carattere relazionale», ed è stato introdotto nella memoria culturale romana «quasi esclusivamente per definire se una certa cosa/azione è fās o meno, predicando questa qualità attraverso il verbo sum. […] Più che un sostantivo, insomma, fās è un sigillo, un timbro, che si imprime sui comportamenti o sugli avvenimenti». Bettini legge con forza e nitidezza, e con grande originalità ermeneutica, le caratteristiche che riconducono fās al campo coerente in cui si installano la religione e la giustizia, nella dimensione dell’«efficacia della “parola parlata” a Roma»: ma non in quanto «legge divina» che designa «un ordine superiore a quello umano, definito dagli dèi», bensì in quanto «decisione la cui origine ha carattere puramente umano». Fās non indica alcuna volontà divina: «è una regola che riguarda tanto il comportamento in ambito religioso quanto altri comportamenti che non rientrano in questa sfera».
In Tristi tropici (1955) Claude Lévi-Strauss, definì «uno stile», capace di formare dei «sistemi», «l’insieme dei costumi di un popolo». E Maurizio Bettini, richiamando con grande finezza quest’idea, parla di uno «stile culturale “umano”» realizzato dalla civiltà romana: «Riteniamo che anche i Romani fossero caratterizzati da un determinato stile culturale, in particolare riguardo al loro modo di concepire la giustizia e la religione. Esso consiste nella convinzione che – come avvenuto con Numa – siano gli uomini a instaurare questo tipo di regole, senza l’intervento della divinità». Il carattere «civile», «civico» della religione romana si illumina proprio cogliendo questo tratto decisivo: «la persuasione che le divinità e il loro culto siano una funzione delle comunità umane», secondo uno stile culturale di alto profilo, che va colto nella sua complessità se si vuole apprezzare «l’“alterità” dei Romani», lo specifico carattere che la connota: «la cultura romana, lungi dall’avere una visione religiosa del diritto, ebbe piuttosto una visione giuridica della religione». Il fās è una vis innata, e per questo non è negoziabile: anch’esso va ricondotto, propone Bettini con argomenti molto persuasivi, alla radice indoeuropea *bhā, la stessa di fari e di fatum, e quindi alla civiltà della parola efficace: «il fās è un “parlare” che si impone per virtù intrinseca, […] “è parola” da sempre. […] Per dirlo in modo ancor più diretto, in una cultura orale fās est, “è parola che”, corrisponde puntualmente a ciò che, nelle culture fondate sulla religione del libro, verrà un giorno espresso con la formula “sta scritto che”».
Per concludere, a proposito della parola-fatum come rappresentazione mentale dell’augure e al potere umano di definire ciò che è o non è fās voglio rievocare un altro saggio magistrale di Lévi-Strauss su L’efficacia simbolica, uno dei più intensi di Antropoologia strutturale (1958). Studiando nella cultura dei Cuna panamensi l’intervento terapeutico dello sciamano attraverso il canto, che «costituisce una manipolazione psicologica dell’organo malato», Lévi-Strauss offriva una soluzione metodologicamente assai elegante, a mio parere non estranea all’orizzonte storico-culturale e antropologico che Bettini, a proposito della funzione rituale dell’augure romano, definisce «conflitto protocollare fra realtà e percezione, fra discorso e consapevolezza»: «Lo sciamano adempie lo stesso duplice ruolo dello psicanalista: un primo ruolo – di ascoltatore per lo psicanalista, e di oratore per lo sciamano – stabilisce una relazione immediata con la coscienza – e mediata con l’inconscio – del malato. È il ruolo dell’incantesimo propriamente detto. Ma lo sciamano non si limita a proferire l’incantesimo, ne è l’eroe […]. È in questo senso che egli si incarna, come lo psicanalista oggetto del transfert, per diventare, grazie alle rappresentazioni indotte nello spirito del malato, il reale protagonista del conflitto che quest’ultimo esperimenta a metà strada fra il mondo organico e il mondo psichico». Come l’augure “definisce” il templum in primo luogo rappresentandolo nella propria mente, dandogli limite attraverso la parola, così «le rappresentazioni evocate dallo sciamano determinano una modificazione delle funzioni organiche» nel malato: lo sciamano fornisce al suo paziente «un linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati, e altrimenti non formulabili».
Potenza straordinaria della parola e dell’ascolto! A poco a poco, però, la Parola sposta le proprie rappresentazioni culturali nella Scrittura, e i fata richiedono una diversa memoria, depositata negli «archivi del destino». Una fra le pagine più brillanti del libro di Bettini, Scrivere i “fata” a Burdigala, racconta la vicenda fascinosa del poeta Decimo Magno Ausonio, che nel IV secolo dopo Cristo, cuore della metamorfosi lenta e inavvertita della civiltà romana in quella cristiana, nei Parentalia dedicati alla memoria dei parentes ricorda il suo nonno materno, Cecilio Argicio Arborio, che era «“esperto nella conoscenza dei moti celesti e degli astri che predicono i destini”, benché quest’arte egli solesse praticarla “di nascosto” (dissimulans)». Come sempre è nel dettaglio che si annida il buon Dio. E qui lo storico Bettini, innamorandosi del dettaglio parlante, lascia venire a galla il vivace narratore che convive in lui: nella sua rilettura il frammento di cronaca familiare fermato nei secoli dalla parola poetica di Ausonio offre «uno scenario quasi romanzesco – un nonno esperto nei misteri dell’astrologia, una madre che ne viola i segreti, indiscreta e affettuosa… Il che significava, però, che in casa di Ausonio c’era qualcuno che, fuor di metafora, i destini li scriveva davvero, consegnandone l’arcano alla custodia di tabulae tenute sotto sigillo. Per merito dell’amore che sua madre gli portava, Ausonio aveva avuto il privilegio di conoscere realmente la “scrittura” dei propri fata».