Tomi Ungerer / Fuga dalla fine del mondo
L’ultimo albo illustrato di Tomi Ungerer (1931-2019), Non stop, uscì in Germania nel maggio 2019, appena tre mesi dopo la sua scomparsa. Come accade spesso in casi del genere, specie ad artisti considerati maestri, il libro venne accolto come un testamento, e fu tanto più atteso dal momento che rappresenta il tassello conclusivo di una carriera singolarmente eclettica e prolifica (più di 140 volumi, secondo il sito ufficiale). Di fronte all’ultimo lavoro dell’autore di classici per l’infanzia come I tre briganti (1961), L’uomo della Luna (1966), Il gigante di Zeralda (1967) e Otto. Autobiografia di un orsacchiotto (1999), ma anche di un corpus di libri inclassificabili, audaci e visionari, abilissimo nel giocare in modo provocatorio e intelligente con le convenzioni e i tabù dell’immaginario, definito da Maurice Sendak il più originale della sua epoca, sarebbe stato davvero difficile sottovalutare l’importanza di questa uscita, ma altrettanto difficile comprenderne subito e fino in fondo la portata, senza il proverbiale senno di poi.
Credo che non pochi lettori tedeschi, sfogliando allora Non stop, siano rimasti delusi al cospetto di una storia di rara cupezza e alienazione, un incubo talmente essenziale nelle immagini e nell’economia delle parole da sfiorare la metafisica. Per le strade di una città deserta che ricorda le architetture di De Chirico e le geometrie Bauhaus, un uomo di nome Vasco «attraversa senza meta solitudini desolate, seguendo la sua ombra», in una fuga che di pagina in pagina si preannuncia ininterrotta. Prima ancora della sua comparsa, un incipit memorabile campeggia senza accompagnamento di immagini sul vuoto di una pagina bianca, come inciso sulla pietra:
Uccelli, farfalle e topi: tutti spariti.
L’erba e le foglie erano avvizzite.
I fiori s’erano trasformati in ricordi.
Le strade e i palazzi erano deserti.
Erano andati tutti sulla luna.
Un libro per bambini, ma che senza dubbio ha portato molti genitori ed educatori a chiedersi come si possa proporre a un bambino una storia del genere. Possibile – si sarà domandato qualcuno – che un maestro noto per le sue trovate fuori dagli schemi e il suo genio polemico abbia voluto uscire di scena con un’opera tanto dimessa ed enigmatica? La prima recensione su Amazon parla addirittura di un «libro terribile», di «incubi abbastanza insipidi messi insieme in una storia tirata per i capelli», «con un finale strampalato» e «disegnata pure con un tratto un po’ rigido», e non è stata certo scritta da un lettore sprovveduto, come dimostrano le considerazioni successive. Il recensore osserva infatti che è necessario prendere sul serio il lascito di un grande illustratore, e poi che si tratta di un libro sul nostro mondo contemporaneo, motivo per cui sarebbe stato inopportuno aspettarsi qualcosa di diverso.
L’edizione italiana di Non stop, pubblicata da orecchio acerbo con traduzione di Damiano Abeni, è stata stampata nel febbraio 2020, a ridosso dell’emergenza Covid. Qualsiasi affermazione sull’attualità di Non stop ha assunto nel frattempo un rilievo ben più significativo, e oggi è forte la tentazione di scorgere nella storia di Vasco che attraversa un mondo al collasso (anzi, già collassato) delle risonanze profetiche. Rispetto al 2019, è ragionevole pensare che l’albo si sia imposto agli occhi di molti più lettori come un libro degno di un interesse particolare in rapporto al nostro tempo, anche a prescindere dal suo autore. Il volume è chiaramente lo stesso, ma l’esperienza della pandemia ci ha fornito una chiave per sentire più familiare il suo linguaggio straniante, superare le resistenze critiche superficiali e lasciarci guidare nella lettura, o meglio nella visione, con l’abbandono che ai bambini riesce più spontaneo. Un papà americano, su Goodreads, ammette così che di fronte alla stranezza del libro si era preoccupato che potesse risultare ansiogeno, ma dopo averlo letto assieme al figlio di cinque anni ha iniziato ad apprezzarlo sempre più, trovandolo «stranamente commovente e incoraggiante».
