Franco Basaglia tra pietre e tappeti
La pietra di scarto è diventata pietra d'angolo. L'immagine evangelica ritorna più volte nel libro di Paolo Gomarasca e Francesco Stoppa, Salviamo la cosa pubblica (Vita e pensiero, Milano 2024). È uno dei tanti punti d’intersezione delle traiettorie dei due autori e dei capitoli in cui si alternano le loro voci.
Ci sono momenti più teorici, quelli firmati da Gomarasca, di cui potremmo indicare la posta in gioco nel tentativo di una definizione di quella cosa che sta al centro delle istituzioni, e che forse va intesa letteralmente. Come se al centro di quella che infatti chiamiamo la cosa pubblica ci fosse effettivamente un oggetto, un elemento concreto, una specie di gemma capace di fare da collante tra i tanti ingredienti di un’istituzione: persone, spazi che le accolgono, strumenti che ne accompagnano il lavoro, regole formali e informali, slanci ideali, rivalità. E momenti più vicini alla pratica, quelli firmati da Stoppa, orientati a quella che potremmo chiamare una clinica delle istituzioni. Qui prevale un approccio alla formazione, alla supervisione delle pratiche quotidiane, all'accompagnamento dei loro punti d’inciampo, delle loro crisi.
In che senso la cosa pubblica sarebbe appunto una cosa pubblica, cioè un insieme eterogeneo orientato da un oggetto che organizza intorno a sé un campo?
L'immagine della pietra di scarto suggerisce una risposta, anzitutto in tessuto di risposte e di domande ulteriori. Intanto la pietra di scarto suppone un progetto precedente, un’istituzione già costruita o in via di costruzione. C’è un progetto, e c’è una pietra che viene scartata rispetto a quel progetto, o a quell’edificio già esistente. È quanto dire che ogni istituzione nasce per declinazione, gemmazione, deflagrazione. Nasce da una certa piegatura o da una certa crisi dell’esistente. Qualcosa si distacca dall’esistente, ne precipita via in un momento di difficoltà o ne prende il volo in un momento di rinnovamento. Crisi significa come tutti sanno separazione, dunque allo stesso tempo caduta e rilancio, difficoltà e progetto. Difficile, forse impossibile distinguere, in una separazione, il congedo dalla prosecuzione, l'invenzione dalla dimenticanza.
Poi la cosa più evidente del motto evangelico. La pietra di scarto si fa pietra angolare. Qualcosa di marginale, addirittura di trascurato o disprezzato, diventa evidente, diventa parola chiave, ideale capace di mettere al lavoro una comunità, compito che può essere condiviso e rilanciato. I pochi o tanti che si fanno testimoni di quell'improvviso innalzamento dalla marginalità alla centralità ne vengono innalzati a loro volta. C’è almeno un istante in cui tutti vedono quello stesso movimento, tutti divengono gli uni per gli altri qualcosa che si lega a quella cosa fattasi centrale. Tutti hanno in sé un frammento di quella cosa. Tutti hanno in quella cosa un frammento di sé. La pietra di scarto è anzitutto questo movimento di scarto, questa sollevazione. La cosa è anzitutto l’improvviso disegnarsi della cosa.
Ma appunto la pietra di scarto diviene pietra angolare. Insomma il motto va letto anche a rovescio. La pietra di scarto diviene pietra angolare, e questo è un successo e un fallimento. Lo scarto, che è anzitutto un movimento, diviene cosa solida, cosa sicura, cosa assicurata, cosa immobile. In fondo, è quando la pietra diventa angolare che diviene pietra di scarto, residuo di un atto ormai passato.
Il miracolo della sollevazione è alle spalle. Si tratta a quel punto di far vivere quel miracolo che si è già vissuto. E per farlo vivere bisogna suddividerlo in parcelle, attribuire l’esecuzione di quella parcella a me o a te o a lui, coordinare quella partizione e quel me, quel te, quel lui. Si tratta di programmare il miracolo, di scrivere la regola di quella partizione e di quel coordinamento. Quel programma, quella scrittura diventano la nuova cosa che gioco forza andrà ad occupare il posto della cosa. E così coloro che erano stati istituiti dal movimento dell’istituzione, coloro che erano stati innalzati nella posizione di chi si prendeva cura della cosa perché erano fatti della stessa materia della cosa, ecco che diventano i grigi amministratori di quest’altra cosa, gli abusivi archivisti di questa cosa anche lei abusiva.
