Santarcangelo 2018 / Quattro pezzi sull’identità

Due nomi sconosciuti (Maddalena Giovannelli)

 

Può darsi che vi sia capitato, scorrendo il programma del festival di Santarcangelo, di restare smarriti di fronte ai tanti nomi sconosciuti e ardui da pronunciare. 

Ecco allora comparire qualche esitazione di fronte alle domande di rito da festival (“cosa hai visto?”, oppure: “cosa mi consigli di vedere?”): non mancano difficoltà nel nominare gli artisti (“sono tre nomi, ora guardo”), una certa confusione nel raccontare l’evento (“ah, quello del tramonto, dici?”), malcelata reticenza nel dare un parere (“non so, magari sono io che non ho capito!”). 

Ma un festival vale il viaggio, se si torna a casa ricordando due nomi prima sconosciuti, difficili da ritrovare nelle stagioni nostrane. Nel secondo fine settimana santarcangiolese a emergere dal maremagnum sono due vulcaniche performer donne. La prima è Mallika Taneja, una trentenne indiana attiva a New Delhi. Il suo Be Careful – qualcuno potrebbe averlo intercettato nella scorsa edizione di Short Theatre – sta girando da cinque anni e ha ancora molte date in vista (tra le prossime europee, Atene). Alle sei repliche previste la direzione del festival ne ha aggiunte altre tre fuori programma, chiamando Mallika a un tour de force mai sperimentato nella lunga vita dello spettacolo. Venti minuti densi, con un arco di sviluppo perfettamente costruito sulla breve durata: la performer compare sul palco nuda, concedendosi un lungo momento di osservazione del pubblico. Poi procede lentamente a infilare un indumento dopo l’altro, fino a far scomparire il proprio corpo dietro una montagna di tessuto. Il senso è trasparente: Mallika Taneja rappresenta in via simbolica quel processo di mortificazione e castigo del corpo che la società richiede alla donna come via per l’autotutela. A leggere queste poche frasi, Be Careful potrebbe sembrare un lavoro assertivo e didascalico.

 

Be Careful di MallikaTaneja, ph. Tristan Petsola.


Taneja sfugge a questo rischio grazie a due efficaci strumenti. Per prima cosa sceglie di indirizzare la propria attenzione drammaturgica non sulla violenza della società sulla donna, ma piuttosto su quei processi mentali che la donna ha fatto suoi replicandoli più o meno consapevolmente. Il titolo (“stai attenta!”) indica l’insidiosa presa di coscienza che la responsabilità di ciò che può accaderci è, almeno in parte, nostra. Il cambio prospettico riduce di molto la distanza apparente tra la realtà indiana alla quale l’artista fa riferimento, e quella a cui appartiene l’emancipatissimo pubblico santarcangiolese. “Devi sentire l’atmosfera, e agire di conseguenza”, intima Mallika a sé stessa, mentre indossa la trentesima maglietta. La necessità di ‘accordarsi’ all’ambiente che ci circonda, di risultare appropriate, di non farsi notare troppo – o, se questo non accade, la paura di spiacevoli effetti collaterali – plasma invisibilmente i comportamenti anche delle donne più emancipate, ed è la tossica calce di molti edifici educativi.

Il secondo ingrediente che rende Be Careful qualcosa di ben più interessante di uno spettacolo “a tesi” è la contagiosa ironia della performer, che si propaga sull’intera drammaturgia e detta la temperatura di relazione con il pubblico: Mallika scherza, lascia il tempo della risata, guarda impertinente verso il pubblico, come a prendersi gioco di ciò che di conservatore resiste nel mondo e in sé stessa.

 

Piece for Person and Ghetto Blaster di Nicola Gunn, ph. Sarah Walker.


Un’attitudine performativa altrettanto autoironica contraddistingue anche il lavoro dell’artista australiana Nicola Gunn. Il suo Piece for Person and Ghetto Blaster è un folle dialogo filosofico-morale scandito da musica e coreografia. Senza fermare mai la sua partitura di movimento, Nicola racconta un bislacco episodio: un uomo senza motivazioni apparenti tira sassi a un’anatra indifesa, e un’osservatrice attonita (forse la stessa Nicola) si domanda come sia giusto agire. 

La vicenda si rivelerà poco altro che un contenitore per una corrosiva presa in giro dei buonismi etici da post Facebook, dell’incapacità dell’arte di agire sulla vita, della infinita serie di autogiustificazioni che un cittadino di buon livello culturale è in grado di creare per sé stesso.

