A ruota libera

27 Agosto 2024

Una vecchia barzelletta, un po’ sciocca e un po’ geniale, può funzionare da oggetto teorico per ripensare, in generale, la tecnica. C’è un tizio, a Napoli, che potenzia ogni giorno di più la sua automobile e se ne vanta con gli amici: “ieri per fare la Napoli-Roma ci ho messo un’ora e tre quarti”; alcuni giorni dopo: “per andare a Roma ci ho messo un’ora e mezza”, poco dopo ancora: “un’ora e un quarto!”. Passato un mesetto gli amici lo incontrano solo, triste e soprattutto senza macchina. “Cosa è accaduto? Dov’è l’auto?”. “L’ho venduta!”. “Ma come, proprio quando eri riuscito a farla andare così veloce!”. “Sapete – replica il tizio –, a Roma non avevo nulla da fare…”. 

Come dire che non basta poter fare qualcosa, occorre anche e soprattutto trovare un senso a questo qualcosa, una direzione, certo, ma anche un valore. Vado a Roma velocissimo, ma perché? Accade difatti che molte invenzioni tecnologiche esistano prima che ne se comprenda la ragione. Gli ingegneri si ingegnano, sperando, poi, che qualcuno, a posteriori, acclami le loro trovate, trovi a esse un contesto, un ambiente, una storia che le fornisca di una funzione, pratica o simbolica non importa. Dopodiché, rovesciando cause ed effetti, mezzi e fini, arriva il problem solving, l’idea cioè che quell’ingegnere là s’era ingegnato perché qualcuno, individuo o gruppo che sia, aveva, a monte, una difficoltà da affrontare, un quesito da sciogliere, un ostacolo da sormontare. Pensate al telefonino quando non era uno smartphone: nessuno prima della sua diffusione avrebbe mai pensato, e voluto, chiacchierare con un’amica o controllare la figliolanza mentre stava al supermercato o sfrecciava in autostrada (rileggere l’Augé dei Non-luoghi per conferma). Adesso, a cose fatte, ci chiediamo come facessimo allora, come dire vent’anni fa, a setacciare l’esistenza dell’adolescente o a mantenere fervide, in spiaggia, le relazioni affettive con le ex compagne del liceo. Pensate che il suo inventore potesse immaginarlo?

Prendiamo il caso della ruota, il cui arrivo nella storia è sempre stato salutato come una delle principali conquiste nelle società umane, al pari della lavorazione dei metalli o della scrittura. Sorvoliamo sulla parola ‘conquista’, di estrema polisemia (al pari di ‘progresso’, non sempre convincente), e concentriamoci sulla supposta cosa in sé, ammesso che sia mai esistita come tale. Come ben spiega Harald Haarman in L’invenzione della ruota (Bollati Boringhieri, pp. 170, € 20), quest’arnese rotondo che gira trasportando uomini e cose è frutto di un lungo e complesso processo di molteplici e specifiche ideazioni, al punto che non si capisce bene dove e come sia venuta fuori: la solita Mesopotamia, il bacino del Danubio, oppure?.

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Certo, a un dato momento i tronchi d’albero che si mettevano sotto le slitte per trascinare robe assai pesanti sono stati segati a striscioline, assai più pratiche e a loro volta spostabili. Ma questa che oggi chiamiamo ruota piena (l’arrivo dei raggi l’alleggerirà parecchio e porterà – evviva! – al suo uso bellico), spiega Haarman, nel passaggio dal quinto al quarto millennio a.C. non stava affatto in verticale, come oggi abitualmente la visualizziamo, bensì in orizzontale. Serviva infatti per formare un tornio, il quale, si sa, partecipava da vicino alla produzione della terracotta o, meglio, alla sua estetizzazione. Grazie a quest’oggetto che gira con regolarità, il vasetto in ceramica aveva un aspetto più gradevole, era simmetrico, rotondeggiante, senza bitorzoli, e poteva pure essere ornato con cura, dando luogo a decorazioni seriali regolari. 

Insomma, la ruota non è nata, come ci aspetteremmo, soltanto per una funzione pratica (dislocare) ma anche estetica, e soprattutto simbolica. Quando dalle steppe asiatiche, dove scorrazzava alla bell’e meglio, quest’oggetto rotondo arriva in Egitto a formare un carretto, ecco che la splendida Nefertiti la usa per andare in corteo, per farsi ammirare dai suoi sudditi e, soprattutto, per significare il suo assoluto potere di vita e di morte sul popolo tutto. Essere trasportabile, come i lastroni delle piramidi, era segno divino, dunque di immensa forza, di incontrastato dominio. 

Non è un caso, a proposito di quest’intreccio fra necessità materiali e intenti semiotici, che il carro a quattro ruote (agile in battaglia) sia apparso praticamente insieme a quello a due (utile per il trasporto), mentre quello a una sola ruota, ossia la carriola, sia arrivata millenni dopo, grosso modo nel 400 a.C.: prima viene l’uso sociale, poi quello individuale. Ma la guerra, prima ancora d’essere combattuta, era segno di se stessa, significava, appunto, potenza e terrore, di modo che il carro bellico aveva più che altro funzione di rappresentanza, funzione sociale anch’essa, ovviamente: portava in sfilata eroi più o meno mitici, generali, condottieri, regnanti. Del resto, non c’è monumento che non rappresenti una quadriga. Per non parlare degli usi metaforici e visivi, dunque assai stringenti, della ruota, per esempio nei calendari delle civiltà precolombiane, o nell’astronomia occidentale dove, grande o piccolo che sia, il carro era – ed è – fra le costellazioni più facilmente riconosciute. Platone, per spiegare cos’è l’anima, immaginava un auriga-intelletto che guida – cioè controlla – un carro con due cavalli, uno concupiscibile e l’altro sensibile, i quali tutti, senza le rotelle, non avrebbero avuto dove andare. Esattamente come il tizio della barzelletta che ha l’automobile potentissima ma non se ne fa un baffo, la ricerca del senso della vita, il viaggio verso il bene supremo, prevale sulla vita stessa.

A proposito di strumenti mobili, sembra inoltre che, nel quarto millennio, dall’incontro commerciale fra i contadini danubiani e i popoli della steppa, come dire fra stanziali e nomadi, sia nato un ibrido antropologico di cui ancora una volta la tecnologia della ruota è fautrice: il carro-casa, dove si stipava tutto il necessario per la vita familiare. Con questa invenzione i girovaghi potevano continuare a restar tali avendo però un’abitazione, e viceversa gli stanziali conservavano la loro territorialità pur potendo viaggiare. Una specie di roulotte ante litteram, ma senza scopi turistici, che ha come suo opposto quasi simmetrico l’inamovibile tempio del sole di Kornak, nel subcontinente indiano, che raffigura un carro da guerra, ma scolpito nella roccia, con tanto di ruote e cavalli in pura pietra calcarea. Bloccare il movimento è il miglior modo per sublimarlo. A condizione di conoscere per bene la meta impossibile. Le ruote dentate degli ingranaggi industriali che catturano Charlot in Tempi moderni hanno una lunga storia, e una vastissima geografia.

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