Ballare, e non solo / Lettera da Parigi
Paris Bal Musette: così scandisce, seducente, una guida giapponese al Pont Neuf, che promette di far vivere ai suoi connazionali la “real Paris experience”, che include la visita al Café des Deux Moulins in rue Lepic 15, all’angolo con rue Cachois. Si tratta del set del Favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet, panacea dei visitatori nipponici, che spesso ricorrono a un servizio di consulenza psicanalitica messo su da intraprendenti connazionali, quando scoprono che la metropoli francese non è all’altezza del nitore proposto negli anime, inclusa l’immortale serie di Lady Oscar (in originale Berusaya no Bara, ossia Le rose di Versailles), e garantito dagli infiniti film sulla Ville Lumiére. Fuori dai musei è il ballo dei mitra, per gli infiniti soldati che l’epoca post-attentati registra nei luoghi turistici, nei musei, nelle vie dello shopping. L’idea di vivere nella “ville bunker” è oggetto di interventi satirici sui muri, dove improvvisamente compaiono dal nulla opere di street artists, che non necessariamente fanno graffiti, ma anzi spesso preferiscono i piccoli formati fotografici incorniciati, da esporre in strada, prima che arrivino i pulitori a rimuoverli.
Il ballo è il filo conduttore di alcune mostre notevoli. Fino al 25 febbraio la Fondation Cartier celebra Malick Sidibé, scomparso nel 2016: il maestro di Bamako era stato rivelato al pubblico europeo proprio in questi spazi nel 1995. Ora, dopo un anno dalla morte, brilla il suo notevolissimo talento nel raccontare la quotidianità di Bamako vista nei miti popolari. Mirabili ritratti di elegantoni yè-yè, di fans di James Brown, di imitatori maliani dei Jackson Brown si uniscono a scatti memorabili, come quello intitolato Nuit de Noël, con un fratello in abito da sera che insegna alla sorella, scalza, i passi fondamentali di un ballo di sala. Il titolo Mali Twist deriva da una canzone del 1963 di Boubacar Traoré; perfetto soundtrack di una magnifica avventura visiva, che illustra i riti dei giovani maliani, ascoltatori di pop e rock nei locali, o sullo sfondo delle escursioni del sabato pomeriggio sul fiume Niger. La Fondation offre lo studio con il pavimento a scacchi usato dal fotografo, appassionato di optical e numerosi gadget per creare la propria fotografia in stile Sidibé. Sull’artista è disponibile un bel catalogo edito da Silvana, in relazione a una mostra, a cura di Laura Incardona e Laura Serani, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia nel 2010.
Altro giro altre danze, mesdames et monsieurs, al Musée d’Orsay con una notevole rilettura del mondo della danza di Edgar Degas rivisto attraverso il prisma del saggio perfetto di Paul Valéry, Degas Danse Dessin, uscito nel 1936 in una magnifica edizione da Vollard. Numerosi anni di frequentazione con il pittore, avevano offerto al poeta di La giovane parca uno sguardo acuto sulla genesi di una figura di riferimento dell’immaginario moderno. Nei numerosi anni intercorsi dalla progettazione alla scrittura, l’autore ha indagato acutamente i meccanismi del movimento, inserendo nei suoi Cahiers anche immagini di sé e di altri. L’esposizione è specialmente rilevante dove avvicina gli studi sul corpo delle danseuses, insieme agli studi sugli animali, meduse e cavalli, che hanno suggerito a Degas ricerche ardite sulla rappresentazione. Colpisce, specialmente, un breve frammento del film di propaganda Ceux de chez nous, girato nel 1915 da Sacha Guitry in risposta alle bordate prussiane sulla Germania centro della cultura mondiale. L’anziano Degas non volle essere ripreso, ma una cinepresa nascosta lo colse mentre nel pomeriggio faceva la sua passeggiata sui boulevards, che lo attraevano come i tram e gli altri moderni mezzi di locomozione.
