Italiani fratricidi / commenti
Umberto Saba da Scorciatoie e raccontini
Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia - da Roma ad oggi - una sola vera rivoluzione? La risposta - chiave che apre molte porte - è forse la storia d’Italia in poche righe.
Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… “Combatteremo - fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto - fratelli contro fratelli”. (Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che - diventato chiaro a se stesso - finalmente si sfoghi). Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione.
Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.
Helena Janeczek
Umberto Saba, l’ebreo italiano di confine, trova un nome unitario a ciò che era stato chiamato con termini distinti: campanilismo, faziosità, guelfi vs ghibellini e così via, sino alle varianti contemporanee. Seguo a ritroso il sentiero tracciato dal poeta triestino e inciampo in un’aporia di Dante. Conficcati nel gelo dell’ultimo cerchio dell’inferno, sono i traditori della patria o della parte. La parte, fallace simulacro della patria, genera faide che portano un padre a divorare i propri figli. Ugolino non è Crono, divinità terribile nella sua arcaica onnipotenza, ma il contrario: un signore sconfitto in una guerra fra pari che costa la vita ai figli. Spesso pagano ancora loro il prezzo delle contese fratricide, sebbene gli adulti rivali non si destino alla pietà e nell’orrore che il padre delle nostra lingua concesse al conte Ugolino.
Pierpaolo Antonello
Tutte le culture vivono di miti fondativi basati sul conflitto (più o meno manifesto), sia esso trasfigurato attraverso Edipo e Laio o Romolo e Remo. Domenica Mazzù in un recente libro, Politiche di Caino (Transeuropa, 2006), ha proposto un cambiamento paradigmatico nella comprensione del politico, che sembra andare in direzione dell’affermazione di Saba, ponendo una divaricazione fra una matrice greca della nostra cultura, dominata dal conflitto verticale (Zeus, Edipo), e una di derivazione ebraico-semita, caratterizzata ab ovo dalla guerra tra fratelli. Trattandosi di una discussione di carattere politico-antropologico, Mazzù ovviamente pone la questione al di là di qualsiasi specificità italiana. La teoria politica e le fasi storiche che essa viene ad analizzare vivono di paradigmi oscillanti, usando modelli interpretativi che operano spesso in maniera sincretica e non possono essere facilmente polarizzabili. Non siamo del resto figli sia di Atene che di Gerusalemme? Viviamo allo stesso tempo di conflitti con i padri e con i fratelli, visto che, tribalmente, il conflitto è sempre fra consimili, dramma famigliare innanzitutto.
Dal punto di vista rappresentativo i miti paradigmatici rispondono ovviamente alla contestualità storica: durante gli anni di piombo, ad esempio, la letteratura e il cinema si interrogavano sullo scontro in atto optando soprattutto per la chiave edipica (Colpire al cuore di Gianni Amelio è esemplare a proposito). In anni più recenti il paradigma ha virato verso il contrasto tra fratelli (La meglio gioventù o Mio fratello è figlio unico)per articolare il dualismo spesso contingente, e basato su un retroterra socio-culturale simile (al di là di qualsiasi collocazione di classe), fra destra e sinistra radicali. In questi ultimi mesi il modello interpretativo che sembra circolare a livello pubblicistico è invece quello di Crono, che dopo avere evirato il padre, divorò preventivamente i propri figli per poter continuare a regnare indisturbato sugli gli dei e gli uomini: il conflitto inter-generazionale di cui oggi si continua a parlare sembra essersi risolto attraverso la totale predazione da parte dei padri di ogni risorsa materiale e simbolica, di ogni possibile progettualità politica e personale, costringendo le nuove generazioni a una condizione di dipendenza. Di questo fenomeno aveva peraltro tratteggiato profeticamente i contorni Pasolini già nel ’66 con Affabulazione, dove, rovesciando parodicamente Edipo, aveva messo in scena un padre che cercava di competere con la giovinezza e il vigore sessuale del figlio, cercando prima di assomigliarli e alla fine uccidendolo.
