I fratelli Vicenti
Sugli argini in mezzo ai campi fra Vercelli e Santhià alla fine di settembre può fare già freddo. A undici anni del freddo ti importa poco, ma che la bella stagione se ne stia andando di nuovo ti fa proprio girare le palle. E ti girano ancora di piú se sono appena le otto e un quarto e sei in coda per iscriverti a scuola. Una scuola che oltretutto non avresti scelto. Io alle medie ci sarei andato, perché studiare mi piaceva, e col liceo classico avrei almeno provato.
Anzi, l’avrei fatto e basta. All’epoca non si tentava di andare a scuola, ti ci spedivano e tu dovevi arrivare in
fondo, anche a denti stretti. Lo stesso col matrimonio: ti sposavi ed era finita, se ti eri sbagliato amen. Invece ero lí, di mattina presto, per un posto all’Avviamento Professionale, che avrebbe significato venti minuti di corriera tutte le sante mattine in mezzo alla nebbia, piú altri venti al ritorno, con la fame a strizzarmi lo stomaco come uno straccio bagnato, e dopo tre anni di quelle corse su e giú mi avrebbero messo in mano un bell’attestato da elettricista.
Nessuna possibilità per legge di proseguire gli studi. Questa era la prospettiva. Niente latino e greco per me, solo lime, cacciaviti e martelli. Avevo tutti i diritti di essere scontento. Mio padre. Era stato lui che aveva insistito tutta l’estate per l’Avviamento. Certo, dal suo punto di vista che se ne faceva di un letterato in casa, di un maestro di scuola, di un professore di storia. L’idea di un figlio laureato o almeno diplomato non lo inorgogliva. Il suo concetto di riscatto sociale volava basso, all’altezza di un qualunque cofano d’automobile.
Lui vedeva in me la continuazione dell’attività di famiglia: «Elettrauto Fratelli Vicenti», che nelle sue speranze si sarebbe evoluta in «Elettrauto Fratelli Vicenti & Figli», e forse, un giorno, in «Concessionaria e officina Vicenti – Le migliori marche». O in tutte le altre declinazioni possibili, suggerite e pilotate dai casi della vita: successo commerciale, fallimento, nascite, morti, cessioni, litigi, cause legali e insidie assortite. Perché era ricco il ventaglio di perfidie che il destino poteva mettere sulla strada di uno arrivato in Piemonte dagli Abruzzi nel ’38, che dopo aver fatto il manovale aveva passato tredici anni in fabbrica. Alla Carello, a costruire parabole dei fari per le Lancia e le Alfa Romeo. Uno che poi, con la poca liquidazione per cause di salute, aveva messo su col fratello piú giovane l’officina che per anni era stata la sua aspirazione. Quasi che la pleurite, aggravata dall’enfisema polmonare pregresso, fosse arrivata al momento giusto come un moto di liberazione.
Un’aspirazione, dicevo, mica un ripiego, né per mio padre né per mio zio Piero, che pure lui di stare sotto padrone si era stancato presto. Piero in pochi anni si era massacrato metà della schiena alla macellazione delle carni, incollandosi i quarti di bue. E l’altra metà della spina dorsale l’aveva fatta fuori guidando il camion nove ore al giorno per l’Alfa Insetticidi, che distribuiva prodotti da disinfestazione per le campagne dei dintorni.
Di mio zio, tutto si poteva dire. Per esempio che si era sposato troppo presto una falsabionda che dimostrava piú anni di lui senza averli. E inoltre che non aveva mai aperto, non dico un libro, ma forse neanche un giornale in vita sua che non fosse «l’Unità». Però restava un buon marito, e sopratutto un gran faticatore. Un solido esponente di quella che piú tardi avrei anch’io chiamato abitualmente working class.
Piero, e mio padre Giovanni Vicenti, erano uomini abituati a pensare che la vita fosse solo lavorare, limitare le pretese, considerarsi fortunati di avere un tetto sopra la testa, un po’ di soldi in tasca e una discreta salute. Cosí quella mattina faccio di gran malavoglia la mia iscrizione. Consegno in segreteria i documenti che mi ero portato dietro badando a non piegarli, come mi era stato raccomandato, e con la coda tra le gambe torno verso casa in corriera, senza passare dall’officina.
