L'innovazione dei bollenti spiriti
Si parla spesso di innovazione e di giovani, come fosse un binomio inscindibile e scontato, come fosse ovvio che le due cose vadano assieme.
Altrettanto spesso, però, non si va oltre il parlare, e non si affronta il ruolo delle politiche locali e nazionali. "Politiche giovanili", "innovazione" e "startup" sono solo scatole vuote? O esistono azioni concrete e risultati tangibili a partire dai quali è possibile iniziare a ragionare?
In Puglia dal 2005 è attivo Bollenti Spiriti, un programma per le politiche giovanili che ha avuto tanto successo da diventare un punto di riferimento per tutti coloro che si occupano di startup e innovazione sociale. Ma cos'è? Come funziona? E soprattutto, perché ne parliamo in questa sede?
Per rispondere a queste domande e capire il funzionamento di questo interessante fenomeno abbiamo intervistato Annibale d'Elia, dirigente dell'Ufficio Politiche Giovanili della Regione Puglia e promotore del programma che tra le proprie finalità prevede interventi per favorire la partecipazione alla vita della comunità e lo sviluppo del territorio.
Come nasce Bollenti spiriti? Quale importanza riveste Principi attivi nel vostro programma?
Bollenti Spiriti nasce nel novembre 2005. Lo inventa Guglielmo Minervini, l’assessore alla trasparenza e alla cittadinanza attiva, e dal nome si capisce più o meno tutto: i Bollenti Spiriti sono i giovani visti come materia viva e instabile. Risorsa sociale, e non solo problema da “sistemare”. In una regione del Mezzogiorno è una scelta di campo molto forte.
Si trattava del primo intervento di politiche giovanili nella storia della Regione Puglia, che fino ad allora non aveva alcuna tradizione in materia. A distanza di anni, credo sia stata proprio questa “inesperienza” a dare carica innovativa al programma, unita ad un forte desiderio di rinnovamento e di discontinuità rispetto al passato.
Le prime due iniziative sono state “Contratto etico”, un bando per borse di studio pensato per sovvertire la logica della formazione tradizionale, e “Laboratori urbani” per rispondere alla domanda di spazi per i giovani. All’epoca non lavoravo per Bollenti Spiriti, e ho visto succedere tutto questo dall’esterno, ma è stato subito chiaro che si trattava di una iniziativa ambiziosa e di ampio respiro come non se ne erano mai viste in Italia.
Dopo questo primo periodo di sperimentazione, l’Università di Bari, su incarico di Bollenti Spiriti, ha realizzato la prima ricerca sul campo di respiro regionale sulla condizione giovanile in Puglia. Da lì a qualche mese è stato selezionato il primo nucleo dello staff incaricato di gestire il programma. Eravamo in 10. A parte me, quasi tutti under 30. Da questo mix di persone e idee sono nate le azioni successive.
Nel 2007 abbiamo iniziato ad utilizzare i BarCamp, le piattaforme wiki e gli stumenti del web 2.0 per riprendere le conversazioni con i giovani pugliesi. All’interno delle istituzioni non c’erano molte esperienze del genere in Italia, e noi stessi non eravamo del tutto certi fosse una cosa legale.
In questo clima di grande fermento è nata la prima edizione di Principi Attivi.
Stavamo lavorando sui temi della creazione di impresa e della partecipazione dei giovani, quando ci siamo resi conto che, fino a quel momento, le politiche pubbliche avevano funzionato a compartimenti stagni e con dinamiche sostanzialmente escludenti.
Da un lato c’erano i programmi europei per i giovani. Sostenevano esperienze ideate e realizzate da ragazzi alle prime armi, ma non era previsto potessero avere finalità imprenditoriali. Chissà perché.
Dall’altro lato, erano già molto diffusi gli incentivi all’imprenditorialità giovanile, ma riguardavano per lo più settori “sicuri”, a bassa intensità di conoscenza. L’idea era sottrarre i giovani alla disoccupazione, ma non innovare.
Infatti le politiche di innovazione viaggiavano su un altro binario – con fondi cospicui e sbarramenti alti - sostanzialmente inaccesibili per i giovani. E su un altro binario ancora c’erano i progetti di sviluppo locale, appannaggio di organizzazioni specializzate nella comprensione degli arcani meccanismi del finanziamento pubblico.
In ogni caso, si trattava di sistemi a filiera lunga. Una trafila di organizzazioni pubbliche o private assorbiva la maggior parte delle risorse. Ai giovani arrivava ben poco.