Una bellissima intuizione da cui prende le mosse Non stop è l’immagine di un uomo che si lascia guidare per le strade deserte della città dalla sua ombra, e in questo modo riesce a scampare una serie di pericoli imprevedibili. Nella letteratura per l’infanzia l’Ombra è anzitutto l’Altro, spesso interpretato in termini negativi come il Nemico, lo spauracchio, l’uomo nero o la strega malvagia. È la manifestazione oscura dell’imago materna e paterna nei loro connotati più spaventosi, annidata nell’inconscio del bambino, ma è anche il riflesso perturbante di un doppio, la rappresentazione di una parte di sé che il bambino non conosce, che censura o della quale ha paura. Nelle opere che attingono più a fondo dai pozzi dell’immaginario infantile, come ad esempio nella scena in cui la perdita dell’ombra di Peter Pan prelude all’incontro con Wendy, l’Ombra è una figura della soglia e dell’ambiguità, immagine al contempo dell’Altro e del Sé, capace di svelare dietro l’opposizione una trama di relazioni.
Molti albi illustrati di Tomi Ungerer mettono in discussione l’interpretazione dell’Altro come Nemico, e illuminando da prospettive inedite personaggi e animali tradizionalmente associati agli aspetti negativi dell’archetipo dell’Ombra, come orchi, briganti, topi e serpenti, invitano i bambini ad affrontare le paure e i pregiudizi per superarli. Non stop porta questo discorso alle estreme conseguenze, mostrando un personaggio che si salva perché si affida alla sua ombra, e grazie a lei, strada facendo, giunge all’incontro con l’Altro, che nell’alienante mondo abbandonato dall’umanità per trasferirsi sulla luna è giustamente un alieno verde con le antenne e la coda. Niente – questo il suo nome – consegna a Vasco una lettera destinata alla moglie «svanita nel nulla», una lettera priva di indirizzo, ma che «troverà la sua strada» fino a condurlo dal piccolo Poco, con cui l’uomo abbandonerà l’isola. In questo modo, poiché «finalmente aveva qualcuno di cui prendersi cura», il Sé è salvato dall’Altro una seconda volta e la storia può svilupparsi anche su un piano simbolico complementare: come l’Ombra l’aveva guidato lontano dai pericoli, ora è lo stesso Vasco a guidare e proteggere il piccolo che gli è stato affidato.
Ma non è forse Poco il maestro, e Vasco il discepolo che grazie alla sua presenza reimpara a vivere, e che nella sua dolcezza infantile ritrova sé stesso e la fiducia in un mondo possibile? All’osservazione di un lettore attento come Francesco Boille, che ha scritto che «apparentemente più adatto agli adulti, Non stop è pedagogico e quasi iniziatico alla vita per i bambini», aggiungerei che apparentemente destinato ai bambini, Non stop è pedagogico e quasi iniziatico alla vita per gli adulti. Senza dubbio siamo di fronte a un’opera che gioca con grande raffinatezza sull’espressione dell’ambivalenza e sulla ricerca di equilibri e corrispondenze, come si può notare sia nella fisionomia dell’uomo di cui non si scorge mai il volto, sia nella composizione di luci, ombre e colori nei vari scenari, sia nell’attenzione per i dettagli. Dall’ombra che indica con una mano la strada, mentre con l’altra parrebbe esortare alla sosta, alla foresta di «alberi senza rami» dove l’aspetto di due tronchi contraddice il testo in due modi diversi, innescando una sequenza in cui lo spazio assume caratteri metamorfici, sono molte le figure evocative della migliore tradizione onirico-visionaria, che comprende ad esempio il volo del piccolo Mickey in La cucina della notte (1970) di Maurice Sendak, a sua volta ispirato al Little Nemo di Winsor McCay (1905-1927), o il viaggio subacqueo dell’uomo-cavallo BoJack Horseman in Un pesce fuor d’acqua (2016), uno degli episodi più acclamati della celebre serie animata.