Questo sostituirsi della cosa con tutt’altra cosa è il mistero tremendo di ogni istituzione. Ogni istituzione è sospesa su questa malinconia strutturale. Dapprima vive. Poi vive del fatto di morire o di star morendo nelle sue scritture, trascrizioni, ripartizioni, regolamentazioni. È quanto dire che muore proprio del fatto di vivere. La tempistica della cosa è del resto più complicata e più spietata di così. Non c’è un prima, e un poi, e un poi. C’è un unico tempo multiplo. Subito queste tre cose in una. O se si preferisce, sempre quest’unica cosa in tre figure, coincidenti eppure sfalsate, giustissime eppure disaggiustate. Una santissima trinità. Il padre, il figlio, lo spirito santo. O se si preferisce, la madre, il figlio, lo spirito santo. E ancora, la madre, il figlio, lo spirito santo. Ma appunto, se metti la madre in quella posizione, quella madre diventa comunque un padre. Tutta la teologia cristiana è un tentativo di scrivere l’evento, di articolare nelle forme di un sapere l’esperienza di una nascita, di dire analiticamente il movimento per così dire sintetico dell’istituzione. E così l'istituire, la cosa istituita e i soggetti istituti, non fanno altro che girare, finché ce la fanno, lungo il cerchio di questo girotondo inevitabile. La pietra, di scarto o angolare, è appunto una pietra. Ha una sua durezza, è refrattaria alle umane volontà e intenzioni. Prima o poi le piega al suo ritmo inorganico.
Di qui l'altra parola chiave, urgente, drammatica, legata alle pagine più cliniche, più quotidiane, più operative di questo libro. Quella parola chiave è rianimare.
Come rianimare le istituzioni? Come ridare vita alle istituzioni nonostante quella morte che sempre cammina dentro alle istituzioni e che in larga misura è l’istituzione al cuore di ogni istituzione?
Le pagine di Francesco Stoppa ritornano periodicamente sulla questione degli inciampi istituzionali. Tutte quelle volte che qualcosa non funziona. Che qualcuno litiga con qualcun altro. Che la via più diritta sembra smarrita. Che tocca fare un giro lungo, imprevisto, antieconomico, irritante. L’inciampo è sempre l’inciampo dell’istituzione istituita, è sempre l’inciampo che appare tale dal punto di vista dell’istituzione ben installata sulle sue fondamenta, ben codificata nei suoi funzionamenti. Dal punto di vista dell’istituzione che verrà istituita, dal punto di vista del futuro anteriore dell’istituzione che verrà, l’inciampo è talvolta la possibilità di spiccare il volo.
Certo, l’istituzione che spicca il volo è appunto un’altra istituzione, un’istituzione che sta per nascere dalle ceneri della vecchia. L’istituzione è sempre incipiente, imminente. L’istituzione è sempre l’altra istituzione, la prossima istituzione. Sopportare questa discontinuità è l'unico modo per approntare una qualche continuità. Sopportare che la gemma si sbricioli è cosa dolorosa sia per chi ha in mano la gemma, sia per chi si fida del fatto che qualcun altro l’abbia in mano, sappia dov’è, sappia cos’è. Del resto, che l’istituzione sia sempre l’altra istituzione, l’istituzione a venire, è possibile appunto grazie alla morte dell’istituzione precedente, grazie all’istituzione che con la sua morte fa da supporto alla sua possibilità di spiccare il volo.
C’è un secondo libro di cui è utile parlare a questo punto. Un po' perché è uscito in contemporanea con quello di Gomarasca e Stoppa, e frequenta strade simili. E un po' perché è maturato nello stesso ambiente, quello dei servizi di salute mentale friulani-giuliani, delle eredità attuali della psichiatria triestina, della rivista di filosofia “aut aut” e della Scuola di Filosofia legata a quella rivista.
Mario Colucci e Pierangelo di Vittorio hanno pubblicato da qualche mese un breve e denso volume intitolato Franco Basaglia. Un intellettuale nelle pratiche (Feltrinelli, Milano 2024). Fa parte della collana Eredi, edita da Feltrinelli e fondata da Massimo Recalcati, la cui regola consiste grosso modo nel raccontare non tanto un maestro, la sua opera, le sue gesta, quanto quella quota del suo lavoro di cui chi scrive pensa di poter fare qualcosa in proprio.