Sulla dimensione cainita del conflitto è comunque vero che gli antropologi anglosassoni continuano ad usare il termine italiano campanilismo per definire il conflitto spesso capzioso, esasperato e isterico, tra uguali e tra prossimi, che sembra avere caratterizzato in maniera preponderante la storia della nostra penisola. La mancanza di scissioni religiose, l’abbondanza di principi (padri) di basso profilo e di scarse abilità e ambizioni, una aristocrazia precaria e cialtrona, e battaglie ideologiche mai spinte verso il limite estremo, verso il massacro e l’annientamento totale dell’avversario come in altri contesti nazionali, hanno fatto sì che la violenza si stemperasse soprattutto internamente. Il conflitto mimetico, direbbe René Girard, avviene principalmente tra simili, tra doppi, pronti ad amministrare e a ingrandire a dismisura le proprie differenze minime: ciò che Freud chiamava (in Disagio della civiltà) il «narcisismo delle piccole differenze». E l’individualismo narcisista è una delle monete correnti (o altro grande mito definitorio) della nostra società contemporanea. Siamo talmente omogenei che per istituire le logiche differenziali che ci rassicurano sulla nostra individualità, costruiamo delle mitografie compensative, dove differenze marginali (pretestuose e vuote) vengono ingigantite a dismisura. In questo senso Michela Dall’Aglio individua giustamente nella spinta democratizzante l’imporsi di una diffusa conflittualità orizzontale, dominata dall’invidia e dal risentimento, e dalla concomitante necessità di stabilire dei nuovi confini simbolici, di operare delle nuove gerarchizzazioni — lo snobismo e l’elitismo dei centri culturali e di potere, l’estenuante ricerca della distinzione sociale delle società moderne sono lì a dimostrarcelo.
Michela Dall'Aglio
L’affermazione di Umberto Eco sul fratricidio come tratto tipico degli italiani, a differenza di altri popoli la cui storia è stata segnata dal parricidio (vedi Francia e Inghilterra), mi ha ricordato un saggio molto interessante del politologo Francesco Maria De Sanctis, pubblicato da Franco Angeli nel 1993 e intitolato Tocqueville. Sulla condizione moderna, in cui c’è un capitolo, Il problema della fraternità, dedicato a un’analisi di questo sentimento-relazione fondante della modernità (deriva infatti nella sua valenza politica dalla famosa trimurti rivoluzionaria Liberté-Egalité-Fraternité, e la cui radice prima è nel cristianesimo).
De Sanctis evidenzia il legame tra parricidio (e fine della società paternalista aristocratica), fraternità, uguaglianza, invidia e democrazia: la scomparsa dell’autorità paterna e della disuguaglianza che porta intrinsecamente con sé, lascia il campo a una società di fratelli, uguali ma invidiosi l’uno dell’altro, per i quali ogni disparità è inaccettabile. Questa è una società democratica moderna che rischia, se all’autorità paterna non viene sostituita l’autorità delle leggi, dell’etica e della morale, di cadere sotto diverse forme di dispotismo che si può reintrodurre proprio a causa del lato oscuro della fraternità, come spiega bene De Sanctis: “La prescrizione evangelica di amarsi l’un l’altro come fratelli sembra voler rimuovere, come fa peraltro il terzo principio della Rivoluzione, della condizione di fratellanza il suo versante negativo, che archetipicamente la caratterizza radicandosi nell’invidia cooriginaria alla pretesa di uguaglianza dei fratelli – invidia esiziale per ogni tipo di solidarietà. Per cui, alla fraternità determinata dalla coppia eguaglianza-amore, cui rimandano tutte le aspirazioni solidaristiche della fratellanza universale, potrebbe opporsi una visione della fraternità radicata nella coppia uguaglianza-invidia. E tale modo di intendere e vivere la fraternità, fattasi condizione diffusa di una società orfana e di massa, potrebbe essere considerata non un correttivo alla libertà dei moderni, bensì un ulteriore pericolo per la stessa (…). [L]a fine dell’aristocrazia può, dunque, essere rappresentata come la morte del padre cui succede una società fraterna certo, ma solo perché costitutivamente orfana di tale figura protettiva gerarchizzante aggregante e rassicurante, non perché in essa la fraternità sia perseguita come un valore della convivenza. Questa è la ragione per cui la società democratica da un lato non produce necessariamente un état de société e dall’altro induce l’uomo che la abita a trovare sostituti compensativi alla perdita della figura paterna (…)”.
