Inside Out. Emozioni esistenziali
Riley è una bambina alle prese con uno sconquasso esistenziale. Cambiare casa e città contemporaneamente rappresenta un dramma che nessun bambino vivrebbe a cuor leggero. Ciò nonostante, Riley riesce a dissimulare il proprio disappunto. Le buone maniere della sua buona educazione di provincia le impediscono di rivelare, in primis a se stessa, la sua avversione a un cambiamento che si preannuncia, comunque, colossale.
Il cervello, però, non tradisce. Che si tratti di un vero e proprio trauma, lo capiamo, infatti, grazie alla trovata principale del film che racconta le sue vicende, drammatizzando ciò che avviene nella sua mente in reazione agli eventi della vita. Ad animare lo spazio della sua emotività, ritroviamo, così, 5 personaggi, ognuno dei quali impersonante una passione di base: gioia, tristezza, disgusto, paura, rabbia.
Sul fatto che l’idea di rappresentare il pensiero e il comportamento attraverso la metafora della mente sia un espediente narrativo già largamente utilizzato in ogni ambito della produzione culturale, dalla filosofia alla psicologia, dalla pubblicità al cinema fino ai nostri amati cartoon si è già scritto molto (in particolare, ho apprezzato questa bella dissertazione di Raffaele Alberto Ventura). In questo senso, Inside Out può essere ben definito come un’opera didascalica; si tratta di vero e proprio storytelling, volto a far intendere il funzionamento di un modello teorico (di matrice psicologico-cognitivista) anche molto complesso attraverso la drammatizzazione di alcuni suoi processi.
Prima considerazione: basta davvero poco a fare emergere la relatività di queste drammatizzazioni, nonostante esse si presentino come fatalmente univoche e unilaterali. Essere consapevoli di ciò, potrebbe, quindi, essere un buon antidoto per non abboccare alla pretesa di qualcuno che Inside Out debba essere, per forza, considerato messaggero di una qualche indiscutibile oggettività in tema di sentimenti ed emozioni.
Si potrebbe, invece, più proficuamente, riferirsi a questo bel filmone come a una versione, colta e documentata, di un problema annoso e complesso che sarebbe interessante considerare, tra il serio e il faceto, in termini comparativi. Si scoprirebbe, così, che i tentativi di mettere in scena ciò che ci passa per la testa sono, di regola, specchio di visioni ideologiche e contese politiche, proprio perché è lo stesso rapporto fra anima e corpo a essere, al cuore, politico. Per mantenere lo sguardo sui soli cartoni animati (ma la faccenda, come accennato, sarebbe, di gran lunga, più generale), potremmo, per esempio, distinguere fra tematizzazione religiosa e scientifica. In questo senso, da una parte, stanno diavoletti e angioletti, rappresentati come ruffiani e interessati consiglieri svolazzanti intorno alle teste dei più disparati personaggi (da Tom e Jerry al simpatico cagnolino Milou di Tintin), dall’altra, i circuiti neurali di celebri serie televisive parascientifiche come Siamo fatti così, trasmessa in Italia fra gli anni ottanta e i novanta.
Potremmo anche divertirci a considerare le forme spaziali in ballo: ci sono proiezioni esterne (esserini che escono fuori dal corpo a convincere, come interlocutori, dall’esterno, i loro soggetti) e interne come le cinque piccole star del nostro film. Nell’ambito di questa ultima opzione, la mente è quasi sempre rappresentata come ponte di comando di una nave, poco importa se allestito secondo un’estetica marinaresca (ci sono spesso timoni e periscopi) o piuttosto come una futuristica stanza dei bottoni. In ciò, Inside out complessifica un po’ il quadro: il ponte di comando è solo un avamposto di uno spazio molto più ampio che lo contiene e che sembra somigliare piuttosto a una città. Ma non è finita. Ci sono, ancora, svariate forme di potere: se la mente può assumere, come abbiamo visto, contorni metropolitani, molti possono essere i modi in cui mettere le mani sulla città. Si va dalla gerontocrazia di Siamo fatti così (che punta tutto sulla saggezza di un bianchissimo e barbosissimo vecchietto), al duopolio fra forze in conflitto (succede in un vecchio cartoon di Walt Disney dal titolo Reason and Emotion), fino al vero e proprio direttorio della mente di Riley, in cui i diversi personaggi, generalmente, si mostrano cooperativi nel prendere decisioni sul comportamento da tenere in ogni situazione. Ancora più interessante appare la composizione degli equipaggi a cui spetta di tenere le redini dell’azione. In piena seconda guerra mondiale, per esempio, il già menzionato Reason and Emotion tagliava con l’accetta ragione e sentimento, attribuendo alla prima, abbigliata come un perfetto gentiluomo inglese, caratteri salvifici e, alla seconda, conciata, invece, come un primitivo cavernicolo, gli esiti disastrosi del consenso ottenuto dall’esecrabile Hitler. Erano anni di conflitto in cui la modernità era fiera di sposare il pensiero razionale come ottimistico orizzonte di progresso e perfino di salvezza. Nessuno ha notato che la Ragione, in Inside Out, invece, non c’è. Ridotta a puro buon senso, viene data per scontata. L’unico personaggio che potrebbe ricordarne l’appeal (camicia e papillon!), nel film, è Paura: come a dire che il solo ambito di intervento che il presente riserva alla razionalità è quello di chi calcola il rischio prefigurando ossessivamente il fallimento. Sarà pure questo segno dei tempi.
