Una mostra a Venaria / Steve McCurry
Le fotografie di Steve McCurry meritano di essere osservate più e più volte. Può
sembrare banale, ma invogliano al viaggio, alla scoperta di culture lontane, visi, espressioni, abitudini per noi incomprensibili. C’è un prezioso pezzo di mondo all’interno delle sue mostre e raccolte fotografiche. Un regalo, una concessione (a tratti quasi istruttiva), che permette di scaraventare a migliaia di chilometri anche chi non si potrà mai permettere (o a cui mancherà la voglia) di spingersi oltre la propria realtà.
La mostra organizzata alla Reggia di Venaria (attiva dal 1 aprile al 25 settembre 2016) merita decisamente una visita. Ben congegnata, appaga il visitatore con una vastissima quantità di foto (oltre le duecentocinquanta per la precisione) organizzate senza un ordine rigido, cosa apprezzabile perché permette di scegliere un percorso proprio, libero e non influenzato da una gerarchia o da una ‘forzatura concettuale’.
Vanta inoltre due esposizioni inedite, la prima relativa all’esperienza giovanile in Afghanistan presso i guerriglieri-profughi del Nuristan (rigorosamente in bianco e nero) e la seconda legata al progetto di sostenibilità Lavazza ¡Tierra! di cui McCurry è diventato testimone ufficiale e che dal 2002 vede l’azienda impegnata in attività di sostegno delle comunità di caficultores. Una galleria di volti, di ritratti straordinari; è facile emozionarsi camminando nella maestosa Citroniera delle Scuderie Juvarriane, là dove, per riprendere l’importante saggio di Horst Bredekamp Immagini che ci guardano (Raffaello Cortina Editore, 2015), le immagini ci guardano acquisendo una propria autonomia, venendoci incontro sotto il segno di una corporeità quasi aliena, scuotendoci intimamente e dando vita persino a un sottile timore.
Nella lunga intervista che McCurry ha concesso a Gianni Riotta (Il mondo di Steve McCurry. Steve McCurry si racconta a Gianni Riotta, Mondadori Electa, 2016), l’immagine che affiora dai suoi racconti non è particolarmente attraente. Dalle conversazioni riportate nel libro emerge una figura stereotipata di fotografo-missionario dal grande cuore pronto a rischiare la vita per raccontare al mondo occidentale il dramma della povertà. Il libro contiene certamente aneddoti interessanti e avventurosi (come quando il fotografo si traveste da mujaheddin con una sdrucita shalwar kamiz e segue i guerriglieri nel deserto), che illustrano come McCurry sia dotato di una particolare sensibilità per i problemi del mondo, tuttavia il libro resta intriso di un buonismo eccessivo. Il fotografo ungherese Robert Capa testimoniò cinque conflitti bellici: la guerra civile spagnola, la seconda guerra cino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana e la prima guerra d’Indocina dove morì su una mina nel tentativo di fotografare una colonna in avanzamento nella radura.
Robert Capa fu esattamente ciò che si definisce un reporter; immobile per ore a fianco dei soldati in trincea, catturava momenti, attimi irripetibili da cui derivavano immagini imperfette e strazianti. Una tra le più celebri foto di Capa, ‘il miliziano colpito a morte’, venne scattata da una trincea dove il reporter si trovava con venti guerriglieri repubblicani spagnoli. Come raccontò in seguito Capa, a un certo punto, mise la macchina fotografica sulla testa e senza guardare decise di cominciare a scattare a un soldato che si spostava sopra la trincea. La foto del miliziano colpito a morte fu ritenuta una delle sue fotografie migliori, foto che l’uomo non aveva nemmeno inquadrato. L’obiettivo di Capa era quello di raccontare, testimoniare gli orrori della guerra, spingersi ‘il più vicino possibile’. La stessa rivista statunitense Life definì alcuni suoi scatti “slightly out of focus” (leggermente fuori fuoco): quello che da sempre era ritenuto un errore tecnico finì per acquistare un immenso valore semantico. Il simbolo di una documentazione partecipata. Personalmente trovo che le foto di McCurry siano molto diverse da quelle di Capa, soprattutto per il modo in cui queste vengono realizzate.
Immagini curate in ogni dettaglio, in cui ciò che spicca è l’eccellenza e l’ossessiva precisione tecnica dell’autore. È innegabile che McCurry si sia spinto in zone pericolose, abbia testimoniato con preziosissimi scatti le atrocità di molti conflitti contemporanei (sono impressionanti le foto in Kuwait in cui il fotografo, oltre che raccontare il dramma della guerra del Golfo, ha mostrato anche il disastro ambientale dovuto alle esplosioni delle piattaforme petrolifere), ma credo che egli sia comunque da considerare più un ritrattista che un reporter o che se non altro siano quelle vesti a fare emergere la sua unicità.
Passeggiando per la Reggia di Venaria si osservano immagini di una perfezione disarmante, giochi di forme e colori, simmetrie impeccabili che regalano alla vista un senso di piacere profondo. Steve McCurry oltre che per la sua superba bravura tecnica si contraddistingue per la sua sensibilità estetica; i soggetti fotografati sono di una bellezza (e spesso di un erotismo) mozzafiato, a cominciare dalla celebre Monna Lisa di Peshawar per finire con ritratti di persone che nonostante le origini umili raccontano con gli occhi e le espressioni realtà così lontane e affascinanti da scuotere emotivamente chiunque gli si trovi innanzi. L’abilità di McCurry, quella che fa di lui un indiscutibile artista, si traduce nella sua capacità di catturare quel lato sconcertante della bellezza umana.
Bellezza ed espressività tali da conferire vitalità all’opera, capaci (per riprendere il saggio di Bredekamp) di renderla autonoma, facendo sì che qualcosa, una sorta di forza misteriosa, scaturisca sia dalla potenza dell’immagine, sia dalla reazione interattiva di chi la guarda. Questa credo sia la peculiarità di Steve McCurry ed è per motivo che la sua biografia-intervista, che cerca di indirizzare il lettore verso un modello un po’ troppo inflessibile di fotografo, aggiunge poco o nulla alla straordinaria ‘ricercata’ bellezza delle sue fotografie.