Speciale
Una matita per l'estate / Histoire d’H (di B e di F)
Tutto aveva avuto inizio a Parigi. Correva l'anno 1795. O forse era il 1794? Chi può dirlo con certezza? Comunque era un anno di embargo. Da quando la Francia aveva fatto la Rivoluzione e aveva istituito la Repubblica, si era vista serrare tutte le frontiere dagli stati confinanti, pervicacemente monarchici. Dalla Spagna non le arrivava più il grano, non l’orzo, non la segale e non arrivavano più neppure i bastoncini di grafite dalla Germania e men che meno dall'Inghilterra, quelli buoni, della grafite estratta dalla miniera del Borrowdale, di gran lunga la preferita dai francesi per creare strumenti da scrittura e da disegno.
Un dì, pare fosse un giorno di sole, Nicolas-Jacques Conté (1755-1805), giovane ufficiale dell’esercito repubblicano, scienziato ed inventore, venne convocato al comando supremo:
“Così non si può andare avanti. Devi trovare subito un’alternativa nazionale all'importazione di grafite. Serve urgentemente agli strateghi militari per scrivere i loro piani di guerra e serve ai topografi per tracciare nuove mappe”, gli dissero i generali.
Senza perder tempo, Nicholas si mise all'opera. Per prima cosa fece trasportare nel suo laboratorio di Parigi tutte le scorte di grafite ancora giacenti nei vari magazzini francesi e iniziò a sperimentare.
Tritura.
Spacca.
Mesci.
Pigia.
Macina.
Impasta.
Scalda.
Raffredda.
Metti nell'alambicco.
Togli dall'alambicco.
Le provò tutte. Gli ci vollero otto giorni per trovare la soluzione (immodestamente raccontava che avrebbe voluto farcela anche lui in sette).
La sua idea era semplice ma geniale e consisteva nel triturare e nel ridurre in polvere la grafite e nel mescolarne quindi una piccolissima quantità con dell’argilla (a piacere vi si poteva aggiungere anche del talco, ottenendo così vari gradi di durezza) e di riscaldare poi ad alta temperatura il composto. Lasciatolo intiepidire, veniva inserito dentro un forellino cilindrico praticato al centro di semicilindretti di legno della misura dei vecchi bastoncini di grafite. Una volta raffreddato, si irrigidiva ed ecco nato lo strumento perfetto, la matita, che da allora in poi non è più cambiata.
H - La punta di Ingres
Il giovane Eugène scostò gli scuri, aprì la finestra e un fascio di luce inondò la stanza. Era da poco passata l’alba e, come sempre a quell’ora, nello studio non c’era altri che lui. Dietro le insistenti raccomandazioni di suo zio, il noto drammaturgo Alexandre Duval, era stato preso come apprendista-allievo nello studio del maestro Jean-Auguste-Dominique Ingres, nonostante avesse soltanto undici anni. La vocazione artistica in lui si era manifestata in maniera precoce (d’altra parte l’inclinazione all’arte era un dono di famiglia), così l’illustre pittore aveva accettato di prenderlo a bottega negli orari che aveva liberi dalla scuola. Il compito che gli era stato affidato, per incominciare, era quello di fare la punta alle matite.
Ingres era solito disegnare servendosi della matita 3H, la più austera, detta “mina di piombo” per la sua durezza che non consentiva artifici. E pretendeva che la punta fosse ben acuminata. Non appena la matita si spuntava, subito la sostituiva con un’altra. Per questo sul suo tavolo da lavoro ce n’erano schierate all’incirca una sessantina. Ad Eugène, ogni mattina, prima di andare a scuola e prima che tutti gli altri lavoranti dello studio prendessero servizio (il maestro arrivava sempre verso mezzogiorno, perché per lavorare prediligeva la luce calda del meriggio) toccava il compito di fare la punta a tutte le matite. E non era cosa facile. Infatti, per ottenere i variati spessori del tratto, dal greve al lieve, dal più profondo e cupo al quasi illeggibile per cui andava famoso, Ingres pretendeva che le punte fossero tagliate a forma di bulino, ovvero a losanghe, e mai a tondo, perciò era necessario reciderle con un taglio netto e trasversale. Eugène doveva quindi usare un temperino molto affilato e dare un colpo secco, con il rischio di tagliarsi qualche falange, ma era convinto che se anche gli fosse accaduto, ne sarebbe valsa la pena, pur di stare a contatto con il maestro per il quale aveva una vera e propria venerazione.
“Disegnare non significa soltanto riprodurre contorni” diceva Ingres “il disegno non consiste soltanto nel tratto: è ancora l’espressione, la forma interna, il piano, il modellato. Che cosa resta d'altro? Il disegno comprende i tre quarti e mezzo di ciò che costituisce la pittura. Se dovessi mettere un cartello sulla mia porta, scriverei Scuola di disegno: sono sicuro che formerei dei pittori.”
(Eugène-Emmanuel-Amaury Pineu-Duval, 1808-1885, più noto con lo pseudonimo di Amaury-Duval, fu un allievo di Ingres)
B - I mozziconi di Daumier
Honoré Daumier, che disegnava con matite B, non amava le punte. Narra il suo biografo:
“Disegnava sempre con avanzi di matita, decidendosi a rifonderli solo quando non era proprio più possibile fare altrimenti, ma più spesso adoperando, risuscitando dei pezzetti di matita che non si potevano neppur più tagliare e con i quali bisognava inventare, scoprire un angolo che si prestasse al febbrile capriccio della mano agile, mille volte più vario e intelligente che non la punta stupida e perfetta ottenuta col temperino, e che, nell’impeto del lavoro, si spezza o si schiaccia. Direi quasi che all’abitudine di utilizzare tali ritagli, rimasugli, pezzetti di matita – che chiedevano e non ottenevano grazia – Daumier dovette qualcosa della larghezza e dell’ardimento del suo disegno, nel quale il segno grasso e vivo ha lo stesso carattere delle ombre e del tratteggio, se non sapessi che simili risultati non si spiegano con così piccole cause.” (Raymond Escholier, Daumier, un pittore contro due dinastie”, Bietti, Milano, 1945, pag. 137)
F - Gli appunti di Matisse
A giudicare dal tratto dei suoi disegni, Henry Matisse prediligeva invece le mine F (o HB). Eccolo mentre prende appunti al Louvre con la sua matita (Cfr. il blog di Luigi Grazioli).
Le altre matite:
Guido Scarabottolo, Perdonare gli errori
La redazione, Una matita per l'estate. Il concorso doppiozero