Speciale
Occhio rotondo 9. Il filo
Un filo teso tra due muri proprio sopra il letto sul quale sono appese le proprie cose ad asciugare: vestiti e frutti della terra raccolti in mazzetti ben ordinati. È un angolo della stanza quello in cui si trova il suo giaciglio, anche questo utilizzato come piano d’appoggio; altre cose sono riposte in sacchetti e contenitori di plastica ai piedi del letto. Poi lei, Stana Davidovic, una donna anziana originaria di Hrvatska Kostajinica. Sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale, Stana Davidovi ora vive in un centro collettivo per rifugiati a Rtanj in Serbia, luogo che prende il nome da una montagna dei Carpazi dalla forma piramidale. Stana Davidovic ha deciso di non rientrare in Croazia dove viveva dopo la devastazione del suo villaggio, nonostante la sorella vi abbia fatto ritorno. Lei è rimasta. Sarà una profuga per sempre, accampata in questo luogo impervio nella regione orientale della Serbia. È lei la protagonista di questa fotografia (2006-2008) scattata da Ivor Prickett, un fotografo nato in Irlanda che da anni segue le guerre in quella parte devastata del mondo: Balcani, Caucaso, Siria, Iraq, e ora anche Ucraina. Vive a Istanbul e pubblica le sue immagini sulla prima pagina del The New York Times.
Stana Davidovic è seduta sul letto; rannicchiata stringe le braccia al corpo in posizione di difesa. Vestita di scuro ha il capo coperto da un fazzoletto come le vecchie contadine da quelle parti, e un tempo anche qui nelle nostre campagne. Deve fare freddo a Rtanj perché, nonostante la presenza di un termosifone sotto l’ampia finestra, accanto a lei c’è una stufetta elettrica accesa. La casa è la protagonista di molte di queste fotografie ora esposte alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia (No Home from War. Tales of Survival and Loss, catalogo edito da Contrasto, testi di Sara Piccinini e Arianna Di Genova). La casa è un bene primario, come il cibo, i vestiti. Una donna non è una donna se non ha un luogo dove vivere, dove riposare, dove nutrirsi e incontrare gli altri. Primo Levi lo ha detto in modo memorabile con la sua secchezza elegante in Se questo è un uomo.
Le case sono il primo obiettivo delle guerre, le case bombardate, prese di mira da colpi di cannone, mitragliate, sfigurate e spesso distrutte. Prickett ha una particolare attenzione per questi spazi del quotidiano sconvolti dai conflitti. Li ritrae con un’attenzione e insieme delicatezza uniche. Dalle immagini esposte in mostra (aperta sino al 30 luglio) si capisce che fa molto di più che fotografare: parla con le persone, vive con loro per qualche tempo e ne ascolta le storie. Uno dei punti più belli del libro, oltre naturalmente alla riproduzione di queste immagini dallo spiccato valore pittorico, sono le didascalie che il fotografo ha scritto per accompagnare ogni suo scatto. Sono testi brevi che possiedono un tono mai didascalico o distante. Sono come le sue immagini: ritratti pudichi di gente che si è trovata senza nessuna colpa ad essere al centro d’una tragedia immane che le ha travolte.
C’è un’altra foto terribile nella descrizione scritta. Ritrae un’altra donna anziana in posizione solitaria seduta in mezzo alla polvere che volteggia nell’aria, dietro di lei delle macerie confuse, quasi illeggibili. Si chiama Nadhira Rasoul; sta osservando a distanza i soccorritori che recuperano i corpi di sua sorella e della nipote nella Città Vecchia di Mosul in Iraq uccise da un bombardamento aereo nel giugno del 2019. Ancora una donna, ancora una persona sola, ancora morte e distruzione, che pure non si vedono, sono fuori dal riquadro. Noi sappiamo cosa sta succedendo dalle quattro righe scritte con asciutta pena da Prickett. L’artista irlandese – perché di questo si tratta: la sua è arte – non ha esitato davanti a queste donne: le ha ritratte perché era necessario farlo, perché l’arte nella sua necessaria bellezza possiede anche un significato etico. L’arte è anche questo: un documento, un memoriale, ovvero un’immagine per non dimenticare.
La bellezza di queste foto non nasce solo dalla bravura di Prickett, ma dall’attenzione e dedizione che esse trasmettono. Niente di orripilante, niente sangue, morti o cadaveri. No, il fotografo ha ritratto le rovine degli esseri umani, donne e uomini, ciò che resta di loro, perché potessimo, grazie al suo sguardo, specchiarci in queste macerie dell’umanità di cui facciamo inevitabilmente parte. La rovina non è mai generica ma è sempre particolare, unica, così come sono unici questi ritratti di persone colte nell’intimo della loro stanza, nel rifugio dove hanno trovato, almeno alcuni di loro, un po’ di pace e forse sollievo.
La vita domestica sembra riprendere come ci mostra quel filo appeso in camera di Stana Davidovic. Il filo è il suo armadio, la sua cassettiera, è lo spazio che regge le poche cose della sua vita. Il filo per stendere la biancheria sull’aia, come faceva probabilmente davanti alla propria casa o quello teso contro il muro per far seccare i prodotti dell’orto e del campo. Il filo è ciò a cui lei è ora appesa. La rovina ha mille volti ma una sola identità: si chiama catastrofe, calamità, crollo, disfacimento, devastazione, sfacelo. Stana Davidovic si rannicchia in un modo composto con grande dignità. Ivor Prickett ce lo ricorda con il suo scatto.
Refugee in bed, 2006-2008, © Ivor Prickett
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