Al di là della peculiarità dell’opera è però giusto notare, come ha fatto Dave Eggers in un’entusiastica recensione sul New York Times, che il paradosso di un libro per bambini adatto agli adulti o viceversa discende anche dalla rigidezza di un sistema di aspettative, classificazioni e pregiudizi nei confronti del quale l’opera di Tomi Ungerer funziona come un meraviglioso grimaldello, e che Maurice Sendak ha definito Kiddiebookland: «quel posto orribile in cui siamo stati schiacciati perché siamo illustratori di libri per bambini o scrittori di libri per bambini. Certo che lo siamo! Ma il nostro lavoro non è rivolto a tutti? Com’è irritante e offensivo quando un lavoro serio è considerato solo una sciocchezza per la scuola materna!».
Il disconoscimento dell’infanzia come orizzonte interiore proprio dell’umanità è uno dei volti dell’espulsione dell’Altro nel mondo contemporaneo discussa da Byung-Chul Han nell’omonimo saggio, uno dei suoi aspetti più impercettibili e anche uno di quelli che l’esperienza della pandemia ci ha costretto ad affrontare in prima persona, come nella poesia Nove marzo duemilaventi di Mariangela Gualtieri suggerisce l’immagine di un intero mondo in castigo («Una voce imponente, senza parola / ci dice ora di stare a casa, come bambini / che l’hanno fatta grossa). «Solo una debolezza, una debolezza metafisica, una passività originaria rende ricettivi alla voce dell’Altro» osserva Byung-Chul Han, citando una lettera in cui Kafka «paragona i profeti a “deboli fanciulli” che “ascoltavano la voce che li chiamava” e provavano “una paura che straziava il cervello”», e concludendo che «la debolezza infantile, in quanto ricettività nei confronti dell’Altro, non ha molto a che spartire con la nostra società narcisistica». Le riflessioni del filosofo, inoltre, convergono nel capitolo finale del saggio nella proposta di un’etica dell’ascolto ispirata a Momo (1973) di Michael Ende, un classico della letteratura per ragazzi che è anche un esempio puro di letteratura fantastica, ovvero, nelle parole dello stesso autore, di un’enclave particolarmente negletta all’interno della riserva in cui è stata relegata.
La riserva dalla quale vengo si chiama «Letteratura per ragazzi» e appartiene a quella tipologia particolare verso la quale gli abitanti del deserto della civiltà ostentano una bonaria tolleranza – alcune società benefiche addirittura se ne prendono cura – anche se poi la detestano radicalmente, come accade per lo più a tutto ciò che ha a che fare con i bambini. […]
Ora, all’interno della nostra riserva esiste una particolare enclave che quei missionari odiano come la peste, perché perfino i più volenterosi tra di loro hanno perso la speranza di scacciarvi via lo spirito dell’oscurantismo. Questa enclave si chiama «Libro fantastico per ragazzi» e si tratta di un distretto nel quale, per così dire, si sovrappongono due diverse riserve, vale a dire quella già descritta come «Letteratura degli intoccabili» e quella «Fantastica», che già di per sé viene considerata escapistica e priva di valore, soprattutto se si dimostra – compatibilmente con le attese – patologica, conturbante e anche un tantino licenziosa. La sovrapposizione delle due riserve non somma semplicemente l’«effetto tabù» di ciascuna, ma lo moltiplica.
