Mentre siamo qui: Santarcangelo 2024
Santarcangelo di Romagna si trova sulle prime colline riminesi, vicino al mare, che però sembra guardare da lontano. Nelle sue piazze nuove e vecchie, in spazi abitati o abbandonati riconvertiti al teatro, da più di cinquant’anni, a ogni estate, si apre il Festival di arti performative più antico d’Italia, ideato nel 1971 proprio per proporre un’alternativa al modello della Riviera, già preda del turismo di massa. In quei giorni, il paese si trasforma in qualcosa d’altro. Più o meno temporaneamente, perché negli anni Santarcangelo Festival si è espanso, fino a fondare progettualità che – travalicando la dimensione evenemenziale della forma-festival – abbracciano l’intero arco dell’anno e s’innestano nelle comunità artistiche e non che vi si aggregano intorno.
Da qualche tempo, ogni edizione ha un titolo. E questa – la terza diretta da Tomasz Kireńczuk, da poco rinnovato per altri due anni – si chiama While we are here. “Mentre siamo qui”, come si legge nel testo introduttivo del direttore, è un invito a rivolgere il pensiero all’altrove atroce in cui viviamo quotidianamente, ai conflitti che imperversano, alle tragedie umanitarie, ai diritti che mancano o retrocedono, all’escalation di violenze globale. Ma il claim raccoglie anche un insieme di domande su nuove, possibili forme di coesistenza, variamente incarnate nel lavoro di artiste e artisti in programma.
Di nuovo nel buio con Michelle Moura
S’era già capito nel 2019, alla sua prima presenza al Festival con lo straordinario Fole: Michelle Moura lavora nel buio, in senso fisico e concettuale, generando una drammaturgia emotiva particolarissima fra scena e pubblico. Lessons for Cadavers è una coreografia di mani, di espressioni facciali, di sguardi e anche di parole dette, cantate, scritte, anch’esse in danza. Via via, scopriamo che la scrittura ruota intorno alla bocca, punctum storicamente centrale nelle arti coreiche e però non così utilizzato per costruire un’intera grammatica del corpo o disegno coreografico. Ogni bocca è una vistosa soglia su un baratro inconoscibile, un tramite con l’invisibile, un canale di espressione – cioè anche di controllo sul mondo – e al contempo di nutrimento, che vuol dire anche assoggettamento; ma soprattutto la bocca è un limite poroso che rappresenta il flusso di una mutazione continua. Moura con Clarissa Rêgo e Jorge De Hoyos ce la mostrano in tante delle sue possibili posture, declinazioni, variazioni, invitando i corpi danzanti e astanti a esplorare zone ben note ma mai molto approfondite dallo sguardo o dal gesto, e tentando una scrittura che s’irradia proprio da quel varco su di un aldilà che ciascuna di noi porta in bella vista in mezzo alla faccia.
Lo spettacolo funziona per contrasti: fra le soggettività in scena e i momenti di relazione fra loro; fra l’interiorità e la sua rappresentazione all’esterno; la seduzione che lascia intuire una qualche forma di realismo e il suo immediato tradimento su piani immaginifici, diversi; fra una visione sul tragico portata all’estremo e un altrettanto violata commedia, ripetizione e differenza, complicità e critica.
Lessons for Cadavers vuole ritrarre l’orrore del presente e lo fa, com’è d’uso, campionando movimenti estratti dalla quotidianità. Li mostra, ripete, riprende, ancora e ancora – su tutti quello dello scavo, che vuol dire lavoro ma anche sepoltura. Ma, appena fuori d’ogni tentazione realistica, tali sequenze gestuali – attraverso ripetizione, satira, sovraesposizione vengono spinte all’eccesso; così, si dischiude una dimensione a dir poco grottesca che, se all’inizio compiace, progressivamente lascia affiorare un unico orizzonte possibile: quello, amarissimo e giusto, dell’estinzione. E però, poi, nella ripetizione di un gesto, per un momento, si può coglierne un altro diverso che ribalta ancora posture, movimenti, significati: uno su tutti è quando, all’ennesimo scavo, una mano sfugge, accennando rapidamente a un atto di semina. Scatti rapidissimi, contrazioni inattese, infrazioni continue del movimento disegnano una coreografia sempre a rischio di deviare. Così, il disastro evocato è presente, ma sovente degenera in altro e, di conseguenza, si rigenera, cambiando di segno e di senso, attraverso le minime ma significative auto-contraddizioni su cui si fonda l’intera drammaturgia.
