Troppa poca malinconia / La solitudine non esiste
È successo che mi sono ritrovato all’improvviso in un cocktail party, in una casa sontuosa, con la servitù filippina (mi sono informato) che insisteva a darti da bere del vino stupendo dentro bicchieri bellissimi. Negli angoli, tutti gli angoli, per ogni tipologia di oggetto c’era un’intera collezione, affascinante. Dalle grandi finestre si vedeva persino una collezione di giardini, un parco suddiviso in tante parti ciascuna tipizzata con piante e arredi caratteristici. Alle pareti pezzi d’autore, di grandi autori. Un paio di opere già le conoscevo, dai libri. Qualche chiacchiera di nessuna consistenza con alcune delle tante persone, mi spostavo come stordito, l’arredamento era completato da un certo numero di volti piuttosto noti. Lo stordimento veniva soprattutto dallo sbigottimento per me stesso: che cosa diavolo ci facevo lì?
Me ne sono uscito – il vino era davvero buonissimo – ripetendo tra me che no, così non va, lì c’era troppo poca malinconia. C’è chi pare vivere in un continuum di serenità complessiva, in uno stato di appagamento globale. Persone che vivono come in un microclima ideale staccato dalla realtà che li circonda. Lì c’è il denaro che aiuta parecchio, ma le atmosfere interiori, si sa, hanno bisogno anche di molto altro. Ci vuole un’energia speciale per dimenticarsi del resto del mondo, cioè della vita altrui.
Altra cosa è vivere in una corrente continua di inciampi e ostacoli e fatiche che accomuna la gran parte della gente. Pochi possono rifugiarsi in un’isola felice, anche perché in quell’isola felice bisogna saperci stare, bisogna sapere come si fa a non empatizzare con gli altri, meglio, a empatizzare solo con se stessi. Per starci devi tagliare fuori il mondo, per l’appunto.
C’è una foto di Paolo Villaggio (qui) che nei giorni della sua scomparsa (3 luglio 2017) ha continuato a girare nelle diverse testate dell’informazione ed è poi diventata l’immagine di traino di un’intera collana dedicata ai suoi libri e film. È un’immagine dolcissima, in cui l’attore sembra rientrato in sé, dopo i tortuosi e pericolosi viaggi nello spettacolo, pare riunirsi con i suoi propri sentimenti profondi, la pietas, la misericordia, la semplicità. La sua capacità di esercitare il più lucido esame di realtà e di scatenare la più feroce torsione sarcastica sugli uomini ridicoli del nostro tempo, si sono sempre accompagnate (di sicuro anche grazie all’understatement genovese) alla sua timidezza più pulita, fatta di ritegno, di senso di giustizia e di misura. In quell’immagine c’è un sorriso appena affiorante da sotto la barba, lo sguardo è di un momento di gioia mite, di mansueto appagamento. E in quello sguardo, secondo me, c’è tutto Paolo Villaggio, non l’attore, ma proprio l’uomo, con la sua evidente grande intelligenza e capacità di gentilezza umana. Era la malinconia a marcare la sua percezione del mondo, ma della malinconia di Villaggio non si è parlato molto, anche se tutti l’hanno grandemente amata. Quello era il sentimento che lo qualificava. Le miserie e le pochezze dei suoi personaggi, le loro debolezze e fragilità, le imbranatissime esplosioni di vanagloria, tutto era come retto dal fil di ferro psicologico della sua malinconia. Il ridicolo del mondo raccontato con energia e tenerezza.