In una conferenza intitolata Perché scriviamo per i bambini?, tenuta a Tokyo nel 1986 durante l’annuale convegno del Comitato Internazionale per la letteratura giovanile (IBBY), Michael Ende accostò alla definizione goethiana di «eterno femminino» quella di «eterno infantile», «un’essenza senza la quale l’uomo smette di essere uomo», e parlò delle sue storie come di avventure che lo portavano a confrontarsi con difficoltà di cui lui stesso ignorava la soluzione, prima di trovarla assieme ai suoi protagonisti nell’atto creativo. «Mentre scrivevo La storia infinita e assieme al mio piccolo protagonista, Bastiano, affrontavo il lungo girovagare per Fantàsia,» spiegò, «non avevo la minima idea di dove avrei trovato l’uscita da quel mondo, un’uscita che avrebbe consentito a lui e a me il ritorno nella realtà esterna». E per illustrare la sua concezione, fondata sul pensiero di un’arte libera da intenti ideologici e funzioni pragmatiche, fece l’esempio di un marionettista russo detenuto in un campo di concentramento nazista, che modellando delle figurine con briciole di pasta di patate metteva in scena fiabe che intrattenevano i bambini e gli adulti «perfino di fronte alla morte». Sebbene non servisse a cambiare il corso degli eventi, osservò Ende, il modo in cui giocava col condannato «a mettere in scena il suo stesso destino», durante le notti che precedevano l’esecuzione, «restituiva agli uomini il sentimento della loro dignità».
Tomi Ungerer, che trascorse un’infanzia segnata dall’esperienza dell’occupazione tedesca dell’Alsazia – come ha raccontato in Tomi: A Childhood Under the Nazis (1998) –, giunge in Non stop a un’intuizione analoga. Sotto la sagoma di una luna già inquinata dall’umanità che vi si è trasferita, simile a un buco nero, l’albo propone l’immagine del viandante e del bambino diretti verso una meta che ancora non conoscono, ma che arriveranno a intravedere in lontananza, in un’apparizione fantasmagorica che nel modo più esplicito possibile fa appello al fanciullo vivo in ognuno di noi. Nel mezzo del deserto torna a farsi visibile il cielo, prima oscurato dai palazzi o da tinte apocalittiche, e nel cielo notturno ricompaiono le stelle. Per l’epilogo raccontato senza immagini, proprio come nell’incipit, Tomi Ungerer ha scelto infine una storia che fosse al contempo una continuazione degli eventi narrati, una loro proiezione su un arco di tempo più ampio e un piccolo gioiello di poesia che dà voce alla bellezza degli affetti e delle cose più semplici. Se nell’Uomo della Luna, dopo un deludente soggiorno sulla Terra, l’alieno protagonista trovava il modo per tornare in cielo su un’astronave, in Non stop è proprio l’assenza di una possibilità di fuga dal pianeta a rendere possibile l’assunzione di una nuova prospettiva di radicamento. L’incontro tra l’uomo e il piccolo extraterrestre, in un mondo dove la meraviglia può ricomporre in un inedito scenario familiare l’estraneità di ogni cosa, ha dato vita a una famiglia.
Note di lettura
Gli interventi di Michael Ende citati sono tratti dal volume Storie infinite, a cura di Saverio Simonelli (Rubbettino, 2010). L’espulsione dell’Altro di Byung-Chul Han è stato pubblicato in Italia da Nottetempo (2013). La citazione di Maurice Sendak riportata da Dave Eggers nel suo articolo è tratta da un’intervista rilasciata nel 1977 a Walter Lorraine, ora raccolta nel volume Conversations with Maurice Sendak, a cura di Peter C. Kunze (2016). L’altra citazione di Sendak, per cui Ungerer sarebbe stato il più originale autore di libri illustrati della sua epoca, è tratta dal documentario di Brad Bernstein Far Out Isn’t Far Enough: The Tomi Ungerer Story (2012). Le ultime edizioni italiane dei libri di Tomi Ungerer menzionati oltre a Non stop sono: I tre briganti (Nord-Sud), L’uomo della Luna (Nord-Sud), Otto. Autobiografia di un orsacchiotto (Mondadori), Il gigante di Zeralda (Mondadori, attualmente fuori catalogo).