Corinne Day, mai triste
La fotografia di moda è un racconto della società, e chi riesce ad interrompere questo racconto per ricominciare da zero, lascia un segno. Corinne Day è stata la fotografa che ha fatto uscire la moda dagli anni '80 per entrare nel decennio del grunge, dell'heroin chic, della nuova estetica, di Bill Clinton che parla di glamorification dell'anoressia, dei set poveri e veri che sostituiscono le luci dello studio.
Per tutti, Corinne Day è la fotografa che ha scoperto Kate Moss, portandola a 17 anni in copertina di “The Face” con un copricapo indiano e l'aspetto che nulla aveva a che fare con le modelle del decennio che si era appena chiuso.
Cresciuta a Londra, in un flat di Soho che è stato il suo studio ed è lo sfondo di gran parte dei suoi servizi, Corinne Day si è sempre considerata una fotografa documentarista con un'attenzione particolare alla società che trova un'espressione nella moda e nello stile. Anche per questo il rapporto con Kate Moss si è interrotto pochi anni dopo i primi servizi per “The Face” e per “Vogue Uk”, tra il 1990 e il 1993: le due avevano obiettivi diversi, una documentava, l'altra conquistava copertine sempre più universali e brand sempre più patinati. Le due, anche amiche, lavoreranno di nuovo insieme nel 2006, con tutt'altra impostazione, per un servizio istituzionale commissionato dalla Photographs Collection e poi acquistato National Portrait Gallery di Londra, dove oggi è in esposizione permanente.
Il mondo dell'editoria che parla alle nicchie (nicchie-mainstream, naturalmente) ha sempre apprezzato il lavoro di Corinne Day: “The Face”, “Vogue Japan”, “i-D”, “Penthouse”, sono state i principali magazine con cui ha collaborato per più di vent'anni. Nell'agosto del 2009, quando le viene diagnosticato a 45 anni un tumore al cervello, il portale models.com organizza una raccolta fondi per aiutarla nelle cure, con un titolo da copertina: Save the Day. Corinne Day muore il 27 agosto del 2010.
Lontana dagli ambienti della fotografia commerciale, in vita ha raccolto il suo lavoro in un solo libro, oggi piuttosto raro e dal titolo essenziale come le sua fotografie: Diary. Dietro le sue fotografie c'è un'idea: il tuo lavoro non è poco interessante, sterile underground, se fotografi le modelle tra le pareti sbucciate di un piccolo flat e se indossano Tshirt da 5 sterline: questa è la vita fuori dallo studi, funziona così. Peter Lindbergh, Herb Ritts, Helmut Newton hanno riempito i magazine dalla fine degli anni '70 a tutti gli '80, ma nel 1989 il mondo è semplicemente cambiato e le strutture sono cadute.
Belinda White, dell'“Independent”, ha scritto "Corinne ha aperto le porte a tutta quella generazione di fotografi, designer, modelle e stilisti che si sono improvvisamente accorti che l'industria della moda non era solo un club exclusivo per persone perfette e privilegiate".
Un esempio? Mario Sorrenti, che nel 1993 dagli Stati Uniti raccoglie il testimone di Corinne Day nel lancio planetario di Kate Moss, nei mesi scorsi è uscito con un grande libro sui suoi anni '90, Dray Blood for Proof, e anziché attingere all'archivio dei servizi commerciali, ha raccolto centinaia di appunti, Polaroid, piccole stampe, provini, che per anni avevano riempito le pareti del suo loft newyorkese: la realtà è backstage.
Sofia Coppola collabora con Corinne Day sul set del Giardino delle Vergini Suicide, il suo primo film, e tutto è in linea con lo stile della fotografa (mentre per il rock patinato di Maria-Antoniette, fa intervenire Annie Leibovitz). "Entrambe eravamo attratte da una chiara estetica, e l'abbiamo rappresentata tramite il cinema e la fotografia: bellezza grezza, tristezza, humor e innocenza", ha raccontato Sofia Coppola.
Meno nota ma sempre coerente è la collaborazione i Placebo. Corinne Day realizza i booklet di Without you I'm nothing e dei singoli "Pure morning" e "Every you and every me", ovvero lo spleen londinese di fine anni '90.
Oggi, le foto di Corinne Day scattate tra il 1987 e il 1996 sono raccolte in una mostra curata dal marito Mark Szaszy alla Gimpel Fils Gallery di Londra, "May the circle remain unbroken". Vita vissuta, ma mai triste. "In questa mostra" racconta Mark Szaszy "c'è tutto quell'humor che amavo condividere con Corinne, lei sapeva bene come non prendere le cose troppo sul serio, specialmente nel mondo della moda".