E proprio qui si nasconde il pericolo, come prosegue De Sanctis sulla falsariga del pensiero di Tocqueville: “La questione che lo (Tocqueville) interessa non è se esisterà o meno l’autorità in una democrazia compiuta (…) bensì dove verrà posta questa autorità, a chi verrà ascritta, su che tipo di legittimazione potrà contare una volta tramontato lo spirito di famiglia e il codice paterno che lo fonda e legittima (…) In una condizione di egalitarismo fraterno l’individuo, offeso da ogni disuguaglianza, trova quasi una sorta di consolazione nella subordinazione comune al despota (…)”.
E conclude: “(…) le stesse associazioni politiche, e in particolare i partiti, non possono essere veicoli di libertà politica in una diffusa condizione spirituale di estraneità dalla politica dovuta al desiderio di benessere materiale e di amore smodato per l’ordine e la sicurezza (…)”.
Dunque credo che Umberto Eco abbia ragione ma forse questa tendenza fratricida è una tara che dobbiamo in parte alla nostra storia (divisi per più di mille anni, senza un re-taumaturgo-padre ma con centinaia di piccoli despoti locali, più o meno illuminati e capaci) e in parte non è solo italiana perché è propria di ogni società democratica e ugualitaria, che, come sosteneva Tocqueville, non è forse la più nobile e grande, ma è quella che più s’avvicina al disegno di Dio.
Che sia fraterna o fratricida, dipende da noi.
Davide Ferrario
Questo frammento di Saba mi turba dalla prima volta che l'ho letto. E' così terribilmente semplice e verificabile quotidianamente che suona quasi come una condanna. Mi spiega non solo perchè metà di noi odia l'altra metà, secondo dettami scanditi dall'ideologia (fascisti-antifascisti, settentrionali-meridionali, bergamaschi-bresciani, per quel che mi riguarda) ma soprattutto perchè poi, anche nella metà a cui ciascuno appartiene, il meccanismo si ripeta implacabile. Penso alla storia infinita delle scissioni a sinistra, quando il "nemico" non diventa più il tuo avversario politico, ma il tuo ex-compagno. E cosa vogliamo dire della Chiesa Cattolica, un mondo di "fratelli" a capo chino sotto un Santo Padre intoccabile? Personalmente è una delle linee di pensiero su cui sto imbastendo il mio documentario sull'Unità d'Italia.
Giorgio Boatti
Quella di Saba è una riflessione che regge finché non si alza lo sguardo oltre l’orizzonte di casa. La guerra civile spagnola? Un milione di morti. In Francia vale solo il re/padre ghigliottinato? E le “fraterne” carneficine del terrore continuando poi sino ai massacri della Comune di Parigi per giungere sino alla guerra senza regole tra barbouses di De Gaulle e manipoli dell’OAS? Dei Balcani e dei rituali nelle “fraterne” rese dei conti non ne parliamo? Rammentiamo qualcosa delle purghe “fraterne” tra compagni del PCUS nella Russia stalinista? La guerra civile americana? Un minuetto?
No, fratelli/coltelli è un vecchio proverbio ma farne una “specificità” italiana è tenere lo sguardo basso. Sulla violenza interna e sulla mancata rivoluzione serve altra strada
Gianfranco Marrone
È evidente che scrivendo queste righe, non so quanto consapevolmente, Saba conservi da qualche parte della mente le note e le parole dell’inno nazionale italiano, che ai fratelli in un modo come nell’altro si richiama. O quanto meno a noi l’inno viene in mente, leggendo questa sua riflessione, con tutto ciò che può derivarne. Il romanzone di Arbasino, riscritto più volte come emblema della storia, del carattere e del destino degli italiani. Il tormentone leghista contro l’inno di Mameli, e in favore dell’aria verdiana che manda il pensiero in qualche altro paese. Di padri, i bossiani esplicitamente non parlano. Forse perché ne praticano quotidianamente gli insegnamenti.