Quasi sempre schiacciato in una frontalità che impedisce allo sguardo di approfondire, Lessons for Cadavers è costruito su una gestualità sovraccarica, su una scrittura fin troppo esplicita, su mimiche iperespressive e ammiccamenti al pubblico. Ma il lavoro è al contempo costellato di accenni a qualcosa d’altro che persiste – una microvariazione appena palpabile o una figura che affiora dal buio –, di movimenti inaugurati e mai davvero compiuti, di corpi, azioni e gesti che paiono offrirsi così smaccatamente allo sguardo, ma in realtà subito si ritraggono alla percezione e comprensione. Suggeriscono continuamente altro: un doppiofondo non solo coreico sempre in agguato dietro a ciò che sta accadendo in scena. La custodia di un simile grado di energia è forse uno dei motivi coreografici profondi della scrittura di Michelle Moura, che quanto più si mostra, tanto più si cela, generando una drammaturgia di sensi che, attraverso i corpi, riesce a trasmettersi a livelli molto profondi, in scena come in platea.
Guardare guardarsi
Pas de deux è un meccanismo organico e concettuale che s’inceppa davanti allo sguardo del pubblico. Non mette in crisi “soltanto” – come intende la coreografa Anna-Marija Adomaityte – la logica eteronormativa, emblematicamente rappresentata in danza appunto dal passo a due, quanto piuttosto l’intero canone sotteso a tale logica e, più ampiamente, l’aspirazione verso modelli di virtuosismo analogamente imposti anche fuor di palcoscenico. Lo spettacolo consiste nella reiterazione infinita dell’attacco, appunto, di un passo del pas de deux: Romane Peytavin e Victor Poltier ripetono l’incipit senza portare avanti il movimento, fino all’esaurimento del gesto e al tremore dei corpi. Intanto, ci guardano con insistenza, sempre più attoniti. Insistendo su questa forma d’osservazione, l’esito non è straniante nel senso consueto e razionale del termine, semmai ipnotico, perché si trasmette a livello fisico, sensoriale, atmosferico.
Va da sé che, osservando la ripetizione forsennata dello stesso identico (accenno di) movimento, un lavoro sulle micro-distanze e su variazioni coreiche sempre più minime, può capitare di distrarsi. Ma in questo lavoro un altrove non c’è, perché la platea è disposta sui quattro lati della scena e, dunque, lo spettacolo invita anche a guardarsi guardare. Oltre la danza, sullo sfondo, è impossibile cioè non vedere spettatori e spettatrici, più o meno partecipi della medesima scena. Così, Pas de deux rivela la più grande rivolta a cui tende: mostrare in concreto che andare a teatro – come ripensare le norme – è qualcosa che si deve fare per forza insieme, collettivamente.
There is nothing deeper than one’s own body di Elena Rivoltini – sostenuto dal network FONDO – si svolge in tanti sensi nelle viscere, sia della performer che di Santarcangelo. Tutte intorno a una teca ospitata in un remoto ipogeo della Grotta monumentale, all’inizio assistiamo a una coreografia distesa, imperniata su movimenti minimi, fluidi e morbidi. Rivoltini, però, è dotata di un microfono che di volta in volta sposta su vari punti del ventre, sfiora gli arti, accarezza il collo, convocando anche qui un altro mondo: un al di qua sottopelle di norma invisibile e poco udibile, la cui frenesia di accadimenti – in contrasto all’apparente pesatura dei movimenti – viene resa manifesta attraverso il suono e diventa soggetto coreografico. Se, a ridosso della rifondazione degli studi in danza in Italia, ormai trent’anni fa, vari ricercatori e ricercatrici si chiedevano “perché?”, ancora oggi è possibile trovare una qualche risposta efficace. Anche in questo spettacolo, infatti, si calca l’esperienza dei corpi, coi corpi e tra i corpi, che consente di raggiungere livelli ulteriori e inconsueti di contatto nella creazione come nella sua percezione condivisa.