E così in questo libro su Basaglia sono in primo piano le voci di Colucci e Di Vittorio. Troviamo anzitutto il racconto della loro formazione, e poi gli approdi attuali delle loro esperienze, nella salute mentale per Colucci, nella formazione per Di Vittorio. Troviamo tutta la fatica e l’incertezza di questo cammino che li ha portati a scoprire e poi a far proprio l’insieme di proposte teoriche e pratiche che vanno sotto il nome dello psichiatra veneziano a cui dobbiamo la legge 180, che come si sa contiene la più radicale, a quarant’anni di distanza, riforma europea e non solo europea delle istituzioni psichiatriche.
L’uno, Mario Colucci, nei primi anni Novanta veniva dalla facoltà di medicina e da una specializzazione in corso in psichiatria. Arrivato a Trieste incontra l’onda lunga della riforma basagliana e il cantiere in pieno fermento di “aut aut”. L’altro, Di Vittorio, veniva dalla filosofia, e arrivato a Trieste incontra la psichiatria, i servizi di salute mentale e dentro ai servizi di salute mentale quella cosa che Basaglia teneva a chiamare follia. Non psicosi, non schizofrenia, ma follia, proprio per tenere aperta la questione della nominazione, che è poi la questione della definizione, della consistenza che vogliamo o possiamo dare a qualcosa. Forma dat esse rei, come sapevano i medievali. Ogni etichetta è un dispositivo di cattura più che di conoscenza.
Il primo merito di questo libro è che è pieno di nomi e di cose. Radio Fragola, Laboratorio P, Escamotage, poi Peppe Dell’Acqua, Franco Rotelli, Mario Novello, e naturalmente Foucault, Lacan, la Clinique de La Borde, Jean Oury, Maxwell Jones. Sono nomi notissimi e meno noti, nomi di persone che fanno o hanno fatto mestieri anche molto diversi. E poi nomi di gruppi, di collettivi, di progetti culturali, di associazioni, e ancora, corsi universitari, seminari di ricerca, redazione di riviste, e città, Trieste, Bari, Tolosa, Strasburgo, Parma, Arezzo, San Paolo.
È interessante di per sé, questa molteplicità o questa eterogeneità. Cose e persone, uomini e donne impegnati nelle più diverse pratiche di cura, di ricerca, di militanza, di associazionismo. Tocchiamo con mano che ogni avventura di ricerca, ogni pratica quotidiana è un enorme intreccio di differenze. Piani che si intersecano per un certo tratto e poi prendono congedo, tante inattese fecondazioni incrociate, incontri lungamente attesi e propiziati, scoperte folgoranti, improvvisi cambi di rotta, lunghissime fedeltà. Potremmo leggere questo libro come una accuratissima e istruttivissima fenomenologia delle pratiche. Sappiamo quanto è necessaria una fenomenologia di questo genere e quanto venga ricercata e perseguita da molti sentieri della ricerca teorico-pratica attuale, in area filosofica, giuridica, ecologica, medica, politica, e così via. Basti pensare all’esempio massimo di questa epistemologia concreta del fare, quello di Bruno Latour.
Secondo merito di questo libro. Mostra che l’avventura di Basaglia, come l’avventura di chi continua a farne vivere l’ispirazione, è segnata in modo essenziale, decisivo, da questa eterogeneità. Ne vive con più necessità e anche con più consapevolezza di tante altre. Questa necessità e questa consapevolezza sono anzi al centro del rinnovamento che Basaglia ha introdotto nei servizi di salute mentale e ha consegnato ai suoi ormai rari, testardi, preziosi continuatori. Ogni istituzione nata dal suo gesto si presenta come un tessuto di saperi e pratiche e istituzioni, e la vita degli ideali e delle istituzioni basagliane e post-basagliane dipendono interamente dall’incessante manutenzione, riformulazione, reinvenzione, di questo tessuto fatto di tanti tessuti. Disfare il manicomio significava porsi il problema di tessere questo tessuto che mai nessuno aveva tessuto, e ogni attentato alla sussistenza di questo tessuto porta con sé il rischio di un nuovo per quanto diverso manicomialismo.