Nunzia Palmieri
La Scorciatoia di Saba porta alla luce, in poche battute, un nucleo profondo e nascosto della vita politica italiana, chiamando in causa la linea orizzontale del fratricidio rispetto al movimento verticale dell’uccisione del padre, origine – ci dice Saba – di ogni rivoluzione. Saba lavora alle prose di Scorciatoie e raccontini a partire dal 1936, e ne prosegue la stesura durante il periodo di clandestinità passato a Firenze, durante la guerra, dove resta nascosto per più di un anno. É un periodo di segregazione e di solitudine disperata, seguito da un momento felice trascorso a Roma, dopo la Liberazione, quando Saba termina le prime Scorciatoiee le pubblica prima sulla «Nuova Europa», poi nel 1946, in volume, per l'editore Mondadori. Le brevi prose sono intessute di riferimenti alla storia d’Italia, che Saba legge sulla scorta di una personale genealogia culturale, a partire da Nietzsche e Freud, esplicitamente citati come numi tutelari della raccolta.
L’istantanea dedicata alla Storia d’Italia, che può apparire al primo sguardo come il frutto di un’intuizione momentanea, quasi una boutade, è in realtà il precipitato di una lunga riflessione che porta con sé tracce evidenti delle letture freudiane intraprese fin dagli anni Venti, poi approfondite durante le sedute con il dottor Weiss, primo allievo di Freud ad operare in Italia. La cura, iniziata dopo il lungo periodo di malattia che aveva costretto Saba a una quasi totale inattività, non era stata solo l’occasione per una chiarificazione interiore, una medicina per la nevrosi, ma aveva rappresentato un’occasione preziosa per approfondire la conoscenza della psicoanalisi, «una delle più grandi cose che sieno state scoperte in questo secolo». «Superavo con essa – scrive Saba - i conflitti abominevoli dell’epoca presente, e intravedevo qualcosa del mondo nuovo, in gestazione. Oltre alla profondità dell’Es, mi riappariva l’azzurro del cielo». Il nodo centrale dell'analisi consiste per Saba nel rapporto con il padre, che lo aveva abbandonato prima della sua nascita. Durante la cura, Saba viene sollevato dal timore, anzi dalla certezza, di essere vittima di una malattia congenita e inguaribile, e può ripensare alla propria vita come a un lungo itinerario di rimozione della figura paterna, vista fino ad allora attraverso lo sguardo deformante della madre tradita (Mio padre è stato per me l’assassino/fino ai vent’anni che l’ho conosciuto, recitano i versi dell’Autobiografia di Saba). L'immagine del padre diviene oggetto di una riflessione che non si limita all'ambito puramente privato, ma che coinvolge l'intera filogenesi dell'umanità e i fatti salienti della storia d'Italia. La prospettiva antropologica di Totem e tabù, l'acutezza dello sguardo spinto fino alle origini dei meccanismi che presiedono alla convivenza fra gli uomini affascina profondamente Saba, permettendogli di affinare gli strumenti teorici con cui ha poi tentato una lettura non convenzionale degli eventi politici che hanno condizionato la sua vita a partire dal 1938. Ma contesto in cui va letta la Storia d’Italia è anche quello letterario, se poco prima e poco dopo troviamo due Scorciatoie dedicate a Shakespeare e al Macbeth: dei personaggi shakespeariani ci si serve come veri e propri archetipi che rispecchiano la natura umana fuori dai confini temporali. L’idea del fratricidio ritorna con un richiamo allo spettro di Banco: «Macbeth non era un delinquente: era un passionale. Egli odiava Banco, come fratello concorrente; come compagno d’armi anche lo amava […]; fu il superstite accresciuto amore di Macbeth per Banco che creò lo spettro. Ma - ahimè – lo spettro sapeva quello che Macbeth aveva fatto; e la sua apparizione era minacciosa. Il delinquente non ha amore; e non vede spettri». Saba riprende il tema dell’omicidio “orizzontale” del fratello, fermandosi sull’immagine ossessiva del rimorso incarnato dal fantasma. Come molti degli eroi moderni, Saba sente una parentela spirituale con il personaggio perseguitato dal senso di colpa, incapace di un gesto definitivo e incapace di rispecchiarsi nella figura del vendicatore senza rimorso, rimanendo un uomo diviso, estraneo a se stesso, uno che ha rinunciato all'illusione che i gesti estremi, le decisioni politiche, la vita stessa possano offrire, quale estrema forma di risarcimento, il miracolo di vedere restituita in uno specchio fedele un’immagine a figura intera di noi stessi o del nostro paese.
