Una conversazione / Guido Guidi. Prendere contatto con le cose

8 Novembre 2017

Guido Guidi (Cesena 1941) è tra i più importanti autori contemporanei. Come Luigi Ghirri ha
tracciato linee di ricerca del tutto inedite partendo dall’insegnamento di Paul Strand, ma anche
dalla letteratura, dall’arte di Piero della Francesca portandolo ad una metodologia di lavoro che si
basa sulla reiterazione dello sguardo. Lo abbiamo incontrato in occasione della mostra Paul Strand
e Cesare Zavattini. Un paese. La storia e l’eredità per Fotografia Europea 2017 a Reggio Emilia.

 

Agosto – settembre 2017

 

Laura Gasparini: Di recente Gianni Celati ha affermato che alla base delle ricerche Viaggio in Italia del 1984 e di Esplorazioni sulla via Emilia del 1986 c'era il concetto di “qualsiasità” di Zavattini. Tu, insieme a Luigi Ghirri, Olivo Barbieri e altri fotografi della tua generazione avete declinato questo aspetto del pensiero zavattiniano in modo del tutto originale. Potresti parlarmene dal tuo punto di vista?

Guido Guidi: 6 agosto 2017, ieri a cena, Vittore Fossati suggeriva, ironicamente, di sostituire il lessema “qualsiasità” col più attuale “qualunquemente”. Da parte mia propongo la sostituzione col pasoliniano “cose da nulla”. Dionigi l’Areopagita sosteneva che l’immagine di un lombrico, piuttosto che quella di un re, era più appropriata nel dare figura al Divino.

 

Per Zavattini la “qualsiasità” è la possibilità di trovare cose interessanti da dire in qualsiasi luogo ci si trovi. Quindi, il tema del viaggio, che ha caratterizzato la fotografia degli anni Ottanta, verrebbe a meno.

Tutto sommato non ho molte cose da dire, ma piuttosto molte cose da guardare, come suggerisce il Talmud: “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”.

Negli anni Ottanta, svolgendo il lavoro sulla via Emilia, dopo aver percorso pochi kilometri dovevo tornare a casa perché avevo consumato tutte le pellicole. Percorrere anche cento metri è un viaggio, bisogna però togliersi di dosso i panni del turista per indossare quelli del pellegrino.

 

Spesso, nel descrivere il tuo lavoro, hai parlato di “accumulo democratico di tracce”. Potresti approfondire questo aspetto del tuo pensiero?

Non ricordo, forse mi riferivo a The democratic forest di William Eggleston. Mi riferivo al tentativo di eliminare le gerarchie fra gli elementi che compaiono nella inquadratura. Come dice John Szarkowski, “la fotografia nasce dai bordi” e non dal centro, come accade nella tradizione pittorica italiana. Forse è anche la natura del medium fotografico che mi spinge a occuparmi di cose ai margini, del diffuso, delle periferie urbane...temi peraltro colpevolmente trascurati dalla pittura dal novecento in poi.

 

Sei un autore dove il tempo e la precisione geometrica dell'inquadratura hanno un profondo valore espressivo, elementi che afferiscono ad una consolidata tradizione del vedere, del descrivere e non del narrare. È così?

Mi piace la parola “descrivere”. Da bambino mi piaceva lanciare sassi nel vuoto per “ascoltare” la “parabola” vertiginosa che descrivevano.

 

Il viaggio, ma anche il paesaggio, gli oggetti sono quindi un pretesto per riflettere sul linguaggio fotografico?

Strand diceva che un fotografo non può prescindere dalle cose che sono davanti alla macchina fotografica. Eseguire una fotografia è un atto devoto, una riflessione sull’atto stesso.

 

 

Penso che sia anche un atteggiamento di denuncia o quanto meno di presa di posizione: il rifiuto della eccezionalità, della bellezza, l'abbandono di un linguaggio formale e compositivo a favore di uno sguardo che privilegia l'indagine, l'osservazione della realtà nelle sue diverse stratificazioni sono una testimonianza del tuo impegno.

Credo di sì.

