La nona edizione del Triennale Design Museum / “W. Women in Italian Design”: il monologo interrotto

4 Aprile 2016

“W. Women in Italian Design” è il titolo della nona edizione del Triennale Design Museum, curata da Silvana Annicchiarico (e allestita da Margherita Palli) in apertura ai primi di aprile. La nuova edizione affronta la grande rimozione operata, anche dalla Storia del Design, nei confronti del contributo delle donne al progetto, mettendo al centro la questione del genere. 

 

Quando ho ricevuto la lettera di Silvana Annicchiarico (direttrice del Design Museum della Triennale) che mi invitava a partecipare a questo grande mosaico in costruzione intorno a una storia del design italiano declinata al femminile e mi sottoponeva un questionario preliminare – (una serie di domande a cui sono state invitate a rispondere giornaliste, curatrici, critiche, insomma molte di coloro che si occupano di temi legati al design) – ero dannatamente lusingata.

 

Avevo sottovalutato però la portata di questa storia. Mi accorgevo di tendere a pensare che si sarebbe restituita una visione molto parziale, forse anche riduttiva; poi nel concentrarmi sulle risposte mi sono accorta di aver trascurato la complessità di un tema su cui era chiaro che i era operata una rimozione. Man mano hanno cominciato a emergere nella memoria le lezioni di Ida Farè al Politecnico, quando mi preparavo all’esame ai tempi del gruppo VANDA (a loro va riconosciuto il merito di non aver mai abbassato la guardia). Qui di seguito riporto il risultato di questa mia personale immersione (senz’altro approssimativa) in una storia che sono curiosa di veder raccontata in Triennale. Ringrazio l’editore Corraini e la Triennale che hanno concesso la pubblicazione di questi stralci.

 

 

“Curare”, “Prendersi cura” sono da sempre attività specificamente femminili, eppure fino ad ora i curatori sono stati soprattutto uomini. Perché?


È un dato di fatto che il design è stato un ambito quasi esclusivamente maschile, con poche eccezioni. Credo che sia dovuto al fatto che il design è nato all’interno di un contesto sociale emerso dalla rivoluzione industriale e dalla sua implicita divisione dei ruoli. Questa rigidità, per quanto sia andata frantumandosi col tempo, ha continuato a costituire una griglia di riferimenti molto rigida. Il design italiano in questo senso però ha sempre espresso un’anima dialettica (‘contestatataria’, dirompente,‘contro’) rispetto alle forze che agiscono per irreggimentare i ruoli e la struttura sociale. In quest’azione liberatoria, i movimenti femministi hanno avuto un ruolo decisivo in quanto – portati ad agire sui comportamenti e le idee – hanno promosso l’idea di un progetto critico, piuttosto che meramente finalizzato alla produzione di oggetti.


Quando negli anni Settanta le donne hanno cominciato a parlare di un pensiero separato da quello maschile – il pensiero di un ruolo dominante – ponendo la questione in termini di diversità e differenza, hanno interrotto un monologo, mettendo in discussione un pensiero unico. Le donne hanno avuto il merito di portare la parte emozionale, di affettività, anche di disagio, di fragilità all’interno di un discorso che viaggiava secondo regole basate su un’idea di razionalità costruita per obiettivi, tattiche, strategie. In un certo senso i gruppi femministi hanno anticipato l’insofferenza verso il funzionalismo razionalista, costruito su un’idea di ragione troppo rigida, confluita poi nella reazione Postmoderna. È lo stesso tipo di insofferenza che il Postmoderno ha accolto, facendo propri molti dei caratteri “femminili” (forse anche retoricamente “femminili”) di pensare il progetto immaginando un’architettura non monumentale, non violenta, non univocamente funzionale.
Malgrado tutto però, non credo che il pensiero femminile abbia mai abbassato la guardia rispetto al tema della cura (verso cui ha accumulato un’esperienza millenaria), piuttosto le donne sono portate ad agire in gruppo, a fare rete, a fondersi nei progetti, a impigliarsi nelle analisi, agendo dietro le quinte, in territori intermedi, meno visibili, difficili da fotografare e mettere in primo piano perché tendono a venire sempre un po’ mosse. 