Riccardo Panattoni
È uno strano paradosso quello che sembra emergere da questa visione dell’Italia che Saba ci propone. In fondo la caratteristica portante delle vere rivoluzioni non è mai stato il parricidio, che quando è avvenuto, anche nella sua forma più cruenta, ha sempre comunque mantenuto un valore prettamente simbolico, quanto piuttosto il fratricidio. È lo scannarsi tra fratelli che fa realmente grondare sangue nei moti rivoluzionari. Eppure qualcosa di vero, per quanto riguarda l’Italia, permane ugualmente in questa raffigurazione di Saba. Forse gli italiani non hanno mai fatto vere rivoluzioni perché non si sono mai realmente scannati tra di loro, hanno solo fatto finta, è sempre stata soltanto una messa in scena, anche questa una forma simbolica, per far vedere al padre quanto erano bravi.
Nel frattempo qualcosa è cambiato; il padre, quel padre che non è mai stato ucciso dai figli, è morto di vecchiaia. Prima di morire tuttavia, come ogni buon padre, ha redatto il proprio testamento, lasciando in eredità la promessa che dopo la sua morte, un giorno, i figli lo avrebbero ucciso. Così, all’ombra di questa promessa di un padre eternamente buono, i fratelli hanno potuto continuare a fare finta di scannarsi giocando tra di loro. Tutto in questo Paese si è come fermato in una pura orizzontalità. I fratelli realizzavano finalmente il loro sogno di poter rimanere tali per sempre, avrebbero goduto eternamente di contrapporsi l’uno all’altro, lanciandosi apparenti sfide mortali. Certo, perché tutto questo si realizzasse fino in fondo, dovevano risolvere un piccolo problema: la presenza dei propri figli. Era necessario tenerli buoni, renderli inoffensivi, quasi inapparenti se possibile. Così, tutti insieme, hanno trovato la giusta soluzione. Hanno deciso di lasciarli morire d’inedia promettendo loro che un giorno, proprio loro e nessun altro, sarebbero riusciti a diventare padri.
Massimo Raffaeli
Non sarà un caso che uno dei proverbi italiani più longevi, fratelli coltelli, anticipi alla lettera o costituisca la premessa della celebre scorciatoia di Umberto Saba. Che il fratricidio, in Italia, sostituisca eternamente il parricidio è infatti la riprova di quanto insegnano gli storici e cioè che il dato di lungo periodo della cosiddetta identità italiana è il trasformismo, come in un palinsesto sempre rinnovato e tuttavia sempre uguale a se stesso: un delirio di immobilità, se vogliamo proprio dirla con un poeta che fu amico di Saba. Ne è riprova la medesima ossessione identitaria degli italiani che è pari alla nottola di Minerva o come tale si comporta. Chi ha davvero una “identità” non si preoccupa di averla, né, tanto meno, di cercarla. Ma è poi tanto augurabile, una “identità”, mi chiedo? Non dovrebbero bastarci, invece, i principi universalistici, quelli codificati dall’Illuminismo e sanciti dalla Grande Rivoluzione, oggi peraltro diffamati e conculcati, anzi ritenuti pericolosamente anacronistici? Volentieri si dimentica che l’“identità”, per vocazione etimologica, è gemella dell’idiozia: nella civiltà greca l’idiotès è l’escluso o autoescluso dalla comunità, è l’uomo che si appaga del suo privato e dunque è l’antipode del cittadino, il politès. L’unica identità accettabile, per me, è la critica permanente della “identità”. Né ho da aggiungere altro a quanto scritto, così lucidamente, da Stefano Levi Della Torre (in Zone di turbolenza, Feltrinelli 2003), il quale ha dichiarato di recente: “L’insistenza sull’identità mi sembra una forma di narcisismo idolatrico volto a proteggere dallo spirito critico le proprie abitudini mentali, valutate come indiscutibili. L’identità mi sembra non tanto intesa come un nucleo interiore, quanto, al contrario, come un guscio protettivo esteriore entro cui arroccarsi per proteggersi dal mondo e dalla storia”. Tutto il peggio che al momento ci è dato, qui come altrove, tutto il neo-tribalismo che reagisce e/o asseconda i processi di globalizzazione si annuncia fatalmente come contenzioso identitario.