Già, la malinconia. La più mite delle due gemelle tristi, depressione e malinconia. Naturalmente si assomigliano, ma sono distanti nella loro diversa accezione del misterioso male da cui provengono. Freud provò a definirla in Lutto e malinconia (1917), ma senza disperdere completamente le zone nebbiose della sua natura. La depressione ti annichilisce, mentre la malinconia, come dice un noto dizionario, è “uno stato d’animo doloroso ma calmo, caratterizzato da una certa dolcezza” (Garzantilinguistica.it). Nel confronto serrato quotidiano che abbiamo con tutte le diverse entità esistenziali (aspirazioni e realizzazioni, malanni e rasserenamenti, debiti e risarcimenti…) sono le difficoltà che via via emergono che ti ricordano costantemente chi e dove sei. La malinconia in particolare, con la sua mitezza, ti ricorda che sei un essere pieno di storture e con poche facilità. Il malinconico non dimentica mai di essere appeso allo stesso filo che lo lega a tutti gli altri.
Il punto è che le nostre esistenze sono sempre più orientate verso comportamenti di distacco, di allontanamento. Persino i legami personali tendono a sottostare a delle (nuove) leggi che determinano le nostre relazioni ad ogni livello: sentimenti compresi. Il problema non è individuale, le singole persone vivono come possono i loro sentimenti. È il sentimento collettivo che va considerato. Un sentire collettivo che deve molto a una socialità che è nelle mani della rete anche nelle sue dinamiche più sofisticate.
In modo inquietante il sociologo americano Rob Horning ci racconta del rischio oggettivo di vedere compromesse le nostre capacità di autodeterminazione come individui, proprio come nelle distopie classiche della fantascienza. C’è qualcosa che ci sta scollegando, che si frappone sempre più tra noi e la nostra possibilità di osservarci e decidere come reagire alle situazioni della vita. Forse presto, dice Horning, “dovremo cercare rifugio in quell’evocazione del «beato isolamento della vita intrauterina» come lo chiamava Freud – il «totale narcisismo» del sonno, dove i nostri gadget non possono raggiungerci” (Facebook e la scomparsa del Sé).
Sembrano cose vecchie come il cucco, roba da Manoscritti economico-filosofici di Marx, fantasmi adorniani che ritornano, cibi già mangiati e stradigeriti. Eppure i ragazzi più giovani sembrano andare – e con una certa allegria – incontro a un destino di, passate l’iperbole, perdizione e assomigliano sempre più a quei pinetti senza radici prodotti (esagerato dire coltivati) per l’ espace du matin natalizio, quegli abetelli usa e getta, alberi in tutto e per tutto, performanti, che essendo pressoché senza radici quasi non si meritano di essere conservati, e di fatto sono destinati a morire subito, cacciati tra le ramaglie della discarica per lasciare il posto ad altri abetelli senza radici che verranno l’anno prossimo. Insomma, delle povere creature che sono solo la loro prestazione. Succede nella società della “libertà costrittiva”, dove lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato (Riccardo Panattoni, Una stanchezza che cura).
Ma noi abbiamo la malinconia, che è molto molto utile perché ti ricorda lo spleen della vita. Ben inteso: la malinconia dell’individuo è un dato biologico provocato da alterazioni del parenchima e del funzionamento del cervello che ancora non si riescono a spiegare, come ha mostrato Jean Starobinski nel suo fondamentale L’inchiostro della malinconia (Einaudi 2014). Ma che sia un sentimento “culturale” – e dunque sociale – è altrettanto plausibile: lo sapevano Dürer (Melancholia I, 1514), ma soprattutto Robert Burton che l’ha tematizzata con l’Anatomia della malinconia (1621). I romantici ne fecero un “valore”. Lo storico dell’arte Aby Warburg la incluse nel suo Atlante di Mnemosyne (1929). Però del “sole nero della malinconia” (Nerval) credo che Émile Durkheim abbia detto la cosa socialmente più rilevante:
“È erroneo credere che la gioia pura sia lo stato normale della sensibilità. L’uomo non potrebbe vivere se fosse completamente refrattario alla tristezza. Tanti dolori vi sono, cui ci si adatta solo amandoli e il piacere che vi si trova ha necessariamente qualcosa di malinconico. La malinconia è patologica soltanto quando prende troppo posto nella vita, ma è pure patologico che essa ne sia completamente esclusa… Ciò che è patologico per gli individui può essere normale per la società. La nevrastenia è una malattia dal punto di vista della fisiologia individuale; ma cosa sarebbe una società senza nevrastenici e malinconici? Essi hanno un ruolo sociale da svolgere.” (Il suicidio, 1897, trad. italiana Rizzoli 2014)
Quanta gioventù si trova chiusa nel cul-de-sac tra anestetizzazione social e le fatiche del vivere? In queste circostanze avverse a molti millennials capita troppo spesso di essere tristi non perché riflettono sui destini generali e sulla vita, ma perché le loro performances non sono abbastanza soddisfacenti, ed è così che si sottomettono a un’offerta per una domanda che non è la loro, e ricevono da qualcuno ciò che non hanno mai chiesto. Che gli (ci) stiano rubando l’anima per davvero?
