Eva Marisaldi al Pac / La grazia del provvisorio
Iniziamo col dire che è ora di riguardare questa generazione di artisti italiani che ormai hanno passato i cinquant’anni e che è importante che vi contribuisca un’istituzione come il Pac (Padiglione d’arte contemporanea) di Milano. Ma soprattutto è importante perché sono artisti che, pur avendo alcuni fatto parte di raggruppamenti all’inizio abbastanza identificabili, non hanno dato vita a tendenze omogenee e non hanno assecondato un mercato, un “sistema”, che si basa su un’idea di riconoscibilità iconica. Certo non è stato un caso. Per dirne una: dopo l’Arte Povera, dopo la Transavanguardia, che vuol dire dopo le strategie e le posizioni forti, a loro modo dogmatiche, comunque enfatiche ed escludenti, l’idea era quella della ricerca di altre modalità di intervento, di smarcamento e di libertà innanzitutto, a costo dunque di “debolezze” e di incomprensioni, anzi usate come smarcatura. Non è stato così anche, su altri piani, per il Pensiero debole, appunto, o per il Settantasette, inteso come movimento di protesta?
Dunque dopo Luca Vitone, ecco Eva Marisaldi, scelta non scontata ma rispondente a quanto appena detto.
Marisaldi è persona e artista deliziosa, gentile e di grande sensibilità, ma anche determinata e capace di durezza. È stata un prodige fin dall’inizio degli anni Novanta, punta di diamante di una situazione bolognese molto viva. Espose molto giovane in gallerie di punta come Guenzani di Milano e Minini di Brescia e in gallerie e mostre internazionali. Eppure non era facile neppure allora: fili d’erba nelle connessure del parquet, tessuti ripiegati, tappeti avvolti, abiti appesi con foglietti nelle tasche, grandi fotografie appoggiate a parete con misterioso sonoro da sentire in cuffia… Evidentemente c’era una curiosità nei confronti di un modo di fare che si sentiva come nuovo, nascente. Poi hanno trionfato altre cose, questa curiosità si è smorzata, ritirata in ambienti più ristretti. Ma Marisaldi non solo ha continuato, ma anzi ha affinato e messo a fuoco il suo lavoro. Aveva esposto alla Biennale di Venezia del 2001 delle tavolette lavorate a bassorilievo proprio come quelle che danno il titolo alla mostra odierna e così via.
A proposito, il titolo della presente mostra è bellissimo, trovo: Trasporto eccezionale; semplice ma efficace per la polisemia di entrambi i termini che lo compongono e della loro unione. L’arte è trasporto, sia nel senso di moto emozionale, di dedizione, sia in quello di spostamento, di trasmissione – e qui anche in quello di trasposizione da una tecnica all’altra, dal disegno (Marisaldi pare essere ancora una di quegli artisti che prendono appunti disegnando) al bassorilievo o altra forma. È senz’altro un trasporto eccezionale, che significa sia straordinario che un’eccezione. Ma, a dispetto dell’uso solito di questa espressione – ma di cui, evidenzia acutamente Elena Volpato in catalogo, è evocato il procedere lento dei convogli sulle strade –, qui non è eccezionale per le dimensioni, per la quantità, ma per la qualità, per il senso. Ma quale senso?
Marisaldi ci accoglie all’entrata della mostra con un’opera che si intitola Welcome e consiste in tre bei nastri mossi da bracci meccanici in nostro onore. Giocosa, ma anche indicativa: una questione di sincronia, di sintonia. Accanto, com’è giusto, per dare il tono dell’intera mostra, un’opera chiave, un dittico: a sinistra una grande fotografia di glicini e a destra un video d’animazione in cui si vede un uomo che dondola su se stesso. Questo dondolare è una metafora: un (altro) movimento semplice, ripetitivo, in sé inutile, ma che, fisso sul posto, è come un rivendicare un proprio spazio, dice l’artista, e con la sua in-sistenza, se mi si permette il trattino, finisce quasi con il lasciare un’impronta, stavo per dire un disegno. Il glicine, da parte sua, è una pianta che fa lo stesso, inoltre, precisa l’artista, si vede moltissimo durante la fioritura, poi è come se sparisse. L’arte, e l’artista, come li intende Marisaldi sono dunque qualcosa del genere.
