Mariella Mehr: “ognuno incatenato/ alla sua ora”
L’opera letteraria di Mariella Mehr (1947-2022) esiste perché molti volevano che lei non esistesse. Invero, esiste un mondo in cui la poesia e la prosa di Mariella Mehr non sarebbero dovuti esistere: il mondo delle leggi razziali, dei programmi eugenetici, della perseveranza nell’eliminazione di chi non è conforme a una rappresentazione. Non è così arbitrario legare l’opera di Mehr alla sua vita, perché la sua scrittura è stata indissolubilmente attaccata al suo desidero di rinascita, di esistere, di essere attraverso la parola.
Mehr è una scampata - e i suoi testi ce lo dicono in modo inequivocabile - dalla ferocia umana: di etnia Jenisch nasce nel ‘47 in una Svizzera estrema verso tutte le persone appartenenti a famiglie nomadi e a quelle in qualche modo non conformi a una forma prestabilita di normalità. È un programma eugenetico, Pro Juventute, che dal 1926 al 1972, attraverso sterilizzazioni di massa e molte altre violenze, cerca di estirpare “la piaga” della società. Mehr, come la madre e per conseguenza come il proprio figlio, subisce tutti i passaggi più crudeli di questa vicenda con una costante convinzione: scrivere. Tra orfanatrofi, carceri minorili, ospedali psichiatrici, questa sua esigenza è stata sempre derisa e soppressa, come lei è stata repressa in ogni suo tentativo di essere.
Lo spirito di Mehr, la determinazione ad attuare, attraverso la scrittura, la propria ribellione, è arrivato sino a noi in versi e in prosa: attraverso non solo un atto di rivolta personale, ma anche civile e civico. Diviene giornalista e forma, dagli anni ’70, un’associazione che raccoglie famiglie Jenish. Con loro si batte affinché questi delitti vengano quantificati e documentati, nonché resi noti all’opinione pubblica, lotta per l’abolizione del programma e i dovuti risarcimenti. Ma è la scrittura, poesie e romanzi, a dare un altro spazio di vita, uno spazio di salvezza, a Mariella Mehr. Una scrittura non continuativa e salvifica, non uno spazio dentro il quotidiano, ma quasi al di fuori, in un tempo e luogo di protezione separato dal fluire della vita: quasi una oasi di riparo, accanto ai mostri di ogni giorno.
Dal 2001 in Italia arrivano prima le opere in prosa, tradotte dal tedesco da Anna Ruchat: usciti in anni diversi i 3 volumi dedicati alla sua autobiografia (“la trilogia della violenza” che ricorda la Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf) per le Edizioni effigie – Accusata, Il marchio, Labambina –, di cui due già riediti da Fandango Libri. Nel 2010 in Italia giungono due sillogi, sempre con traduzione di Ruchat, San Colombano e attesa, per effigie, e nel 2014 per Einaudi Ognuno incatenato alla sua ora. Nell’ottobre 2021 esce L’ultimo miglio di tempo, una plaquette per Prova d’Artista: versi che quasi compongono un breve poema affiancati dalle immagini di Teresa Iaria.
La sua scrittura, in versi e in prosa, è precisa, nitida, asciuttissima, gli aggettivi hanno uno spazio ponderato. Una prosa che narra la propria storia mescolata a tante storie come la sua, centinaia, quasi un canto corale non solo di denuncia, ma soprattutto di constatazione dell’umana crudeltà. Una prosa in cui la parola è precisa, affilata, spesso chirurgica, e segna nel suo fluire ampio le voragini prodotte dall’assenza di parola.
L’autobiografia è narrata da un occhio interno, un occhio che vede e registra come su pellicola, in bianco e nero, con poche sfumature e pochi fuori campo. Un occhio concentrato sulle vicende, che non molla mai la presa, portandoci dentro un vortice fatto di eventi riportati come in un registro. La narrazione non lascia spazio ai sentimenti, al dire dei sentimenti, non indugia sui lividi, ma registra urla senza voce, sguardi senza parole, affetti senza inizio.
Non c’è vittima in questa narrazione, Mehr non fa di sé e degli altri che hanno vissuto le sue vicende degli eroi o delle vittime sacrificali, non divide il mondo in buoni e cattivi. Nella spietatezza dell’osservazione dell’animo umano mette a fuoco come ognuno sia buono e cattivo al contempo, perché chi ha ricevuto del male può fare del male, soprattutto quando il male è predominante e il bene sconosciuto.