La drammaturgia, costruita tutta su apparenti deviazioni e parentesi, si rivela in realtà un precisissimo calcolo matematico dove tutto torna e niente è lasciato al caso; il linguaggio utilizzato è capace di accogliere e risputare, come un tritacarne, riferimenti alti e bassi, paradossi logici, massime in latino e volgarità da “ghetto blaster”. La Gunn con humour nero calpesta ogni forma di politically correct (“Sono stata a Beirut. Ho dovuto fare jogging tra i carrarmati. Ma il falafel è buono”) e distrugge con fervore iconoclasta i più noti simboli culturali (“Cosa avrebbe fatto Marina Abramovic in questo caso? Si sarebbe frapposta nuda tra l’uomo e l’anatra? O forse sarebbe corsa a fare un’altra puntura di botox?”). 

Alla fine, si scoprirà, il bersagliatore di anatre non è altro che un artista: presenterà gli esiti del suo percorso di ricerca alla Biennale. Qualcuno fa violenza senza motivazione apparente su un essere vivente indifeso? Possiamo stare tranquilli e non intervenire: potrebbe essere arte.

 

Multitud di Tamara Cubas, ph. Rafael Arenas.


Singole Moltitudini (Massimo Marino)

 

Un salto all’indietro. Primo fine settimana di Santarcangelo. L’impressione è che il festival diretto da Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino ti apra una porta misteriosa per trascinarti verso diverse forme di trance, dove gli artisti ti misurano con il tuo senso della vertigine. Gira, Alessandro Sciarroni, gira in Don’t be frightened of turning the page, in una palestra, alla luce del giorno, come in un esercizio di ginnastica metafisico, andare-tornare-ruotare ruotare-tornare-andare... Pulsa dalle parti dell’estasi fisica Michelle Moura in Fola, rivelando un tatuaggio che la trasforma in uno scheletro: sospensione del vivente? Si fuggono, in piazza, si cercano, si scontrano, si ammucchiano i giovani interpreti di Multitud dell’uruguayana Tamara Cubas, in una metafora insistita, espansa, troppo carica di ripetizioni e di momenti morti delle relazioni di folla. La forza dell’azione è data dal fatto che si tratta di un gruppo misto, di cittadini, di appassionati di teatro, di attori e danzatori o aspiranti tali. Si cercano fino a togliersi i vestiti, a scambiarseli l’uno con l’altro, a denudarsi in qualche caso, lanciando gli indumenti in aria, riprendendoli, scartandoli, facendoli indossare all’altro o all’altra, in un mucchio di corpi nudi, seminudi, che naturalmente genereranno lo scandalo sui soliti insopportabili giornali benpensanti, incuranti, quei giornali, della pornografia che in ogni momento pervade il nostro mondo, quella dei corpi patinati o casalinghi esibiti spogliati di sé ogni giorno sui media e soprattutto la pornografia della paura dell’altro, dell’esclusione, dell’assassinio di stato in mare. Multitud è ripetitivo, insistito, debordante, noioso, troppo simile a certe azioni del Living Theatre: eppure mette in scena, in un festival come questo dedicato al cuore che sussulta per la paura, per le paure che ci avvinghiano, uno dei maggiori motivi di timore del nostro vivere, quello di essere troppo simili a chiunque altro e di non volerlo riconoscere, perseguendo anche con la violenza una singolarità che diventa chiusura.

 

Chroma Keys di Silvia Calderoni/Motus, ph. Tani Simberg.


Ma tra i tanti titoli del festival anch’io mi concentrerò su due di essi. Torna in piazza Silvia Calderoni, con i Motus, a esplorare identità in Chroma Keys, ironico viaggio nel Fuori, oltre il chiuso polveroso dei teatri, oltre i limiti dell’immaginazione, oltre i confini delle identità. La bionda performer è su un tappetino con schermo di fondo, tutti verdi. La riprende Daniela Nicolò con una telecamera che con vecchi trucchi, Truka e Chroma Keys appunto, la rimanda sul grande schermo in un altro punto della piazza, inserendo la sua figura in sequenze di film. Silvia Calderoni gioca a trasformarsi con piccoli elementi, abiti, oggetti, e la troviamo precipitata in folli corse in macchina alla Godard, in panorami minacciati da uccelli alla Hitchcock, in rudi paesaggi western o mistici ambienti montani e desertici, pronta all’ultimo duello, alla fuga, al volo sulle cime, allo schianto in mare. Non ci sono limiti al corpo moltiplicato dall’immaginazione cinematografica. Non ci sono confini di identità, come nel meraviglioso MDLSX, lavoro con cui la performer gira ormai il mondo da qualche anno. Se là si trattava principalmente di identità sessuale con una dichiarazione di libertà di assumerne, percorrerne varie, seguendo le inclinazioni della soggettività, qui il discorso, con un sorriso ironico e con un ritmo travolgente, si apre alle identità immaginarie, come un gioco di bambini in cui si può trasformarsi in qualsiasi essere, basta dire: facciamo che io ero. La formuletta magica è realizzata per via tecnologica, con il sostegno della factory Motus (Enrico Casagrande alla regia), in fondo in un low-tech che esalta le possibilità associative, grazie anche alla spigliata, prodigiosa capacità di attraversare mondi dell’interprete-creatrice, un sudato, gioioso inno alle possibilità metamorfiche del lavoro d’attrice, della fantasia, dell’essere umano.