Ma c’è qualcosa di più, in due direzioni: lo spunto del video è una persona reale e di essa l’artista racconta che una volta era intervenuto “autorevolmente” – è l’avverbio che usa Marisaldi – per sedare una lite tra due signore. Due direzioni, dicevo: la prima è il gesto dell’uomo reale, il suo altruismo – versione del “relazionale” reso famoso da Nicolas Bourriaud –, la sua capacità e volontà di giudizio e di intervento; la seconda è il fatto che Marisaldi prende dai comportamenti, dal quotidiano – nel senso di Michel De Certeau chiaramente – le metafore dell’arte e dell’essere. Questo ha sempre fatto e costituisce la sua poetica e la sua politica. Lo fa con una finezza e con una giustezza che personalmente trovo indiscutibili e con una instancabilità e una ricchezza di sfaccettature e di osservazioni che ne fanno un’artista unica. A volte è il comportamento di una o delle persone, un’altra sono animali o piante, a volte è una frase notata in una lettura, altre sono degli oggetti, dei luoghi osservati durante un viaggio, le occasioni insomma sono quelle di una persona che osserva ciò che le sta intorno – lo sottolineano tutti gli autori in catalogo: De Cecco parla di sguardo, Arabella Natalini di ascolto – e ne coglie la metafora per tutti, per la “sproporzione della fatica di sopravvivere”, "per risolvere problemi non estetici", dice a proposito delle scene raffigurate nelle formelle di Trasporto eccezionale, ma anche la radice liberatoria.
Poi la mostra è complessa, segue l’articolazione dello spazio espositivo, ma una guida ci aiuta a seguirne tutto il percorso. In essa, generosamente Marisaldi ci introduce lavoro per lavoro, interrogata da Emanuela De Cecco – la quale in catalogo ripercorre a sua volta in dettaglio l’opera e la personalità dell’artista – sulle singole opere esposte sala per sala, da dove prendo le citazioni dalle parole di Marisaldi.
Altri esempi che mi hanno colpito in mostra tra le 36 opere esposte. L'uso della candeggina per dipingere, corrodendo dunque, scene di ospedale per malati di Alzheimer, "altra faccia della medaglia di tutti i dispositivi di memorizzazione di cui siamo circondati" (Democratic Psychedelia, 2011). Alcune scene del film Olympia di Leni Riefenstahl rifatto con sassi al posto delle persone (Gestein-Gestalt, 2012): "La tecnica stop-motion richiede una prestazione fisica notevole e una grande concentrazione per evitare di buttare ore di lavoro per una stupidaggine".
Un posto particolare nella mostra hanno le ultime opere, le più recenti riguardanti l’Africa e, ancor più curiosamente, la presenza cinese in Africa. Della prima fa parte la sala al primo piano allestita come un pulmino, con nove sedute e un video che raffigura uno strano viaggio virtuale per improbabili strade africane e che, dice l’artista, dovrebbe in realtà partire solo quando le sedute fossero tutte occupate, come quei pulmini in Africa che partono appunto solo quando sono pieni, per cui non hanno un orario stabilito, bensì un’altra idea di tempo, e evidenziano che comunque abbiamo bisogno degli altri per “partire” (Progress, 2018). Della seconda è esemplificativa un’altra stanza con una tenda di quelle composte di fili di palline che riporta l’immagine di una strana costruzione, una pagoda in piena savana africana, simbolo, dice l’artista, di come “i cinesi in qualche modo riescono a fare affari con l’Africa su basi alternative all’Occidente” (Hope, 2018).
Ogni opera ha una storia, sempre affascinante e significativa, ma, tornando alle questioni iniziali, perché Marisaldi traspone le sue osservazioni in materiali così poveri, in oggetti così poco invitanti per il collezionista, tutto fatto a mano, con tecnologia low, un understatement che il mercato odia anche quando non lo dice? Il “quotidiano”, certo, ma un bel video proiettato su un’intera parete in un black cube fa tutto un altro effetto… per dire! L’enfasi, lo “spettacolo”, comunque la “visibilità”, la competizione, no? Da un lato è per ribadire il legame con il reale, con la sua dimensione effettiva, con la bistrattata questione – e si capisce perché – del legame tra arte e vita, o della linea di confine tra le due, scrive Diego Sileo in catalogo; dall’altro è per quelli che l’artista chiama l’“iperfluo”, contrapposto al superfluo, e la “grazia”, dice espressamente Marisaldi, che “ha a che fare con la spartanità, il provvisorio, l’opposto del leccato”. Perché “la realtà non imita l’arte, ma l’arte è potente e può essere negativa in certi casi, quando lavora sulla provocazione. Gli artisti che lavorano sulla provocazione oggi sono in difficoltà”, ha giustamente affermato in un’intervista di qualche anno fa. Una riflessione che vale la pena fare tutt’oggi: lo “spettacolo” non è solo quello pop…
Il catalogo che accompagna la mostra, edito da Silvana Editoriale, 224 pagine, contiene testi degli autori già citati – Diego Sileo, Emanuela De Cecco, Arabella Natalini, Elena Volpato – e una ricca documentazione di immagini di opere e installazioni.