Sulle vicende della sua vita la regista Valentina Pedicini ha fatto un lungometraggio, presentato nel 2017 a Le Giornate degli autori della 74. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica con il titolo Dove cadono le ombre. Una narrazione filmica importante per dare voce a quell’occhio interno che diviene voce di molti, per dare parola a una donna dalla “biografia forte”, diceva Pedicini stessa, che diventa la biografia di tanti.
La poesia di Mehr parla del confine tra l’essere e il non essere, in cui vince quasi sempre il non essere: non esistere per una società, essere considerati una piaga, una radice marcia da estirpare, un errore della natura, marchia l’essere in una accezione sociale e privata (a questo proposito rimando a Il confine nei versi).
Il luogo e il tempo della poesia di Mariella sono dentro la propria testa, un luogo privato e intimo dove lei si rannicchia per preservarsi dalle incursioni del mondo, che sappiamo essere state brutali. Il tempo viene dunque annullato in una condensa unica di buio, dove il futuro è spesso inavvicinabile, o impensabile. Lei, con i versi, combatte la parcellizzazione del tempo causata da angoscia e da depressione, la commuta sulla carta in una continuità. La speranza stessa ricorre nella sua poesia al contempo per esser negata e per essere sperata. La luce compare tra i versi, una luce che scandisce il tempo e lo cuce in giorni. Ma è inoltre vero che la luce lascia “ognuno incatenato/ alla sua ora”.
A ogni suo testo Mehr si inventa, si crea e nasce da una tradizione e da radici che non ha; a ogni lirica si partorisce con il dolore e la speranza di vedere la luce. Le sue sono poesie spesso concise, rapide, che svelte snocciolano il luogo-testa cercando talvolta di guardare fuori. A volte la punteggiatura frana e si fa invisibile, spariscono le maiuscole, rimane il verso secco, essenziale a dire. Nel dire che una vita pestata da ideali di purezza e di conformità in nome di un essere umano superiore può prendere in mano sé stessa e farne poesia e conoscenza e bellezza.
Tra esistere e non esistere in Mehr c’è il darsi alla luce attraverso la parola scritta e con la parola proteggersi. Il dolore spezza, e apre alla poesia, come bene spiega Vito Bonito: per Mehr la poesia è “una cosa che rende felici. La scrivi, la aggiusti, e poi dici, ecco questo è il meglio che posso dare di me ora e questa è la felicità”. La presunta follia, l’esilio negli psichiatrici, gli interventi chimici, le costrizioni, non hanno alterato la lucidità di una parola necessaria ed esigente: sono riusciti a far travasare la rabbia della ribellione nella prosa e nel verso, nell’azione civile del suo giornalismo di denuncia.
È grazie a Marella Mehr se una pagina drammatica del genere umano è venuta alla luce; è grazie alla sua perseveranza, alla sua determinazione, alla sua necessità di dire ma anche al suo grande amore per la letteratura. Nella relazione pronunciata in occasione del conferimento del dottorato ad honorem da parte della Philosophisch-Historiche Fakultät il 26 novembre 1998 all’Università di Basilea, con il titolo Uomini e topi, un testo importantissimo su come la diagnosi fallace sui disagi mentali segni per sempre e produca conseguenze devastanti, Mehr dice: “La mia mente non è un conto vincolato su cui posso addebitare le nostre memorie, per poi continuare a vivere allegramente, libera a tutti i ricordi. Ognuno dei miei giorni è un tentativo nuovo d’imparare a vivere con questi ricordi, i Tuoi e i mei, e il ricordo della storia del nostro popolo, senza esserne distrutta”.
Niente,
nessun luogo.
C’è ancora rumore
di sventura nella testa,
e sulla mappa del cielo
io non sono presente.
Mai è stata primavera,
sussurrano le voci di cenere,
sulla bilancia del linguaggio
sono una parola senza peso
e trafiggo il tempo
con occhi armati.
Futuro?
Non assolve
me, nata sghemba.
Vieni, dice,
la morte e un ciglio
sulla palpebra della luce.
Ci ha lasciato una grande poetessa, una donna spezzata che attraverso la scrittura ha trovato una unità sulla carta. Restano con noi i suoi libri, la sua poesia, la grazia e la bellezza che fiorisce dal buio. Le siamo grati per tanta grazia e bellezza, per la conoscenza che i suoi testi portano con sé. E speriamo che per sempre per Mariella Mehr ora sia primavera.