Speciale
Occhio rotondo. Hobo
Che cosa colpisce in questa fotografia? La barba, i capelli, l’occhio chiuso, il viso cotto dal sole? Tutto questo, certo. Quello che ci trafigge è la natura selvaggia di questo uomo chiamato LA III di Skid Row a Los Angeles. Quasi tutti gli Hobo fotografati da Lee Jeffries possiedono questo aspetto irsuto e disordinato: manifestano la natura di chi abita da anni nelle foreste e nelle selve, anche se si è insediato nel centro di popolose ed estese città moderne.
Tutti noi possediamo una forma di selvatichezza, che appare più palese durante l’età infantile, quando assume la forma dell’aggressività primigenia, non disciplinata e non addomesticata, per poi trasformarsi successivamente nella scontrosità irruente dell’adolescente, prima di placarsi in un ritorno, o nell’arrivo definitivo, alla dimestichezza della vita in società: si diventa mansueti quasi da un giorno all’altro, e, salvo per qualche tratto che ancora sopravvive, ci si addolcisce, o quasi. L’Hobo che Jeffries ha fissato con la sua macchina fotografica, avvicinando l’obiettivo sino quasi a toccarne il viso, mettendolo di fatto in posa, ha conservato quell’elemento rustico e ritroso che ci abita. Jeffries ha iniziato a fare foto agli Hobo per caso.
Nel corso di una maratona cui partecipava gli è capitato di scattare con la sua macchina fotografica il ritratto di una donna senza fissa dimora. La vagabonda si è risentita per questo gesto e Jeffries si è accostato a lei per parlarle. Da quel dialogo è nata l’esigenza di ritrarre gli Hobo, in particolare in America e in Gran Bretagna. Chi è stato accostato da un barbone, presenza oggi così frequente nelle strade delle nostre città, sa quanto sia difficile il contatto con lui, come ci si senta respinti dalla sua presenza, che a volte è calma e tranquilla, altre aggressiva e rissosa. Ci si sente assaliti dalla selvatichezza del barbone, dal suo aspetto disordinato, sporco, unto, e dall’odore che promana dal suo corpo.
Tutto in lui è esasperazione e aggressività, a partire dall’espressione del viso, dalla dentatura carente, dalle rughe profonde nella fronte. Come potrebbe essere altrimenti? LA III qui raffigurato è tutto abbandono e repulsa. Si sente, e lo è, un rifiuto, uno scarto, un esempio mal riuscito della nostra ordinata società composta da bravi civilizzati. Ed è proprio questa natura selvatica che ci respinge, perché appartiene, nolente o volente, alla nostra stessa natura: una forma che ci è consona e che solo in quei particolari momenti dell’esistenza si manifesta in modo così evidente. Siamo tutti dei selvaggi, anche da adulti, per quanto ci siamo coltivati, per quanto abbiamo imparato le regole del vivere sociale, per quanto abbiamo deposto l’aggressività degli esclusi.
Tuttavia sotto l’aspetto affabile, educato e cortese di ciascuno di noi, c’è sempre un LA III che vive inconsapevole. Per questo lo scatto di Jeffries ci impaurisce. Non solo perché lui è un povero, un senza-fissa-dimora, o perché s’aggira nella giungla della città come se fosse il rustico abitante d’una remota selva del passato. L’uomo selvatico rivela la nostra fragile condizione di civilizzati, che i conflitti, le lotte sociali, le guerre e i disastri, più o meno naturali, rendono palesi.
Nella mostra allestita al Museo Diocesano di Milano, intitolato a Carlo Maria Martini, i ritratti dei dropout – uomini, donne e bambini – appaiono allineati gli uni a fianco agli altri: una galleria imprevedibile d’una umanità espulsa, che vive di mendicità, il livello senza dubbio più primitivo nella società capitalistica avanzata. LA III, ammesso che questo sia davvero il suo nome, o solo un acronimo, ci respinge e ci attira. Se solleviamo l’abito che indossiamo, se ci svestiamo dei panni soliti, anche noi siamo così.
Lee Jeffries, Portraits, a cura di B. Silbe, N. Righi, 27 gennaio-16 marzo 2023 Museo Diocesano Carlo Maria Martini, Milano