Nossiter. Resistenza naturale
Jonathan Nossiter è un regista famoso tra gli enofili per Mondovino, un documentario che è diventato nel giro di pochi anni uno dei riferimenti necessari per tutti gli appassionati di vino. Il film uscì nel 2004, venne presentato al Festival di Cannes e scosse – come dichiarato fin dal titolo – il mondo del vino di cui esplora cantine, produttori, enologi e giornalisti enogastronomici. È un viaggio che parte dall’Italia e dalla Francia e si spinge fino alla California e al Sudamerica. Nossiter pone qui le basi per un discorso molto ampio sulla globalizzazione del prodotto vitivinicolo, l’uniformazione dei gusti e quindi dei sapori, le decisioni di pochi a discapito delle biodiversità.
Parlo di Mondovino perché è una premessa necessaria per capire come mai il suo autore, a distanza di dieci anni, sia tornato sullo stesso argomento con un nuovo film, Resistenza naturale, presentato questa volta al Festival del cinema di Berlino (guarda qui il trailer). Con un approccio se possibile ancora più radicale e schierato, Nossiter – che non è un giornalista, ma un regista e dunque sollevato dalla responsabilità di dover sentire tutte le campane – ha il merito di riuscire a porre le basi per un discorso molto più ampio e articolato di cui il vino è solo un rappresentante.
In Resistenza naturale i protagonisti del documentario non sono i grandi produttori e le multinazionali che aveva passato in rassegna con Mondovino, ma quattro piccoli viticoltori che lottano per il riconoscimento del lavoro artigianale, semplice, autentico e soprattutto dissidente.
Si tratta di quattro tipologie di vite e di viti differenti unite da una sola e semplice parola: “naturale” che, se considerata in rapporto alle leggi del Nuovo Ordine Economico Mondiale, significa anche “Resistenza”.
Qui non si parla di biologico, che oggi rimanda subito al mondo radical chic e per il quale bisogna richiedere (e pagare) una certificazione, ma siamo un passo oltre, o meglio, un passo indietro: il naturale. I vini naturali non richiedono trattamenti chimici né sulla pianta né in fase di vinificazione, non sono riproducibili su grande scala, hanno una lenta evoluzione, richiedono ancora più tempo e dedizione con il rischio che non sempre siano perfetti.
È questa una diatriba che va avanti da parecchio tempo: tra chi crede che il vino possa essere migliorato dalla chimica e dalla scienza e chi invece chiama queste presunte migliorie “alterazioni”, ritenendole pericolose per la salute del consumatore.
Si capisce fin dal titolo da che parte sta il regista. Nossiter cerca immediatamente di creare uno stretto contatto tra lo spettatore e la vita anche famigliare dei produttori: «Figlio di vignaiolo, ti ho beccato!» sono le prime parole della voce fuori campo che insegue con la macchina da presa il bambino dei marchigiani Corrado Dottori e Valeria Bochi della cantina “La Distesa”. Entrambi ex bocconiani, Corrado e Valeria hanno deciso di tornare a lavorare la terra, ma con una consapevolezza diversa e resistente. Una storia differente è quella di Elena Pantaleoni dell’azienda agricola emiliana “La Stoppa”: Elena ha ereditato l’azienda, molti dei suoi vigneti hanno più di novant’anni e per lei resistere vuol dire rispettare delle piante che vivono più dell’uomo e che dovrà tramandare ai suoi nipoti. Un’altra donna del vino è Giovanna Tiezzi di Pacina, in Toscana. La sua azienda nel cuore del Chianti dei colli senesi è sempre stata biologica, anche in anni in cui non era ancora una moda, ma senza richiedere certificazioni o scriverlo sulle etichette. Il più agguerrito di tutti è però Stefano Bellotti, che produce vini nel basso Piemonte ai confini con la Liguria nella sua “Cascina degli Ulivi”. Bellotti è tra i primi “resistenti naturali” d’Italia e sta portando avanti una vera battaglia contro le normative imposte da Bruxelles.
Il regista visita i produttori, li incontra nelle loro case e nelle loro terre, per poi riunirli a uno stesso tavolo. Il risultato è una piacevole chiacchierata a cui lo spettatore assiste un po’ come se a quel pranzo fosse stato invitato anche lui: un invito a un pensiero diverso, slegato dal mondo globalizzato e standardizzato.
