Hannover e ritorno

3 Gennaio 2012

Una breve vacanza ad Hannover, nel Nord della Germania, e d’improvviso una domanda cretina: come abbiamo fatto a vincere tante volte contro i tedeschi, molti anni fa in Messico e in Spagna, e più di recente a casa loro, nella semifinale del mondiale di calcio?

Qui le strade sono pulite, i tram elettrici funzionano a dovere, le scuole costruite negli anni settanta vengono smantellate e sostituite con nuovi edifici più ecologici e funzionali, nei supermercati si raccolgono come vuoti a rendere le bottiglie di plastica, e gli autisti si fermano davanti a un pedone che intende attraversare sulle strisce pedonali. Sull’autostrada tra Hannover e Wernigerode ci sono poi centinaia di alti mulini a vento per la produzione di energia pulita, di seconda generazione, mi dicono, che verranno tra non molto rimpiazzati da impianti di terza generazione, e centrali per la produzione di bioenergie, mentre le macchine sfrecciano alla velocità che vogliono, ma tutte con moderazione e senza frenesia.

 

A Wernigerode il mio amico Jens mi procura subito due brochure sulla cittadina ex DDR, una in tedesco e l’altra in inglese, che comincio a leggere con curiosità anche linguistica mentre prendiamo un cappuccino come aperitivo alle 11.50 comodamente seduti ad un caffè (strana abitudine di questi miei ospiti, non so se di tutti i tedeschi). Provo prima con la brochure in tedesco, lingua nella quale sono poco più che un eterno principiante, e capisco che la cittadina era stata visitata da Goethe nel 1777, quando nessuno la considerava una meta turistica. Lo stesso nel 1860 quando ci passò lo scrittore Wilhelm Raabe. Poi leggo una frase che non capisco bene, ma intuisco: Erst Ende des 19. Jahrhunderts…. Mi pianto stupidamente su quell’Erst (solo) che intendo come Erste (primo). Mi aiuto con la brochure in inglese: Only at the beginning of the 19th century… il luogo divenne una meta di vacanza. Qualcosa non torna. Hanno tradotto Ende (fine) con Beginning (inizio). Non può essere così. Felice di aver trovato finalmente qualcosa che non funziona, sottopongo la traduzione a Jens. Lui guarda e conviene con me che qualcosa non va. Continuo a parlare soddisfatto con Barbara mentre bevo, obtorto collo, il mio cappuccino-aperitivo. Vedo che Jens scrive qualcosa sul suo iPhone. Lo rimprovero: “Non lavorerai anche oggi!”. “No. Scrivo all’ufficio del turismo di Wernigerode. Gli chiedo quale delle due versioni è quella corretta”, mi risponde.

 

 

Altro goal dei tedeschi. In questi giorni ne hanno segnato un dietro l’altro. A me non sarebbe mai venuto in mente di scrivere una mail all’ufficio comunale, che so, di San Gimignano, per segnalare un errore nella traduzione in inglese del depliant della città. Forse avrei brontolato fra me e me, avrei bofonchiato che nessuno sa più fare il proprio mestiere, che il paese è tutto storto. Se per caso mi fosse venuto di segnalare l’errore credo che subito avrei pensato che era inutile, che nessuno avrebbe mai letto la mia mail, e che comunque nessuno avrebbe mai fatto nulla. “Non rimproverarli, - dico a Jens - sarà stato un errore, una svista. Capita. Sai, i traduttori spesso sono sottopagati e devono lavorare in fretta”. Cerco in un qualche modo di difendere una categoria che mi è cara. Poi usciamo e visitiamo la bella cittadina che prima del 1989, mi dicono, era stata quasi abbandonata: anziché restaurare le antiche case con la struttura in legno del centro storico, era stato più conveniente per il governo di allora costruire appartamenti tutti uguali, in scatoloni di cemento tutti uguali, alla periferia grigia di Wernigerode; scatoloni ora abbattuti mentre il centro rivive di turismo, studenti e commerci.

Tre ore dopo, finalmente al ristorante, Jens controlla la posta elettronica e dice soddisfatto: “Mi hanno risposto dall’ufficio del turismo alle 12.23, 25 minuti dopo la mia domanda. Si scusano dell’errore nella traduzione inglese, confermano che Wernigerode diventa località turistica alla fine del XIX secolo, e mi dicono che provvederanno a correggere nella prossima ristampa. Ah, ringraziano anche per la segnalazione”. È stato a quel punto che mi sono chiesto come abbiamo fatto noi italiani a vincere quelle partite.

 

Lascio Hannover dopo qualche giorno. All’aeroporto il tabellone annuncia i voli in partenza. Tutti “on time”, mi pare di capire guardando da lontano. Mi avvicino, leggo meglio: tutti tranne uno Mailand, con 20 minuti di ritardo. Come mai? La compagnia è tedesca, anche se Low cost. Spero, per un attimo. Arcano svelato dall’altoparlante: “Il volo 4AU 3820 per Milano è in ritardo perché l’aeromobile è partito in ritardo da Roma per problemi nel caricamento dei bagagli da parte del personale di terra”. Capirai.

 

Poi l’aereo arriva e riparte, e io giungo a Malpensa. Faccio il biglietto del treno per Milano Centrale. Il bigliettaio, trentenne, faccia sveglia, capello lungo, orecchino, non da hippy ma da pirata dell’isola dei famosi, prende i 50 euro che gli do, controlla la banconota con cura per vedere che non sia falsa, mi dà il biglietto con il resto come se invece di 50 Euro gliene avessi dati 20. Lo guardo. Gli faccio notare l’errore. Mi sorride con l’aria non di chi si scusa, ma di chi ammette: “Ci ho provato. Mi è andata male. Sa com’è!”. E mi restituisce il resto giusto. Vorrei avere un Iphone e un indirizzo a cui scrivere. Ma mi viene solo in mente un’ipotesi che potrebbe rispondere cinicamente alla domanda: “come abbiamo fatto a vincere quelle partite?”.

 

So che quella è stata un’altra storia. Per fortuna. E mentre viaggio in treno tra Malpensa e Milano Centrale rivedo, come su uno schermo, l’ultimo gol di Rivera in Messico, di Tardelli a Madrid e di Del Piero a Berlino, o forse era Hannover, o dove?

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