 

In una tua recente intervista in merito all'opera di Walker Evans hai affermato che apprezzi, del lavoro di Evans, la sua capacità di non mostrarsi. Trovo che anche in alcune tue ricerche ci sia questo aspetto. È così?

Quando fotografo possibilmente posiziono la mia camera all’ombra.

 

Se guardo il tuo lavoro, anche ricerche svolte in passato, trovo una costante e un'analogia spontanea che ricorda un certo sguardo di Paul Strand. In particolare le immagini di quella architettura della pianura padana che lui definiva “blanda” e di un paesaggio “lontano dal pittoresco”. Eppure da questa lettura di Strand della pianura padana è uscito un capolavoro che è Un paese, che ha influito molto sulla fotografia italiana e non solo.

Anche Cartier Bresson influenzò molto la fotografia italiana, ma l’influenza di Strand si è mostrata nel tempo molto più fondativa. Ho visto per la prima volta il libro Un paese nel 1966. Italo Zannier lo portò a scuola; ricordo il suo entusiasmo nel mostrarlo a noi studenti.

Poco dopo, con un colpo di fortuna, ne trovai una copia a metà prezzo, 2.000 lire. Da allora occupa un posto privilegiato nella mia libreria.

 

A proposito di Un paese e del rapporto tra immagine e scrittura, anche tu hai lavorato con uno scrittore, Vitaliano Trevisan. Nel realizzare Vol. I riprendi alcuni tuoi lavori degli anni Settanta “sugli spazi domestici come luoghi di luce e di ombre, sulla casa come camera oscura dell’esistenza. Un viaggio intorno alla tua stanza”. Potresti parlamene?

Evans, e in seguito anche Ghirri, hanno insistito sulla vicinanza della loro fotografia alla letteratura piuttosto che alle arti figurative.

Per me la fotografia appartiene alla sfera del non verbale.

Purtroppo dalle scuole elementari in avanti, il verbale prevarica sul visivo, il “logos” nella scala dei valori è posto più in alto della “icona”; non si insegna a guardare, si da per scontato che lo si impari attraverso l’esperienza funzionale, magari quella del guardare attentamente a destra e a sinistra quando attraversiamo la strada.

Ho guardato molto la pittura medioevale e del primo Rinascimento che, come tutti sanno, è il periodo in cui nasce la prospettiva. Daniel Arasse nota che la nascita della prospettiva coincide con un gran proliferare di Annunciazioni dipinte. Il paradosso, insiste Arasse, è come dare figura al mistero attraverso una rappresentazione razionale come quella prospettica. Allora, se fotografo una stanza vuota potrei immaginare che quella stanza o quella casa fosse un tempo della Madonna. Infatti, ancora oggi si dice “casa della Madonna” per dire una casa fuori dal comune. Forse la fotografia può metterci in presenza di una assenza, come la prospettiva poteva dar conto del mistero dell’Annunciazione.

 

Pensando ancora a Un paese, ma anche al tuo Vol. I, benché i presupposti progettuali siano differenti, ti chiedo perché mai un fotografo privilegi a volte di più le pagine di un libro che non l'esposizione delle proprie opere in una galleria?

È la sequenza che le pagine di un libro impongono al lettore? È il formato? È il fascino della carta?Probabilmente perché il libro è meno effimero e può raggiungere un pubblico più vasto. Nello scaffale può essere posto a fianco del saggio o del romanzo…

 

 

Alcuni esperti sostengono che il photobook funziona se il rapporto tra testo e immagini è in armonia o comunque risponde in qualche modo ad una precisa regia. È questo il segreto di un buon libro?

Detto che non mi sento per niente regista, ma piuttosto esecutore, non dobbiamo dimenticare però che anche una singola fotografia è un luogo attraverso cui pensare; un luogo che magari richiede e dovrebbe ottenere “la leggera lusinga della nostra completa attenzione”, come diceva Lincoln Kirstein delle fotografie di Evans. Un testo visivo non dovrebbe aver bisogno di essere aiutato o introdotto da un testo verbale.