Quello che colpisce è l'attenzione riservata non solo alle persone, ma anche ai cani, su cui spesso si sofferma lo sguardo del regista. I cani accompagnano l’agricoltore nella vita del lavoro in campagna, sono portatori di sicurezza e tranquillità, ricordano che il tempo storico può e dovrebbe coincidere con il tempo biologico. Sono i cani di contadini illuminati che vivono il loro tempo rispettandolo, riconoscenti della storia del territorio a cui appartengono e, soprattutto, fedeli alla terra: «L’agricoltura è lecita se noi ricostruiamo ogni giorno l’equilibrio naturale che abbiamo rotto facendo agricoltura», afferma Stefano Bellotti. Ed è qui che torna in mente il Temps retrouvé di Proust: «... gli uomini... esseri mostruosi, i quali sembrano occupare nel tempo un posto assai più considerevole di quello così angusto che è loro riservato nello spazio: un posto, al contrario, prolungato senza misura, poiché toccano simultaneamente, come dei giganti tuffati negli anni, epoche da loro vissute e così lontane – tra cui tanti giorni sono venuti a collocarsi – nel Tempo».
Verrebbe dunque da dire che questi produttori siano oggi dei rivoluzionari, quando in realtà loro stessi dichiarano che non si tratta di essere “contro”, ma “essere per”: essere per il rispetto della natura, la sostenibilità e il tempo naturale, non quello artificiale e veloce delle industrie e della società capitalistica.
Per naturale dunque si intende libero dai sistemi, dalla chimica, dalle esigenze di mercato? Forse.
Naturale, però, oggi significa ancora costretto in una nicchia, fuori dai circuiti della grande distribuzione e dalle guide più blasonate. Questo perché i colori e i profumi di un vino prodotto secondo questi metodi sono la diretta espressione della stagionalità e soprattutto sono diversi da quelli imposti dai disciplinari, ovvero da quell'insieme di regole a cui un vino deve essere conforme per rientrare nei riconoscimenti DOC e DOCG. Un esempio emblematico sono i disciplinari che regolano il Verdicchio delle Marche e il Cortese di Gavi che – come spiegano i rispettivi produttori – prevedono parametri molto simili per due vitigni e vini completamente diversi: giallo paglierino con riflessi verdognoli, profumi caratteristici e delicati di frutta fresca e fiori bianchi. Non a caso la maggior parte dei vignaioli intervistati ha deciso di uscire dalle denominazioni di origine DOC e DOCG perché non costituiscono più il simbolo di un marchio di qualità, ma sono ormai associate al concetto di produzione industriale e standardizzata completamente slegata dal patrimonio artigianale.
Questi viticoltori sono dunque i nuovi custodi della parola terroir, termine che non è traducibile in italiano e che indica l'interazione tra la terra e i suoi frutti, ovvero tra un determinato luogo e i suoi sapori. Usata soprattutto in relazione al vino, la parola terroir esprime non solo il concetto di territorio agricolo, ma anche storico e culturale, dove però è la natura a dettare leggi e condizioni. I moderni contadini guardano al futuro prendendo esempio dal passato; sono tutti molto lontani dal mito del ritorno alla campagna e dal concetto finto-bucolico di “torna alla natura, torna al passato, torna al mulino bianco”: come recita lo slogan di un breve cartone animato inserito all’interno del documentario.
Tra i dissidenti del vino c’è però un altro convitato che solo apparentemente può sembrare un intruso: si chiama Gian Luca Farinelli della cineteca di Bologna. Farinelli restaura pellicole di film che sono il caposaldo della cultura cinematografica e spiega come un ritorno nostalgico al passato oggi non sia più possibile perché sono cambiati i mezzi e i supporti. Così, restaurare e tramandare la cultura del passato, inevitabilmente, porta anche a tradirla. Ma è proprio in questo salto temporale che si compie l’unione tra i due mondi: il dramma del contadino che non riesce a esprimere la sua disobbedienza civile contro l’impero di Bruxelles è lo stesso di un restauratore di pellicole che lotta per mantenere vivo un piccolo cinema d’essai.
Essere svuotati di questo tipo di cultura è un po' come essere privati di un alimento fondamentale per la nostra dieta e la nostra sopravvivenza, «di quella luce che l'uomo non può raccogliere direttamente, ma solo attraverso le piante che mangia», spiega Stefano Bellotti.
Si può dunque fare il paragone, come avviene nella scena finale del film, tra una zolla di terra dal colore vivo, dai profumi terragni, che si sgretola tra le mani del contadino, e un altro pezzo di terra dura, grigia, lucida e compatta, chimica e dall'odore di detersivo: quella del vicino di casa di Bellotti. La scelta tra un vino ottenuto da un terreno in cui non sono stati usati trattamenti chimici e un altro che è stato trattato con diserbanti, insetticidi e fungicidi in cui l’unica forma di vita rimasta è la gramigna, sembra quasi obbligata. «Life and death», conclude Nossiter: si può scegliere. Non solo un altro vino, ma anche un altro mondo è possibile.