Da questa situazione, che alcuni di noi avevano vissuto sulla propria pelle, è nata l’idea di mescolare strumenti esistenti per realizzare un intervento di tipo nuovo: regole semplici e comprensibili a tutti; una selezione basata non sull’esperienza pregressa o sulla capacità finanziaria ma sulla qualità dell’idea; vincoli ridotti al minimo nelle forme giuridiche e negli ambiti di intervento; un meccanismo di selezione a più dimensioni (innovatività, impatto e follow up).
Questo ci ha permesso di coinvolgere una grande quantità di persone, dare spazio all’inatteso e rompere il rigido tematismo del finanziamento pubblico. Con Principi Attivi abbiamo sostenuto centinaia di debuttanti in ambiti diversissimi: dalla scuola di musica rock nel piccolo paese del Salento, alla ciclofficina gestita da disabili psichici, agli algoritmi di ottimizzazione sviluppati da giovani ricercatori di ritorno dal sud est asiatico.
Il messaggio non è “crea la tua impresa” ma realizza il tuo progetto per contribuire a cambiare la tua regione.
Il vostro è un programma di politiche giovanili. Come vi siete trovati a parlare di start up e innovazione?
La cosa è accaduta in modo abbastanza naturale, anche se in misura superiore alle nostre aspettative. Per dirla con una battuta, abbiamo aperto le porte ai progetti dei giovani pugliesi ed è entrata molta innovazione. In campi diversi, spesso generata in contesti atipici, o nata da esperienze di mobilità nazionale o internazionale. Penso a diversi progetti realizzati da ragazzi che hanno deciso di ritornare portando in Puglia quel che avevano incontrato in giro per il mondo.
Per questo, credo, veniamo spesso confusi con un programma di accelerazione per startup o di incentivo alle imprese giovanili. Invece teniamo molto a sottolineare la differenza.
Bollenti Spiriti si occupa di politiche giovanili in senso stretto. ll focus del nostro lavoro è sull’educazione non formale. L’obiettivo è permettere alle persone giovani – ovvero ai nuovi arrivati - di imparare sul campo cose che, semplicemente, non si possono apprendere seduti in un’aula.
Naturalmente politiche giovanili e supporto alle startup potrebbero, anzi dovrebbero completarsi a vicenda. Fino ad oggi il nostro territorio è stato un po’ indietro sul secondo versante, ma finalmente inizia a muoversi qualcosa.
Poi c’è un altro aspetto, anche questo del tutto inatteso: i molti incoraggiamenti e le attestazioni di stima che ci sono arrivati proprio dalla comunità degli startupper.
Quando abbiamo iniziato, alcuni ambienti più “tradizionalisti” hanno ostentato scetticismo. Della serie: “ad investire sulle idee dei giovani non si ricava niente”. Invece chi pratica l’innovazione sul campo ci ha sempre invitato a proseguire.
In generale, credo sia doveroso riconoscere il grande contributo che hanno dato i pionieri della startup culture in Italia nel diffondere una nuova visione del fare impresa nel nostro paese. Fino a pochi anni fa il panorama culturale sull’argomento era di una arretratezza desolante.
Perché i giovani dovrebbero fare innovazione e dedicarsi a creare delle startup? Serve più ai giovani o serve più al sistema paese?
I giovani, come tutti i nuovi arrivati, sono degli innovatori naturali.
Per un verso hanno gli stessi problemi di uno straniero appena sbarcato sull’isola. Devono acquisire strumenti e competenze per la propria autonomia. Questo significa sviluppare un nuovo set di capacità - progettare, attivarsi, lavorare in gruppo, risolvere problemi e, più in generale, conoscere se stessi e il contesto in cui si vive – che possono maturare solo sul campo, per tentativi ed errori. By doing.
Per altro verso, come tutti i nuovi arrivati, portano nuovi punti di vista. E il nostro paese bloccato ne ha un disperato bisogno. In ogni campo. Realizzando Bollenti Spiriti abbiamo capito quanto sia utile valorizzare il contributo di energia e la capacità di trasformazione che portano le persone mentre imparano. È incredibile il carico di innovazione che sono in grado di esprimere quando sono lasciate libere di mettersi alla prova, di tentare e magari di sbagliare.
Questo cambia la mission di una politica che oggi voglia occuparsi delle nuove generazioni. L’obiettivo non è più, o non soltanto, “accelerare la transizione”. Non si tratta, come nelle youth policy tradizionali, di insegnare ai giovani come entrare nel “mondo dei grandi” nel più breve tempo possibile. Anche perché il mondo dei grandi è messo piuttosto male. Sempre meno capace di condividere le proprie risorse nel presente, e di fornire risposte sul futuro.