Il fantasma della danzatrice esce con l’opera dell’artista per sempre dal mito di Giselle e va all’epoca moderna, facendo da ponte tra diverse esperienze estetiche. Al Petit-Palais il testimone lo prende infatti il mirabile Kees van Dongen, che trionfa con le sue danzatrici indiane nella notevole esposizione Les Hollandais à Paris 1789-1914, realizzata insieme al Museo Van Gogh di Amsterdam e alla RKD (Istituto Olandese di Storia dell’arte) de L’Aja. Il percorso in cui i numerosi artisti dei Paesi Bassi che giungono a Parigi in cerca di formazione o di successo ha al centro ovviamente la superstar Van Gogh, che ossessivamente viene riprodotto dai cinesi prigionieri nel documentario terribile China’s Van Goghs di Taibo e Yanqi Kiki Yu, distribuito da Wanted, che narra di Dafen, sobborgo di Shenzen in Cina, dove migliaia di operai-pittori-schiavi fanno copie maldestre dei quadri di Van Gogh per il mercato dei souvenir, guadagnando pochissimo per il loro impegno. Di lui viene scelta la Veduta dalla stanza di Theo come immagine-simbolo, ma le stanze, divise da scelte di colore sempre diverse, hanno altre sorprese. Gli olandesi si fanno portavoce in terra di Francia della lezione fiamminga-neerlandese del particolare, del dettaglio esaminato fino all’estremo, come accade nell’opera di Gérard van Spaendonck, ineffabile creatore di vasi di Sévres e nelle borghesissime visioni di Frederik Haendrick Kammerer, tra i pittori più fortunati del suo tempo.
Colpisce la sezione dedicata a Ary Scheffer, magistrale evocatore di romantiche visioni tratte dalla letteratura, come il bel Paolo e Francesca, ma notevolissimo anche come ritrattista, maestro delle immagini di morte, come quella dedicata a Géricault. Notevole anche la presenza di George Hendrick Breitner, forte nella resa dei suoi carnalissimi nudi, con uno dei quindici ritratti in kimono, sensualissimi, a cui il Rijksmuseum di Amsterdam aveva dedicato un’acuta esposizione antologica due anni fa. Van Dongen è un fuoco d’artificio, blocca l’attenzione con le sue immagini sature, nel mito della bellezza notturna della città, quella dei locali e delle prostitute, modelle di quadri di immacolata bellezza dell’epoca Fauve, ammaliata dalle prodezze notturne del Moulin de la Galette, e del vicino bordello Gallien, a cui si ispirò per ritratti notevolissimi anche František Kupka, in opere magnetiche che si vedono alla Narodni Galerie di Praga. Tra la sua produzione presente spicca il notevolissimo La danseuse indienne, in cui l’esotismo del gesto si declina in una nuova visione del fare artistico. La mostra si chiude con Piet Mondrian, in uno spazio bianchissimo per accogliere il gesto sintetico dell’artista che porta, insieme a Kasimir Malevič il Novecento alla sua essenzialità più estrema. Fuori, nel magnifico giardino del Petit Palais, alcuni turisti fumano di nascosto, prima di essere redarguiti, e trionfano i tiramisù in bicchiere, che sarebbero stati un perfetto soggetto per dei pittori olandesi a Parigi.
Infine, un ultimo giro di valzer, e lì i controlli e i mitra si infittiscono, per vedere a rue du Temple, tra gli infiniti negozi di chincaglierie gotiche e parrucche fluo cinesi, una interessante ricostruzione del padre (insieme all’italiano Uderzo) di Asterix e di Lucky Luke: René Goscinny au-delà de rire, al Musée d’Art e d’Histoire du Judaïsme, che è in primo luogo la storia di una tipografia-casa editrice, di proprietà della famiglia di sua madre, i Beresniak, che pubblicavano testi yiddish e dotte confutazioni dei mortiferi Protocolli dei saggi di Sion. Cresciuto in Argentina, Goscinny si appassiona di un personaggio indio, Patozoru, beniamino dei bambini porteñi e da lì elabora la sua scanzonata, e spesso sarcastica, rivisitazione del mito. All’angolo, all’uscita, c’è un suonatore di organetto di Barberia, che fa andare il tema di una bellissima chanson di Barbara: A Gottingen e, quindi, le danze continuano.