 

 

Un fatto decisivo, poi, si è determinato quando le donne, liberatesi dalla schiavitù della casa, hanno trasferito sulla città – luogo simbolo dell’emancipazione femminile attraverso tutto l’arco del XIX e del XX secolo – quell’attitudine alla cura che gli è propria e da autodidatte dell’anti-città hanno dato vita a un immaginario urbano traversale. Questo scenario intrecciato, inclusivo, sostenibile in senso sociale e allo stesso tempo ambientale ha preso forma nel lavoro di gruppo, nei collettivi, nelle compagnie, nei laboratori... Mi piace citare lo slogan delle movimento femminista ‘operaie della casa’ dei primi anni Settanta, perché racchiude in una sintesi fulminante questa polarità casa-città: “La casa è il luogo dell’isolamento, la piazza quello del nostro movimento. In casa la lotta è individuale, in piazza la lotta è universale. La casa è il luogo della divisione, la piazza quello della liberazione”. Una simile attenzione verso lo spazio pubblico, il bene comune, i luoghi d’incontro, di cura, di accoglienza modellati sul principio femminile di “saper fare casa ovunque” caratterizza ancor oggi tante azioni politiche e progettuali femminili che confluiscono in un flusso di idee e progetti piuttosto che nelle sembianze definitive di prodotti pronti per essere immessi sul mercato. Più difficili quindi da isolare, ma straordinariamente ricchi e interessanti da raccontare per rendere conto di questa rete minuta di lavoro e ricerca e della sua deflagrante energia sottotraccia.

 

 

 

C’è un modo femminile di “curare”?


FP: MI piace pensare al design come a un territorio confuso, ermafrodito, “scambista”, nel senso che ha sempre permesso a tutti di scambiarsi ruoli e genere. In questo senso penso al design come a un luogo mobile dove un certo pensiero “femminile” emerge nel progetto di molti designer maschi, senza necessariamente dover essere riconducibile a una divisione donne/uomini. 
Siamo in un’epoca in cui tutti parlano di “fluid gender identity” e penso che questa fluidità abbia sempre influenzato i designer. Non sono portata a credere che i designer mettano davanti al progettare la propria identità di genere in maniera conscia. Tendo piuttosto a pensare che l’identità di genere sia un fatto che tocca questioni così profonde da non essere razionalizzabili.
In senso più generale sarebbe interessante estendere anche al design il tipo di analisi che Camille Paglia ha rivolto all’arte e alla letteratura. Di Paglia, per esempio, mi colpisce il suo pensiero rivolto alle forze oscure, al legame “ctonio” (chiamato così perché legato al mondo sotterraneo) del femminile. Mi colpisce la sua affermazione: “Non possiamo sperare di comprendere il sesso e la differenza sessuale finché non avremo chiarito il nostro atteggiamento verso la natura. Il sesso è una categoria della natura, è il naturale nell’uomo”. Sono argomenti che meritano un approfondimento. 
Malgrado tutto, mi piace pensare che il design sia un territorio che ha costretto (e invitato) gli uomini a pensare dentro un universo che, tradizionalmente, non era di loro competenza. Un ambito tradizionalmente delegato (relegato) alle donne: la casa. E che molti uomini abbiano adottato un tipo di abito mentale e uno spirito ‘rivoluzionario’ a partire dal basso, rivolto alla scala minuta delle cose, una sorta di energia pervasiva misurata sul piccolo, sulla singola persona, e scandita sul tempo quotidiano, che è possibile ricondurre al modo femminile di contribuire a cambiare il mondo.

 

 

C’è chi sostiene che la questione del gender è inessenziale nella cultura del progetto e che è infondato porsi il tema della specifica creatività femminile. Tu cosa ne pensi?