Eccomi, il futuro elettrauto Vittorio Vicenti che in capo a tre o quattro anni avrebbe fatto il suo ingresso sulla scena del lavoro. Un radioso futuro avrebbe diradato la nebbia del vercellese, e in breve si sarebbe alzato al pari di un sole a illuminarmi il cammino. Come nei manifesti elettorali del Pci. A proposito, Piero ci si era iscritto da poco. Arrivato a casa sapevo che non ci sarebbe stato nessuno fino alle otto e mezzo, cosí inforcai la bici e me ne andai in giro tutto il pomeriggio, pedalando come un indemoniato per i canali sulle alzaie, schivando automobili e vecchi coi carretti. È vero che faceva già freddo e che ero incazzato a morte, ma nell’aria non c’era ancora odore d’autunno. La luce era quella che lascia un rimasuglio d’estate, qualcosa che avevo la sensazione di dover trattenere, stringendo gli occhi quasi con rabbia perché presto mi sarebbe mancato.
Io e mio padre vivevamo soli. E i pasti ce li preparava la signora Zanaboni, che stava in affitto come noi nell’appartamento di fronte, sullo stesso pianerottolo. Papà le dava dei soldi tutte le settimane per quel servizio, e a lei non costava fatica preparare qualcosa in piú, dato che anche loro, fra marito e figli, erano in tanti, e quelle poche lire extra le facevano comodo di sicuro.
Mia madre era morta un paio d’anni prima, all’inizio di agosto, per un abbassamento forte della pressione accompagnato da chissà cos’altro. Soffriva di quel genere di disturbi da quando era nata, e non gli dava importanza. Era giú nel cortiletto della palazzina a ritirare i panni stesi ad asciugare, e all’improvviso aveva avuto un malore. L’avevano sentita farfugliare, poi si era seduta per terra, contro il muro. Era arrivata dell’acqua, e avevano chiamato il dottore, ma lí era e lí rimase. Quando giunse l’autoambulanza era tardi. Io ero sulla strada di Olcenengo, dentro al canale coi miei amici a tormentare le rane e a fumare sigarette di carta di giornale. Quella strada sembrava che si perdesse dritta nel nulla. Pareva tirata col righello e la matita, e che poi ci avessero disegnato vicino anche i pali della luce. Al ritorno mi presero in casa gli Zanaboni, e del trambusto che seguí non mi fecero vivere né vedere niente. Ancora oggi fatico ad avere ricordi precisi di quel momento, se non il senso di distacco e lo sprofondamento in una vita silenziosa e diversa.
Non avrei voluto diventare speciale per tutti in quel modo. Meno che mai avrei desiderato gli sguardi su me e su mio padre, e le continue offerte di aiuto. Per non parlare della gentilezza innaturale dei compagni di scuola che all’improvviso non ti fanno piú i loro scherzi da scemi, e giocando a pallone non ti caricano piú perché sei diventato materia fragile. Tutto un repertorio di discorsi e battute a cui non si accenna piú perché riguardano la sofferenza e la morte. Per i miei compagni era come se insieme a mia madre se ne fosse andata ogni mia resistenza, ogni mia capacità, perfino quella di reggermi in piedi da solo con sicurezza. Ma io non mi sentivo cosí. Soprattutto ero stufo, non avrei voluto attenzioni che durassero tanto a lungo.
Quel momento sarebbe passato, lo sapevo, lo stavo già superando. Facevo tutto come gli altri: studiavo,
pedalavo sui viali, dicevo scemenze. Poi giocavo a pallone, sentivo le canzoni alla radio col volume forte, andavo al cinema di domenica pomeriggio con mio padre, Piero e sua moglie, a vedere i film menosi che piacevano a loro. E all’uscita dal cinema un rapido passaggio al bar Nicoletti lí di fianco, per sapere cosa avevano fatto Juventus e Pro Vercelli. Soprattutto se la schedina di mio padre si poteva buttare nel cesso come tutte le domeniche. Lui non era di quelli che rigiocano sempre la stessa. Non era già normale tutto questo?
Estratto dal romanzo di Ivano Fossati, Tretrecinque in questi giorni in libreria da Einaudi