While we are here
While we are here è il claim del Festival, ma è anche il titolo dello spettacolo di Lisa Vereertbrugghen, insieme a Claire Godsmark, Taka Shamoto, Eimi Leggett, Castélie Yalombo Lilonge: un lavoro mirato a travalicare confini di tempi, spazi, estetiche, congiungendo la tradizione antica delle danze popolari con quella moderna dei rave. La coreografa, che sta studiando la techno da tempo, afferma di aver individuato dei punti di contatto possibili: alcuni passi, la frequenza dei bpm, la perdita di controllo, anche, più in generale, l’inclusività di tali pratiche coreiche; e soprattutto, una domanda in cui l’artista s’interroga sulle ragioni che, appunto al di là delle epoche e dei generi, spingono tante se non tutte le persone a danzare.
Lo spettacolo inizia per segmenti ben distinti: una danzatrice entra in una scena stretta dal pubblico sui quattro lati e inizia il suo percorso, con una scrittura del corpo e del movimento, una grammatica ben specifica e riconoscibile, insomma con la propria identità. Poi, una per volta, arrivano le altre, parimenti ognuna alle prese col sé. Ma quando, a un certo punto, la musica sale e la stanchezza pure, si manifestano alcune prime forme di contatto: qualcuna delle performer entra in relazione con l’altra, ne assorbe qualche gesto o modo, e passa oltre, più o meno sensibilmente cambiata. Di nuovo, fra differenza e ripetizione, soggettività diverse e coralità possibili, il lavoro presenta un tracciato fluido che parte dalla danza specifica di ciascuna, per arrivare a sperimentare la sua mutazione nella relazione con le altre soggettività presenti. È un meccanismo che ovviamente riguarda le danzatrici, ma comprende anche gli spettatori: pure in questo caso in sono coinvolti, fra chi osserva, chi si distacca ma comunque c’è, chi tiene il tempo e accenna a una qualche forma di partecipazione.
While we are here lavora sulla logica del rave, ma non solo – come potrebbe apparire – dal punto di vista delle estetiche: il suo incanto avviene ai margini del visibile, ossia negli scambi di sguardi fra le danzatrici e col pubblico; nelle espressioni facciali via via più distese che mostrano; nei rapporti corporei che s’instaurano, insomma nelle modalità diverse di entrare in relazione con l’altro che è propria di questo tipo di esperienze in danza.
“Mentre siamo qui”, dunque, non si riferisce soltanto a ciò che sta capitando altrove, ma anche a una riflessione molto immediata, decisa, esplicita su ciò che sta accadendo sul momento, per esempio guardando un lavoro e/o altri che lo fanno o l’osservano. Diceva Georges Lapassade che gli stati di coscienza alterati accompagnano da sempre l’umanità perché permettono di fare esperienza dell’alterità, sperimentando modalità di relazione con sé, gli altri, la realtà diverse da ciò che accade nella quotidianità. Pensava a trance, sciamani, sostanze, e anche, appunto, ai rave. Ma questo, in tutta evidenza, è forse anche quello che può l’esperienza condivisa della danza e di un Festival che si fonda su simili principi: provare a divenire altro, insieme, anche se solo per poco tempo. Il cerchio finale in cui si stringono i sorrisi stremati delle cinque danzatrici di While we are here col loro canto, strette fra gli sguardi incrociati degli spettatori, è, in questo senso, un’immagine davvero fortissima.
Fotografie di Pietro Bertora. Nell’ultima foto: While we are here di Lisa Vereertbrugghen.