Le analisi sul depauperamento cognitivo dei più giovani si sprecano (ormai le opere d’arte si spiegano con la realtà aumentata se no non le capiscono), c’è un concreto rischio che anche i ragazzi, i bambini, siano allevati – a prescindere dalle buone intenzioni dei genitori – per compiere una sola azione, per diventare esseri che, come i pinetti natalizi, mai cresceranno in un vero giardino equilibrato e stabile, addestrati (esagerato dire cresciuti, educati) a vivere a basse temperature culturali, a sangue freddo, senza la spinta di un calore umano necessaria a generare evoluzione.
Ora, se è vero che rischiamo un crescente e incontrollabile “distacco del nostro sé”, ciò che ci rimarrebbe sarebbe la sola forza muscolare da esercitare tra noi. Ci confronteremmo a suon di pulsioni, ci tireremmo addosso gli istinti. Se perdessimo la capacità di “intelligere”, di riflettere e giudicare i nostri comportamenti, ci resterebbe solo una rudimentale physis a guidarci nel produrre le nostre povere performaces quotidiane: faremmo violenze di ogni tipo, perseguiremmo soprattutto i primati sportivi, raggiungeremmo i target economici, saremmo tutti competitività-e-competitors, agiremmo con le sole quantità. E il distacco cinico proprio dell’economia regnerebbe sovrano. E il cinismo spezzerebbe il legame con la realtà.
Ecco perché abbiamo bisogno della malinconia: se il cinico spezza il legame con la realtà, il malinconico lo rinsalda. La malinconia qualifica il sentimento umano, in questo sta la sua forza. Paolo Villaggio lo sapeva.
La solitude ça n’existe pas diceva il focoso Gilbert Bécaud picchiando sulla tastiera e urlando quanto il mondo fosse idiota e non vedesse che la solitudine non esiste, la depressione non esiste, la malinconia non esiste. Prendeva in giro il mondo dei sicuri di sé, degli sbruffoni senza paura (magari futuri azionisti di Google o Amazon), di quelli che la solitudine e la malinconia sono cose da bambini frignoni, tutti quegli “eroi del sé” che sanno come si fa. Sei sempre tu quello che ci cade dentro, non loro. Era il 1969. Bécaud se ne è andato nel 2001, ma non la solitudine né la malinconia, e nemmeno quelli che le negano.
La prossima volta al cocktail party ci andrò, ma cantando a squarciagola
Peut-être encore pour quelques loups,
Quelques malheureux sangliers,
Quelques baladins, quelques fous,
Quelques poètes démodés.
Y a toujours quelqu'un pour quelqu'un,
Y a toujours une société.
Non, ce n'est pas fait pour les chiens,
Le Club Méditerranée.
La solitude, ça n’existe pas.
(La solitudine non esiste / Forse per qualche lupo / per qualche cinghiale inferocito / qualche buffone, qualche pazzo / qualche poeta fuori moda. / C'è sempre qualcuno per qualcuno, / c'è sempre una società. / No, non è fatto per i cani / il Club Méditerranée. / La solitudine non esiste.)
P.S.: Gilbert Becaud ha scritto anche L’indifference, altre riflessioni importanti.