Ancora, sempre a proposito di Inside Out e di composizione dell’equipaggio, si potrebbe riflettere su come il quintetto del film sia, in fin dei conti, incoerente: passi per Gioia e Tristezza, ma perché Disgusto senza Gusto? Paura senza Speranza, Rabbia senza Moderazione? Emozioni e sentimenti sono costrutti culturali suscettibili di infinite formulazioni, per questo bisognerebbe fare attenzione prima di indicare inverosimili archetipi, costruiti senza tenere conto dei contesti culturali e temporali in cui troveranno posto, senza invero considerare le infinite passioni senza nome che quotidianamente proviamo senza poterle chiamare in causa. Il modello di Inside Out finisce così per somigliare a una macchina corporea universale, tanto inverosimile quanto, in fin dei conti, imperialista (biopolitica!) ed etnocentrica. Anche qui, questione gigantesca.
Ma torniamo, per un attimo, alla ragazzina indaffarata a elaborare il lutto del trasloco. Il suo umore è variabile, la sua nuova casa somiglia affatto a quella che aveva immaginato, i genitori sono impegnatissimi con le incombenze poste dal trasferimento, nemmeno la pizza le può essere di conforto dato che l’unica pizzeria del quartiere la vende condita con dei nauseabondi broccoli. Insomma, Riley non trova niente di anche minimamente comparabile al suo temps perdu, agli interminabili pomeriggi trascorsi a pattinare con i genitori nel piccolo scenario cittadino a cui si era così facilmente assuefatta. A San Francisco, invece, solo palazzoni e ostilità. Il culmine di questo sconforto giunge una volta in classe. Interrogata dalla prof. sul proprio passato, inizia un resoconto della sua vita precedente prima dolce e affettuoso che progressivamente slitta, però, verso la disperazione, dal momento che le rinnova il dolore della perdita. Colpa di Tristezza che, nel quartier generale mentale, si appropria temporaneamente dei comandi, prendendo il sopravvento sull’umore della bimba, il che significa portandola inesorabilmente verso una crisi di nervi e un pianto a dirotto. Sarà, peraltro, proprio nel tentativo di disarcionarla dal comando che Gioia, insieme alla sua malinconica antagonista, finirà risucchiata nella parte più profonda della città-mente.
È a questo punto che il film, in una corsa contro il tempo per riprendere il controllo emotivo della piccola Riley prima che crolli completamente, si trasforma in un’affascinante ed efficace esplorazione della mente a uso e consumo degli spettatori che imparano, così, a riconoscerne la complessità, distinguendo le singole sezioni: le “isole della personalità”, l’area del pensiero astratto, “immaginandia” (l’area riservata al pensiero simbolico), la memoria a lungo termine e via dicendo.
Ma che rapporto c’è fra dentro e fuori? Qual è il collante che lega il mondo di Riley alla sua mente? La sensazione è che il mondo out possa prendere forma solo a partire dalle dinamiche fra i personaggi inside. La nostalgia di cui mostra di soffrire Riley non si presenta tanto come il risultato culturale di uno sradicamento a cui rispondere con la forza di volontà di una trasformazione identitaria che porrà nuove sfide e nuovi obiettivi. Al contrario emergerà come una reazione umorale tutto sommato casuale determinata dalle dinamiche politiche fra le passioni al comando, il cui unico obiettivo è tenere lo stato emotivo in equilibrio, nonostante la vita. Perfino Tristezza, nel suo piccolo, vorrebbe essere felice tanto che i suoi piccoli misfatti vengono rappresentati più che altro come frutto della sua incontrollabile compulsione (di cui non fa altro che giustificarsi) e non come una scelta, in qualche modo, deliberata. Non è nemmeno un caso che ogni traccia della sua azione, in una sorta di imperativo categorico alla contenta ebetudine, debba sempre essere rimossa. Il corpo di Riley emerge, allora, come una macchina volta alla conservazione, dispositivo biologico che cerca soltanto il benessere emotivo, senza porsi alcuna prospettiva esistenziale, assecondato in questo dalle pulsioni della mente. Non è un caso che l’unica via d’uscita a questo stato di crisi sarà, per i suoi genitori, ricostruire intorno a lei un ambiente psicologico che possa, per quanto imperfettamente, riprodurre la sua identità sedimentata nelle cosiddette “isole della personalità”. Solo a patto di sacrificare la vita al ricordo (di base!), si può guardare al futuro, solo prendendosi la briga di preservare le vecchie abitudini, insomma, se ne potranno aggiungere delle altre. Nessun rito di passaggio, nessun orizzonte intellettuale marca l’evoluzione della sua personalità, determinata soltanto dalle sue simpatiche quanto inutili pulsioni. Ci prova Riley a ribellarsi ma la sua ribellione risulterà implacabilmente frustrata e c’è perfino chi ha avuto il coraggio di sostenere che questo sua resa (desiste dal suo piano di scappare di casa) possa davvero essere considerata, per Tristezza, un merito e, conseguentemente, per gli spettatori, una morale accettabile. Riley, così, alla fine del film non si trasforma, rimane fragile e indifesa, immatura piccola adolescente alle prese con dei genitori che, per farla felice, saranno costretti a regredire insieme a lei.
C’è, però, un’altra bambina, in un altro film, che si ritrova a subire, come Riley, proprio l’ingiustizia del trasloco. La sua avventura sarà per molti versi simile a quella della sua consorte marcata Pixar. Se non fosse per un dettaglio: Chihiro, eroina de La città incantata, si perde davvero. Nello strano agglomerato in cui dovrà imparare a districarsi per ritrovare se stessa e salvare i suoi genitori, dovrà farcela da sola. Per uscire viva dal suo labirinto, in esso, dovrà sapersi integrare, anche al costo di dimenticare perfino il proprio nome. Non ci si può ritrovare senza perdersi prima. Non ci si può ritrovare, senza sacrificare qualcosa di sé. Non ci si può ritrovare senza cambiare pelle davvero. Ma questo, a ben vedere, è un altro film.
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