Si tratta piuttosto di mettere i giovani in condizione di agire sulla realtà. E le startup sono uno bel campo da gioco. Ma non l’unico. In tutti i contesti nei quali si sollecita una riforma, credo ci vorrebbe una buona dose di energie giovanili per dare risostanza.
Lo ha detto benissimo un filosofo americano del '900 - Eric Hoffer – ed è la nostra citazione preferita: “Nei periodi di grande cambiamento, quelli che stanno imparando ereditano il futuro, mentre quelli che già sanno sono perfettamente equipaggiati per affrontare un mondo che non esiste più”.
Quali sono i risultati raggiunti da Bollenti spiriti in questi anni e che criteri adottate per misurarli?
Il primo risultato di Bollenti Spiriti è una mobilitazione su larga scala di giovani e attori sociali pubblici e privati intorno al tema della partecipazione giovanile.
Si tratta di un processo di emersione delle forze latenti che ha interessato ogni comune, ogni piccola o piccolissima comunità della regione. Lo sottolineo perché proprio la capacità di attivare risorse è uno dei punti deboli delle politiche giovanili tradizionali.
Cito solo le due azioni principali del programma: Laboratori Urbani ha coinvolto 169 comuni che hanno messo a disposizione 150 edifici che sono stati ristrutturati e attrezzati per diventare spazi per i giovani; Principi Attivi, nelle tre edizioni del bando, ha visto la partecipazione di oltre 15.000 ragazzi pugliesi che hanno presentato più di 6.000 proposte progettuali, sostenute da oltre 10.000 lettere di partnership firmate da aziende, istituzioni, organizzazioni di terzo settore. Tra queste sono stati selezionati i circa 800 gruppi informali finanziati che sono diventati imprese, cooperative, associazioni, startup.
Ora siamo alle prese con la nostra nuova azione dedicata all’apprendimento, Laboratori dal Basso. I risultati, in termini di produzione di conoscenza condivisa a costi contenuti, sono davvero incoraggianti. Aspettiamo di concludere questa prima sperimentazione per capire come proseguire.
Il secondo risultato di Bollenti Spiriti è l’insieme dei risultati raggiunti dai singoli progetti: sviluppo dell’idea, creazione di valore, vitalità delle organizzazioni.
Per misurare questo risultato raccogliamo informazioni lungo tutto il loro ciclo di vita. Sia di tipo tecnico formale che sotto forma di notizie, aggiornamenti e racconti di progetto che gli attuatori pubblicano sul blog collettivo del programma. La piattaforma è uno strumento chiave perché ci permette di mantenere un legame con i gruppi, e di seguirne la traiettoria anche dopo la conclusione del periodo finanziato.
Così, nel 2011, abbiamo ricostruito l’evoluzione dei progetti nati con la prima edizione di Principi Attivi a tre anni dall’avvio. È venuto fuori, tra le altre cose, un tasso di sopravvivenza delle organizzazioni del 71%, e un ulteriore 10% di progetti che prosegue le attività sotto altra forma. Entro l’anno contiamo di pubblicare una indagine analoga su Principi Attivi 2010 e, a seguire, un rapporto sullo stato dell’arte dei Laboratori Urbani. Quest’ultimo con il supporto della Fondazione Fitzcarraldo di Torino.
Infine, il nostro lavoro è sempre stato accompagnato da attività di ricerca sul campo. Ora è in programma un aggiornamento dell’indagine qualitativa che abbiamo commissionato all’Università di Bari nel 2009/2010 sull’efficacia di Bollenti Spiriti come strumento di promozione della partecipazione dei giovani. La prima edizione della ricerca ci ha restituito un quadro positivo, ma ha messo in luce una limitata capacità del programma di coinvolgere giovani “fuori dalle reti”, quelli con una bassa propensione all’attivazione e minore disponibilità di capitale sociale. Ecco il principale risultato che non siamo riusciti a raggiungere. Su questo target stiamo concentrando le nuove azioni in preparazione, anche perché la crisi lo ha reso ancora più vulnerabile.
Cosa vuol dire lavorare sul territorio? L'innovazione può prescinderne?