Vedovamazzei
La madre di tutte le rivoluzioni si chiama Eva, prima donna, prima mamma, prima peccatrice.
Il suo gesto, mangiare il frutto proibito, è una rivoluzione mondiale e definitiva.
Il suo gesto, tradire la fiducia del padre, ha permesso a tutti la libertà di poter sbagliare.
La libertà di sbagliare è la più grande ed elevata forma di rivoluzione poiché stabilisce che ogni essere ha facoltà di mettersi nei casini.
A noi italiani interessa l’originalità e o unicità delle cose e non la verità delle stesse.
Le rivoluzioni si fanno là dove la verità non ha una qualità originaria.
Noi siamo come il testo dei Doors in the End: Padre ti voglio uccidere, Madre ti voglio fottere.
Non vogliamo le rivoluzioni vogliamo fottere.
Saba si sbaglia come tutti i poeti sensibili e intelligenti.
Anche lui pensava a suo padre come un assassino,
Le madri poi uccidono i bambini, il rivoluzionario è sempre un assassino.
La madre uccide il bambino, il padre uccide la madre, il padre si uccide.
Valerio Magrelli
Meteorologica è l’unica, vera
coscienza che noi abbiamo dello Stato,
immagine sgargiante di isobare
come panneggi sopra una nazione
circondata dal nulla.
Tutti i paesi intorno riposano nel buio,
terre indistinte, senza identità
né previsioni atmosferiche.
Il nostro, invece, trapunto
di segnacoli, vibra e brilla sul fondo
di un moto ondoso in aumento.
Sono a Isoletta San Giovanni Incarico,
autunno, un pomeriggio soleggiato,
mentre il treno risale arrancando
la snella silhouette della penisola:
faccio parte di un popolo devoto
a nubi, raggi, fulmini
attesi per domani.
Marco Belpoliti
Ma è davvero così? Gli italiani sono davvero fratricidi? Saba si dice sicuro della sua ipotesi. E in anni più recenti altri hanno allungato la lista: fascisti e antifascisti, comunisti e anticomunisti, berlusconiani e antiberlusconiani, e via a seguire nei prossimi decenni. Qualcuno ha persino letto il terrorismo degli anni Settanta, in particolare quello di sinistra, come un effetto della mai spenta vocazione fratricida del Paese. Tutte rivoluzioni mancate, dal Risorgimento alla Resistenza, che i comunisti definivano il Secondo risorgimento, fino ad arrivare, sempre secondo alcuni, a quella brigatista. La lettura che il poeta triestino dà del nostro paese è falsata dall’interpretazione freudiana di Totem e tabù, dall’immagine dell’orda primitiva e dei fratelli che si uccidono tra loro, dalla figura onnipresente del Padre. La verità è l’Italia non ha mai avuto dei veri padri, oppure dei nonni, ma solo degli zii, come ci ha spiegato Giorgio Manganelli, dei fratelli della Madre. Non c’è il Padre da uccidere e cui succedere. L’Italia è un paese dominato dalla Grande Madre mediterranea, come lo psicoanalista junghiano Ernst Bernhard ha scritto in un suo celebre testo. I fratelli, se si sono uccisi tra loro, è stato solo per conquistare un posto privilegiato tra le poppe della Madre, per essere i suoi prediletti. La rivoluzione non è mancata, ma assente proprio per la prevalenza della Madre. La Grande Madre è precristiana e pagana, quindi indifferente al mito rivoluzionario. La rivoluzione è stato davvero un mito, e forse lo ancora, un mito maschile, il mito dominante di due secoli: XIX e XX. Un mito trasmesso dalla borghesia agli altri ceti sociali. Con la Madre non si fanno rivoluzioni, ma solo riti.