“Bisogna tornare all’evidenza”, scrive Daniel Arasse, “in ogni tempo, il pittore e lo spettatore hanno usufruito delle possibilità dell’immagine di non essere testo, di non essere riducibile ad esso…”.

 

Zavattini affermò che Un paese era un film fattosi libro, ma anche per Gerry Badger, Martin Parr e John Gossage l''autore-fotografo è considerato come uno scrittore di un film, vale a dire il regista e lo sceneggiatore che con quella forma e quel linguaggio creano la propria opera. È curioso, vero, che da punti di vista differenti e da presupposti differenti, si sia arrivati alla stessa conclusione. Tu come te lo spieghi?

Sì, anche Strand aveva parlato di “film su carta” e anche io quando lavoro alla sequenza di un libro non posso fare altrimenti. Ma tutto sommato preferisco, quando è possibile, rispettare la sequenza cronologica eseguita sul campo e non lavorare sul montaggio a tavolino. Penso alla fotografia come interrogazione e non come comunicazione.

 

Ma torniamo al tuo lavoro, al tema del paesaggio, della strada. In una tua recente mostra dal titolo Per strada. Fotografie sulla statale 9 allestita per Fotografia Europea 2016 a Reggio Emilia dove hai esposto fotografie della via Emilia dal 1983 al 2000 hai affermato che la strada appunto, ma anche il paesaggio diventano dispositivi della visione. In pratica hai rovesciato l'idea del soggetto: il soggetto sei tu che fotografi, il tuo sguardo e non più quello che fotografi.

Non credo di aver detto questo, al massimo posso aver detto che in quanto “soggetto fotografo” mi approprio del soggetto fotografato.

Il soggetto-fotografato e il soggetto-autore dovrebbero darsi reciprocamente figura.

 

Per questa mostra hai avuto l'occasione di rivisitare il tuo archivio. Hai affermato che hai conservato tutto della tua attività, ma hai archiviato poco, perché non avevi tempo e perché pensavi che la memoria sarebbe stata sufficiente per orientarti. Oggi ti rendi conto che non è così. È com'è oggi il tuo archivio? È parte attiva del tuo lavoro, della tua progettazione o una volta che hai concluso un progetto non lo consulti più?

In realtà non ho conservato tutto. Per esempio ho perso i miei primi negativi degli anni Cinquanta e questo mi secca molto. Poi quando cerco qualcosa nel mio archivio a volte sono colto da scoramento. Purtroppo, preso dal fare, non ho avuto tempo da dedicare all’archivio e le istituzioni pubbliche, che dovrebbero intervenire per evitare che tutto si disperda, hanno altre priorità. 

 

Il tuo studio ospita anche una ricca biblioteca di libri fotografici. Puoi raccontarmi come si è formata e qual’è la caratteristica peculiare?

Ho cominciato negli anni Sessanta, e ancora di più negli anni Settanta, a farmi arrivare per posta libri di fotografia dagli Stati Uniti. Mi ero associato al museo George Eastman House di Rochester che spediva la rivista “Image” e un elenco di libri disponibili. Tra quelli sceglievo. Ero curioso, volevo vedere, conoscere. Avevo poche possibilità di viaggiare e non conoscevo la lingua inglese, ma guardando e riguardando semplicemente le “figure” i libri sono stati il mio nutrimento.

Per ciò che riguarda la caratteristica, come mi chiedi, …a parte i libri messi nello scaffale privilegiato, posso dirti del quasi totale disordine e mescolamento tra antico e contemporaneo, tra pittura, fotografia, letteratura, architettura... Devo dirti però che, con rammarico, da un po’ di tempo a questa parte ho quasi rinunciato a comprare libri perché mi sta crollando il pavimento.

 

Hai la passione del collezionismo? Collezioni fotografie di altri autori? In caso di risposta positiva, qual’è la motivazione che ti spinge a collezionare?

Cerco di conservare tutto, accatasto, ma non credo di avere lo spirito del collezionista. Evans dice che il fotografo è una sorta di collezionista. Non saprei, può darsi. Per me alla base c’è soprattutto il desiderio di prendere contatto col mondo, con le cose.

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