Latella: Il male sacro
C’è l’eco di molti sud del mondo, della taranta, del furore bacchico, dell’epilessia. Il male sacro è un testo scritto negli anni cinquanta da un autore umbro oggi dimenticato, Massimo Binazzi, musicologo, regista, fondatore con Sergio Ragni della compagnia Fontemaggiore di Perugia, primo nucleo del futuro teatro stabile umbro. È una pièce lunga, complessa, un viaggio nella storia d’Italia vista da un paese calabrese, dal 1921 al 1945, con il fascismo, il popolo contro la fame, le guerre coloniali e quella di Spagna, l’orrore scatenato da Hitler e Mussolini, la resistenza; ed è la storia di una famiglia di arricchiti, i conflitti interni, l’attesa del figlio maschio che fa trascurare le ragazze, i sogni traditi, la lunga lontananza del padre guerriero, il ritorno violento, gli affetti e gli odi, qualcosa che rimanda all’Orestea, la madre che con l’amante uccide il padre, i figli che lo vendicano. C’è il furore del corpo, quella malattia dagli antichi assimilata al dono della profezia, quel non controllarsi, quel contorcersi, l’epilessia. È un testo in cui il neorealismo diventa simbolismo ed espressionismo, in cui il vino ha il colore e il sapore della follia e del sangue, in cui “Dio creò i cieli e Dioniso la terra. Dioniso creò la Calabria a sua immagine: femmina e maschio”; in cui i sessi si confondono e così i sentimenti, l’odio e l’amore.
È una pièce che per questi motivi non poteva non interessare un regista complesso, amante della parola e dell’azione scenica, dell’ambiguità rivelatrice, come Antonio Latella. Ha allestito Il male sacro di Massimo Binazzi (1922-1983) l’estate scorsa, al Festival di Spoleto, con la produzione dell’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico” e del Teatro Stabile dell’Umbria, e ha ripresentato di recente il lungo spettacolo, più di sei ore, in due parti in serate diverse e in una maratona unica, al teatro Morlacchi di Perugia.
Questo allestimento è interessante, in un momento in cui davanti all’emergere di una nuova drammaturgia assolutamente contemporanea alcuni registi tornano a fare i conti con quella, abbastanza trascurata, del dopoguerra e degli anni immediatamente successivi (Il male sacro è scritto nel 1959 e pubblicato la prima volta da Einaudi nel 1963; di recente è riemerso un copione poco noto di Luca Ronconi e in molti sono tornati a lavorare su Giovanni Testori). Ma soprattutto è importante perché ha coinvolto allievi dell’ultimo anno dell’Accademia d’arte drammatica, oggi diplomati. In scena Latella porta diciassette tra giovani attrici e giovani attori, nelle parti principali del testo e in funzione di coro.
Lo spazio dell’azione è semplicissimo: in un angolo di un praticabile lungo e più stretto sul lato rivolto verso il pubblico, chiuso da pannelli bianchi, c’è solo un trespolo, di quelli su cui vengono fatte esibire le belve nei circhi. Su di esso qualche elemento di costume o accessorio. Sul fondo bianco è proiettata l’immagine di una giostra di cavalli, che girerà o si bloccherà seguendo le emozioni suscitate dalle situazioni. Le luci di Simone De Angelis accompagnano le atmosfere di questa saga familiare con tonalità chiare, ombre e chiaroscuri, per sottolineare con l’uso di lampade stroboscopiche i momenti più convulsi.
Latella ha dedicato quest’anno alla pedagogia (ma questa è una sua linea di lavoro perlomeno da quando è stato direttore della Biennale Teatro di Venezia). Dopo aver firmato La locandiera di Goldoni ha creato Wonder Woman con quattro attrici giovanissime, uno spettacolo entusiasmante. Poi ha sviluppato la Bottega Amletica Testoriana, con otto giovani attrici e attori impegnati su tre Amleti dello scrittore lombardo. Quest’ultimo non era uno spettacolo ma radicalmente un laboratorio che esplorava ogni tipo di possibilità di approccio a tre opere che hanno per protagonista il principe di Danimarca e i suoi rapporti con la madre e con l’ombra del padre (e di argomenti simili si tratta in quest’ultima creazione).
Il male sacro è un laboratorio, ma con la verifica di uno spettacolo, dal quale risalta la maturità degli interpreti giovani. Continuerà Latella la collaborazione con l’Accademia d’arte drammatica, in particolare con il Biennio di recitazione, nell’opera meritoria di avviare nuovi talenti verso una recitazione assolutamente contemporanea, che confronti i testi con i corpi, i suoni, le attese del ventunesimo secolo.