Lavorare sul territorio vuol dire partire da ciò che hai, e non da quel che ti manca. Vuol dire guardarsi intorno e rompere l’incantesimo che ti impedisce di riconoscere le risorse a tua disposizione. Non vorrei farla troppo semplice, ma credo sia davvero una questione di sguardo. E qui torno sul contributo che può venire dai nuovi, quelli che vedono un problema per la prima volta e sono capaci di interpretarlo come un’opportunità.
Tutto ciò ha molto a che fare con l’innovazione. Soprattutto con quell’oggetto ancora indefinito che chiamiamo innovazione sociale, e che ragiona molto dei nuovi modi per rispondere ai bisogni ricombinando in modo originale le risorse sottoutilizzate.
Di contro, in giro vedo ancora molto forte la tentazione di considerare questi processi troppo lenti e incerti, prendere la scorciatoia e cercare di innovare applicando modelli che funzionano altrove. Ecco cos’è l’innovazione non sociale. Quella che si faceva una volta, sviluppando prototipi in un centro studi, da trasferire poi alla linea di produzione.
“Non fidarti mai di uno sopra i trenta” dicevano a Berkeley quelli del Free Speech Movement. Mi sono venute in mente queste parole ascoltando alcuni tuoi interventi pubblici perché parli spesso di “nuovi” (non di giovani) e di “dinosauri”. Non credo però che tu ti riferisca a un problema generazionale ma più a una questione di mentalità. Probabilmente esistono sia giovani “dinosauri” che “nuovi” sopra i trenta, è così o mi sbaglio?
Parto dalla faccenda dei Dinosauri e dei Nuovi, che ho preso in prestito da una meravigliosa cosmicomica di Italo Calvino. Mi è venuta in mente quando mi hanno chiesto un intervento sui giovani ad un TedX, e ho pensato di usare la stessa metafora per raccontare quel che vediamo succedere tutti i giorni dal nostro punto di osservazione. Urti, paure e reciproci sospetti tra chi c’era da prima e chi è appena arrivato.
Naturalmente dici bene. Non è una questione di età ma di mentalità.
Il punto è: che fare? Come si fa a cambiarla, la mentalità? La domanda è semplice ma ineludibile.
All’atto pratico, se si vuole costruire il famoso “ecosistema dell’innovazione” credo sia importante considerare che un altro ecosistema esiste già. E si difende. Ecco perché gli interventi dall’alto non funzionano. E perché non basta un tavolo di coordinamento tra università e impresa.
La nostra modesta proposta è rendere i giovani pugliesi protagonisti – e non solo destinatari - di un processo di cambiamento. A volte ci riescono di più, altre volte meno. Ma tutti ci raccontano storie di fatica. Sia che si tratti di avventure di grande innovazione, piuttosto che piccoli successi e insuccessi, da tutte le esperienze viene fuori la faticaccia enorme degli ultimi arrivati per farsi prendere sul serio, per entrare nel giro, per far passare modi diversi di fare le cose, lì dove “si è sempre fatto così”.
Per questo facciamo in modo che ci provino in tanti, tutti insieme, e possibilmente in relazione tra loro. A proposito di Berkely, mi viene in mente quel che ci raccontano molti ragazzi di Principi Attivi. “Quando incontriamo un altro vincitore del bando tendiamo a fidarci subito. Per noi è una garanzia.” E lì abbiamo pensato: toh, sta forse nascendo un nuovo ecosistema? :)
Con cheFare cerchiamo e incoraggiamo “là fuori” dei modi diversi, nuovi e funzionali di creare progetti culturali, è da qui che nasce la nostra curiosità per i mondi dell'innovazione sociale, della sharing economy e delle start up, perché crediamo che cultura, creatività e impresa sociale possano incontrarsi e lavorare su un terreno comune, magari scambiandosi pratiche, saperi, competenze. Credi che la cultura umanistica abbia ancora qualcosa da dare a questo paese, al di là dei proclami?
Beh, credo che la cultura umanistica stia già dando molto. Lo vediamo tutti i giorni lavorando immersi nei progetti dei ragazzi. Nasce tutto da collaborazioni e contaminazioni tra persone con background molto diversi.
Magari accade più nei garage, dove abitano quei mondi di cui parli, che nelle aule universitarie.
Accade dove si sperimenta la cultura del progetto, quel mix di pratiche e competenze che dà alle persone la capacità di far succedere le cose. Senza cultura umanistica semplicemente non può funzionare.
Il tema è complesso. Me la cavo con una battuta: se fai un progetto, la cultura tecnica può risponderti sul come. Ma solo alla cultura umanistica puoi chiedere il perché.