 

Scavi di Deflorian-Tagliarini, ph. Tristan Petsola.


“Mi fanno male i capelli”: ricordate? Deserto rosso, Monica Vitti, il personaggio di Giuliana. La battuta famosa è la prima frase che senti seduto in un gruppo di persone disposte variamente in un’aula della scuola Pascucci di Santarcangelo. La pronuncia Daria Deflorian, seduta in mezzo a una quarantina di spettatori con i suoi compagni Antonio Tagliarini e Francesco Alberici. È l’incipit di un viaggio nella lavorazione del film di Antonioni del 1964, compiuto attraverso diari dell’aiuto regista, dichiarazioni, lettere dei protagonisti, documentari. Si chiama Scavi questo lavoro archeologico, nato affianco alla preparazione del prossimo spettacolo della compagnia Deflorian-Tagliarini, che debutterà in autunno col titolo Quasi niente. Però Scavi non è un lavoro minore: rappresenta pienamente la poetica di artisti che stanno profondamente rinnovando il nostro teatro, portandolo di spettacolo in spettacolo dentro nodi dolenti della condizione contemporanea, con una scrittura scenica (e letteraria) sempre più incisiva, basata su slittamenti minimi ma vorticosi tra l’interprete e il personaggio, tra la confessione quotidiana e il salto politico, esistenziale, umano, perfino metafisico, con tutti i possibili stati di passaggio, tutti i “tra” che caratterizzano il presente. Non c’è, apparentemente, plot, non c’è finzione, ma un continuo proiettarsi altrove e ritornare a sé, per piccoli salti o sgretolamenti, scivolamenti, cedimenti, impennate: fino a rivelare qualcosa di intimamente nascosto.

 

Qui si raccontano alcuni passaggi della lavorazione del film del maestro ferrarese, storie di individui sullo sfondo di un cambiamento epocale della società italiana verso l’industrializzazione. Si parte dai capelli, e dal semplice atto del pettinarsi, e subito dal film si scivola al sé dei performer. Giuliana, il personaggio, nelle sequenze è spesso spettinata, per incuria, per interventi della macchina del vento, per precipizio verso il buco nero della follia in un mondo, in un sistema di relazioni che non comprende più. Monica Vitti, appena finiva di girare le sue sequenze spettinate, iniziava compulsivamente a ridare ordine ai propri capelli. Da questo episodio Daria passa a riflettere sul proprio rapporto con il pettinarsi, e a quello della madre, contadina trentina, e così gli altri performer, finché non si manifesta il vero soggetto dei racconti: lo sfiorire della gioventù, della salute, della bellezza, il precipitare verso il dolore, la malinconia, lo sgretolarsi della propria immagine, il momento del non riconoscersi. Sono evocati, dalla preparazione del film o dai propri ricordi, la poetessa Amelia Rosselli, Patti Smith, una ragazza malinconica, in un denso, insidioso apologo sui capelli, sull’angoscia, sugli psicofarmaci per sopravvivere, con la vergogna di non essere adeguati. Una battuta, di Daria: “Giuliana nel film ha tentato un suicidio, che non vediamo, nessuno ne parla. Antonioni la definisce in una intervista ‘una nevrotica, con tratti psicotici che ha allucinazioni visive e uditive’. Solo se vedi il film più di una volta ti accorgi che lei in una scena prende una pasticca da un barattolino, quasi di nascosto, in secondo piano”. Ciò che si vede, che appare, e ciò che sta sotto, che rode, che fa stare male. 

 

Michelangelo e Tonino Guerra, l’austero rigore e la vitalità. Monica e Michelangelo, che alla fine del film si sono lasciati. E altri abbandoni. “Monica mi ha lasciato…. Non sono abituato a gestire il dolore”. Documentari, lettere, confessioni. Andare sotto l’opera, dentro le sue urgenze, i suoi inciampi… Un’intervista cinematografica a Lea Massari che non si fa: lei apre la porta alla troupe, disfatta: “Si era lasciata andare… Non si veste più, non esce più, non è più lei”, racconta il regista del film. La prigionia della bellezza. L’invecchiamento, nella vita, nella vita degli attori, di Daria, di Antonio, di tutti noi… Lo sguardo verso il rendiconto. La neve, la neve. Era un altro finale di Deserto rosso, non girato. Non solo la macchina che si aggira tra le fabbriche. Neve che cade, bianco, neve. I tre performer aprono le finestre. Entrano i rumori della piazza di Santarcangelo. Daria, Antonio, Francesco guardano fuori, lontano. Muti.

Molti spettatori hanno gli occhi umidi da questo incedere in profondità, che sembra fatto di poco o niente (quasi niente) e che come il cinema, come la cultura degli anni sessanta, riesce a parlare di noi. Scuoiandoci con un bisturi. 

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