Diceva Basaglia che il suo progetto non era quello di vincere ma quello di convincere. Vincere era impossibile, secondo lui. Le istituzioni esistenti erano troppo più forti di quanto fossero lui e il suo gruppo pur ampio di collaboratori. Ma Basaglia aggiungeva che se lui e i suoi avessero avuto forza sufficiente a convincere, quello sarebbe stato il loro modo di vincere. Le istituzioni esistenti non avrebbero potuto ignorare quel piccolo cambiamento. Una piccola pietra di scarto sarebbe diventata una piccola pietra angolare. C’è un’umiltà, in questa che non è solo una fenomenologia delle pratiche ma una strategia delle pratiche e dei loro innumerevoli intrecci, che solo apparentemente è umile, modesta, diminutiva. Quell’umiltà è efficace. Come se il reale fosse fatto di fibre minuscole più che di blocchi compatti, e come se pensare per fibre e tessiture locali e transitorie fosse più concreto e più efficace che pensare per fondamenti, per edifici perenni, per pietre angolari. Quante culture del resto hanno costruito edifici di stoffa, hanno innalzato tende deponendo anzitutto tappeti al centro dell’oasi, hanno fondato le loro cosiddette capitali mobili prevedendo che migrassero attraverso lo spazio anziché obbligare a far transitare tutto lo spazio attraverso la cruna dell’ago delle loro città regali?
Quindi, terzo merito di questo libro. Sappiamo che Basaglia ha vinto, che ha firmato una legge che porta tuttora il suo nome, che la sua riforma delle istituzioni psichiatriche italiane si è ampiamente anche se non completamente realizzata. Sappiamo anche che Franco Basaglia ha perso, e che a qualche decennio di distanza, un po' per la vita e le vicende interne delle istituzioni da lui innescate e per le pratiche da lui stesso avviate, un po' per gli intrecci inevitabili che tutto questo ha contratto con una nuova società e con un nuovo mondo, il suo progetto andrebbe, più che continuato come tale, reinventato da dentro questo nuovo mondo. Oggi il tappeto di Basaglia andrebbe arrotolato e sperabilmente srotolato altrove.
In altri termini Colucci e Di Vittorio non indulgono ai trionfalismi e alla memorialistica. Nominano con forza il rischio più grande di fronte a cui si trova l’eredità basagliana. Cioè il rischio dell’aziendalizzazione del mondo della salute mentale. Aziendalizzazione che del resto investe oggi ogni ambito della medicina e dei servizi destinati a quel soggetto che un tempo era definito come il cittadino. Scuole comprese, università comprese, trasporti compresi, eccetera eccetera.
Che la definizione di che cos’è salute mentale, e in generale di che cos’è salute e cosa malattia, e ancora più in generale di che cos’è vita individuale e vita collettiva, sia in maniera sempre più indiscussa demandata a un’azienda, a un principio aziendalista oltretutto sempre meno locale e sempre più globale, dati i costi esorbitanti della macchina sanitaria e di ogni macchina istituzionale contemporanea, costi che nessun singolo stato è più in grado di sopportare se non mettendosi in mano a enormi multinazionali o a enormi fondazioni dietro a cui stanno enormi multinazionali, questa è appunto la tragedia dell’aziendalizzazione, che vien fatta passare per ottimizzazione e che è una tragedia proprio perché è ottimizzazione.
Ottimizzare significa infatti definire un obiettivo e indicare come raggiungerlo col minimo di risorse. Salvo che, come sempre accade, il mezzo definisce il fine molto più di quanto il fine definisca il mezzo, e così l’obiettivo della salute, della cura della vita, e della vita in senso generale, viene definito in ultima analisi come obiettivo economico, e anzi come obiettivo massimamente economico. Più esiguo sarà lo spettro di direzioni lungo il quale si incanalerà la nostra vita individuale e collettiva, la sua formazione scolastica e culturale, la sua salute fisica e mentale, più ampia dovrà essere la nostra realizzazione. Vivere significherà vivere poco, costare poco, valere poco. Questa miseria radicale ci verrà presentata come ricchezza. Dove tutto questo viene, se non progettato, dato che anche qui agiscono non volontà di singoli ma tessuti di pratiche fatte di infinite altre pratiche, e tuttavia accuratamente promosso e amministrato, si brinda allegramente.
In copertina, No al manicomio dei poveri, fotografia di Carla Cerati per Morire di classe.