FP: È una questione delicata su cui penso sia importante porsi delle domande. Tendo a considerare la cultura come fatto universale senza divisioni di genere o grado. Sono certa però che il progetto, quando è conciliante, rassicurante, non sia mai veramente potente e che l’attività del progettare si debba muovere nella contraddizione e nella messa in discussione dell’esistente. Certamente molte donne, quindi, già estromesse in partenza dal sistema dominante del pensiero, hanno potuto muoversi dentro questa cultura alternativa e, nel sentire con prepotenza il bisogno di cambiare l’esistente, hanno approcciato quest’azione dialettica in maniera non frontale con azioni dure, di guerra, assolute e definitive, quanto piuttosto in maniera morbida, pervasiva, capillare, frammentaria, minuta, delicata, quotidiana; una sorta di politica di piccoli passi (meglio, di piccoli gesti) che certamente è degna di studio e che meriterebbe un tipo di trattazione altrettanto frammentaria, capillare, minuta, attenta e sensibile. Come un tessuto fatto di tante singole trame su cui si intrecciano però pensieri poderosi, forti, dirompenti, frontali come quello di Lina Bo Bardi che, infatti, non mancava di definirsi “anti-femminista”, disdegnando con forza ogni categoria preconfezionata di pensiero. Insomma riguardo alla cultura di progetto, l’attitudine femminile penserei di descriverla attraverso l’intreccio fittissimo di relazioni, di gesti misurati, di azioni minime, di pensieri inclusivi, ma anche di afasie, di fragilità, di attitudini a fondersi nel gruppo e scomparire dalla scena per liberare un’energia incontenibile, dirompente, profonda e misteriosa che può far paura, e che per questo non può che incontrare chiusure e resistenze, mettendo in luce quelle contraddizioni che sono la materia del progetto.

 

 

Se dovessi curare una mostra volta a valorizzare un momento, un aspetto o una figura femminile nella storia del design italiano, cosa/chi sceglieresti e perché?


Non ho dubbi nello scegliere, d’istinto, un nome: Lina Bo Bardi. Per prima cosa, per la potenza delle sue opere. Cito solo il SESC Pompeia di San Paolo, con le sua finestre-buco, le sue passerelle volanti, perché ha segnato l’immaginario dell’architettura contemporanea con una forza che raramente altre opere sono riuscite a esprimere. Ma anche per la capacità di comprendere in un’unica visione sociale, universale, umanistica, collettiva l’architettura, il design, il progetto, la tradizione popolare, il teatro, la partecipazione, l’impegno civile, l’artigianato... tutti ambiti che sottendono un’idea di architettura quale scienza sociale. 
Mi piace anche come personaggio letterario, da raccontare. Per esempio, il suo essere coraggiosa. La scena di lei, giovanissima donna, che di fronte a due dei più noti esponenti dell’architettura di regime, Giovannoni e Piacentini, discute la tesi di laurea riguardante un progetto di Maternità per madri nubili, suscitando scandalo, credo riassuma il suo carattere ‘contro’, capace però di parlare un linguaggio condiviso.

 


Mi verrebbe da considerarla uno dei più straordinari architetti italiani, di quel tipo che non è mai stato sufficientemente riconosciuto per una serie di motivi su cui hanno certamente pesato la scelta di trasferirsi altrove e l’oscurantismo dell’epoca in cui è cresciuta e ha operato: tra questi credo che ci sia, ai primi posti, il suo essere donna.
Mi accorgo di avere un certo pudore nel definirla architetto italiano, perché è un dato di fatto che sia stata piuttosto uno dei più grandi architetti brasiliani ed è proprio questa coincidenza a rendere il suo lavoro ancora più interessante: il suo essere architetto tout court, universale e particolare allo stesso tempo, capace di valicare i confini di genere, di nazionalità e di disciplina, ma allo stesso tempo di radicarsi in tradizioni che tendeva a mescolare le une nelle altre, collocando Mediterraneo e Brasile ai capi di quest’opera di contaminazione.


 

 

Se penso a Lina Bo Bardi, dunque, penso a un architetto brasiliano, ma riconosco il suo essere italiana forse proprio in quella commistione di radicalità e umanesimo che tende all’universalità, portato a riconosce l’essere umano come parte di una cultura universale che unisce piuttosto che dividersi in sottosistemi di sottoculture. Su tutto mi piace pensare che la necessità del paradosso sia proprio un tratto della sua cultura italiana.
 Cresciuta all’interno della scuola del Razionalismo italiano, già teso alla conciliazione degli opposti, in bilico tra moderno e mediterraneo, tra Modernità e Classicità, la Lina (come la chiamavano tutti) era un’innovatrice insofferente delle imposizioni, dei rigori, della chiusura intellettuale e ideale del Razionalismo; in un certo senso è stata Post-Moderna prima di tutti gli altri: ha innestato la sua visione cresciuta all’interno di una cultura classica (per quanto modificata dal Moderno) aprendola al contatto con le mille importanti altre culture che esistono al mondo e soprattutto accogliendo con cura idee e immagini provenienti dal Brasile, terra di grandi mescolamenti, contraddizioni, esuberanti grandezze e straordinarie possibilità.

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