Il male sacro inizia con un attore che interpreta una ragazza, Mara, figlia di Pietro e di Kyria, sorella di Rosaria, Xenio e dell’ultimo arrivato Alexis. Inizia dalla fine, dopo l’omicidio del padre e l’uccisione della madre ma anche il suicidio di Alexis. E sarà un lungo flash back avviato da quella figura ermafrodita, o meglio un viaggio sciamanico, misterico, nel paese dei morti, chiamati ad agire quello che fecero come turba, come paese della memoria, come concrezione di rapporti avviluppati, mai sciolti. Nella situazione iniziale irrompono gli altri attori e attrici in funzione di coro danzante: subito il dionisismo (astratto, stilizzato) invade la scena, con il desiderio dei corpi, il senso del peccato, le relazioni ambigue in forma di danza. E così avverrà in altri momenti dello spettacolo, affidando alla lingua dei movimenti, dei gesti, degli incroci fisici il senso, l’incombere del complesso o della catastrofe, approfondita poi con le parole, con gli atteggiamenti, con le fughe, con le intersezioni tra le figure. Il testo non si risparmia nulla, nel tentativo di reinventare una lingua per la scena, che sia storica e insieme interiore, analitica nel senso di antropologica, e mitica. Scriveva Ruggero Jacobbi, che Binazzi “in questa storia di amplissimo respiro” era andato incontro a pericoli “di astrazione, di retorica, di vuoto lirismo” e che non li aveva tutti, sempre, evitati. Continuava così l’illustre critico, nell’introduzione al volume pubblicato da Morlacchi editore contenete questa pièce e un’altra dello scrittore fondatore di L’informativa 1965, regista di spettacoli che portarono in Italia maestri del teatro dell’assurdo e di un primo allestimento, lodatissimo, del Calapranzi di Pinter: “certo [Binazzi] li ha travolti con la carica del suo impeto di dialogo e di canto, che spinge avanti continuamente questa vicenda emblematica e quasi sempre riesce a renderla plausibile, per magia di parola, per intuizione scenica, per passione della verità interiore dei personaggi, per densa sensualità che aderisce alle cose quotidiane, per rarefatta tensione poetica che viceversa le sfuma e riempie il silenzio di un rumore continuo di vento, di pioggia, di cicale estive, di sonagliere, di campane”. E aggiungeva la chiave definitiva per comprendere il testo: “incerto tra il dramma, il romanzo e il film, Binazzi ha optato per una specie di poema tragico che ne assorbisse tutte le dimensioni e le possibilità”. Queste parole calzano perfettamente alla poetica teatrale di Antonio Latella e al suo spettacolo.
Latella da tempo sfonda i confini tradizionali della scena, proponendo tempi, durate, che sfidano la percezione dello spettatore, ammodernando i testi, spingendoli fuori dai confini esausti della drammaturgia canonica (e pure di quella spesso troppo concentrata di oggi), trasformandoli in rituali contemporanei. Dilata la scrittura per la scena con affondi insieme archetipici e quotidiani, senza rispetto per molte convenzioni. Con Il male oscuro torniamo, da una parte, al rigore di Santa Estasi, il lavoro che creò con la scuola di perfezionamento per attori di Ert a partire dalle tragedie del ciclo tragico degli Atridi, la storia di Agamennone ucciso dalla moglie Clitemnestra al ritorno da Troia e della vendetta dei figli Oreste e Elettra. Dall’altra assistiamo a una lettura delle vicende tragiche e mitiche che si affida oltre che alla parola alla danza, una danza spesso di possessione, a una colona sonora che fa irrompere i generi musicali più vicini a noi, a relazioni intense, fisiche, tra gli attori, che spesso fanno sfumare le differenze di genere, in danze di ‘tribù’ che evocano il disfarsi delle vecchie appartenenze e la ricerca di nuove possibilità alla relazione umana. L’epilessia, qui, diventa malattia rivelatrice, rifiuto e ricerca di altri rapporti, scavo nella solitudine e grido contro un mondo sentito come insopportabile. La vicenda familiare, la scansione storica acquistano risonanze mitiche, con lo stagliarsi delle figure del diverso, del cantore epico, del padre padrone, della madre infelice, dei figli che si identificano, a seconda del carattere, ora nell’uno, ora nell’altro dei genitori, dell’amico amante. Inoltre una ricca costellazione di altri personaggi popola la vita del paese calabrese del primo Novecento, segnato dall’epoca, il fascismo, con atti di viltà, di conformismo, di vero e proprio odiosa prevaricazione o semplicemente di radicata difesa di interesse. E tra tutti risalta la diversità, con la figlia Xenio che vorrebbe offrire le terre ai diseredati rivoltosi e viene uccisa, con Mara toccata dall’epilessia, concentrata sulle sue letture, e Alex, l’erede tanto aspettato dal ‘maschio’ Pietro, che si rivela fragile, musicista, femmineo, amatissimo ma allo stesso tempo inadeguato alle aspettative dell’ambiente. Con un corredo di popolane accudenti, maghe, prostitute, che danno quel colore necessario a un testo che voleva essere teatro-mondo.
I giovani attori e le giovani attrici sono eccezionali in questa impresa, capaci di affrontare anche un incidente che ha funestato la prima recita, interrotta più o meno a metà per un malore in scena di una delle interpreti del coro (e sembrava un espediente della regia per arrivare all’intervallo). Il giorno dopo hanno ripreso perfettamente, narrando la parte che si era persa e andando verso il crudo finale dell’opera, quando risuona più volte lo sparo della pistola, mentre il paese è percorso dagli scherani fascisti e annegato in una pioggia che lo sta simbolicamente corrodendo. Con la giostra che ferma il suo vorticare.
Merita nominarli tutti i protagonisti di questa sonata di fantasmi, di questa seduta di dionisismo malato, visionario, fantasmatico: Ilaria Arnone, Jacopo Carta, Vanda Colecchia, Eny Cassia Corvo, Leonardo Della Bianca, Chiara Di Lullo, Leonardo Di Pasquale, Luca Ingravalle, Fabiola Leone, Paolo Madonna, Federico Nardoni, Fausto Stefano Mario Peppe, Maria Vittoria Perillo, Domenico Pincerno, Michele Scarcella, Maria Grazia Trombino, Teresa Vigilante.
Le fotografie di Andrea Veroni sono state scattate al Festival dei Due Mondi di Spoleto.