Tutti in ansia e insicuri
Il libro di Jonathan Haidt La generazione ansiosa (Rizzoli, 2024) è un’allarmata riflessione non solo sulle nuove generazioni e sul loro rapporto con gli smartphone e i social, ma anche e soprattutto sul modo in cui gli adulti stanno educando i bambini e gli adolescenti. L’idea che emerge dal libro è che l’intera società sia pervasa da una eccessiva preoccupazione nei confronti dei giovani. Negli ultimi cinquant’anni si è sempre più diffusa l’idea dei bambini come esseri fragili, immaturi, bisognosi di continua sorveglianza in un mondo pieno di pericoli. Per questo sempre più si affermano valori educativi per cui i figli devono essere protetti, la loro autonomia può essere rischiosa e per questo devono restare vicini alla madre, i genitori devono soprattutto rispondere ai loro bisogni e così via. Questo orientamento è ispirato da un ideale protettivo “materno”, che non mette in ombra solo i valori “paterni” di promozione dell’autonomia, ma anche la funzione evolutiva del gruppo fraterno dei pari, che ne risulta frenata. Con i coetanei un ragazzo può condividere esperienze di gioco libero, competitivo e collaborativo, che inevitabilmente possono essere rischiose, ma che nello stesso tempo lo formano ad affrontare le difficoltà della vita. È un’area dello scambio fra pari che i social hanno progressivamente occupato, appropriandosi del tempo libero dei ragazzi e contribuendo a ridurre la loro spinta al gioco all’aperto non sorvegliato. In questo modo, paradossalmente, l’uso degli smartphone ha contribuito a tenere i ragazzi in casa, proteggendoli dai rischi del mondo reale.
Come è possibile che l’ansia dei genitori e degli adulti in genere sia aumentata proprio in un’epoca in cui la mortalità infantile è in costante diminuzione e complessivamente i bambini stanno meglio e sono sempre più sicuri? Il cambiamento demografico con la riduzione del numero di figli per famiglia li ha resi sempre più preziosi ed è certo possibile che questa preziosità abbia contribuito ad aumentare l’attenzione preoccupata dei genitori. Ci sono stati anche grandi cambiamenti nel modo di interpretare i ruoli famigliari, con un’educazione sempre più ispirata dall’attenzione al legame e alla vicinanza nelle relazioni, che dal richiamo all’autorità, di fronte alla quale un ragazzo è chiamato ad assumersi responsabilità.
Oltre a questi fattori intrafamiliari, tuttavia, abbiamo assistito a una progressiva scomparsa di ruoli sociali che si assumano la responsabilità della crescita delle nuove generazioni. Nei riti di iniziazione delle società primitive erano gli adulti al di fuori della famiglia che si facevano carico della costruzione dell’identità sociale degli adolescenti. Nella società attuale, invece, questa funzione è praticamente scomparsa e al suo posto sono andati a collocarsi proprio i social, che rappresentano il mondo fuori, ma che favoriscono uno scambio orizzontale, tra pari, invece che tra adulti autorevoli e le nuove generazioni.
Accanto a questi fattori (meno figli, più affetto e meno regole, più responsabilità dei genitori e meno responsabilità sociale) c’è un’altra possibile spiegazione di quest’ansia generalizzata. Il riferimento è a due diversi stili educativi che per certi aspetti rimandano a due generali “strategie” riproduttive, che non sono solo il frutto di scelte culturali, perché si ritrovano anche in natura, in altre specie. La prima strategia si basa su un ambiente sufficientemente prevedibile e sicuro in cui i piccoli possono nascere e crescere: in questo caso è più probabile che si facciano meno figli e più tardi, che si valorizzino i legami, che si investa molto sull’acquisizione di competenze, con un’autonomia ritardata e con una tendenza a vivere all’interno dell’ambiente sicuro e a correre meno rischi. Il fatto sorprendente è che proprio questa “cultura” educativa è naturalmente correlata a una maggiore ansia.
La seconda strategia, invece, è tipica di storie di vita caratterizzate da grande imprevedibilità, forti disagi, uno sviluppo precoce, un numero maggiore di figli, legami di coppia meno stabili, una maggiore attenzione al presente invece che al futuro. In queste situazioni normalmente non prevale l’ansia, come forse ci si potrebbe aspettare, ma l’impulsività, la tendenza a correre rischi e a non avere paura. Sono due traiettorie di vita altrettanto valide dal punto di vista evoluzionistico, perché il loro successo dipende dai diversi ambienti di sviluppo a cui si applicano: in una società imprevedibile e instabile conviene accelerare lo sviluppo, non avere paura, correre rischi e non pensare al domani. In una società stabile, invece, è logico pensare al futuro, non fare scelte impulsive, creare legami stabili e preoccuparsi (anche eccessivamente) delle conseguenze dei propri comportamenti.
Questi due stili di vita possono essere naturalmente presenti all’interno di una stessa società e caratterizzare diversi tipi di famiglie o di personalità individuali. Da una parte, infatti, ci sono famiglie più instabili, impulsive, poco responsabili, tendenzialmente più numerose, in cui correre rischi senza paura è normale (un orientamento spesso associato a un livello di minore benessere sociale). Dall’altra ci sono famiglie che tendono a fare meno figli e più tardi, in cui i legami sono più stabili, i cui figli hanno meno fretta di crescere e in cui prevale il controllo ansioso (uno stile che si trova più frequentemente in contesti sociali in cui c’è una maggiore sicurezza, anche economica).
Questa differenza si traduce anche in due diversi modi in cui gli adolescenti affrontano i loro compiti evolutivi. Alcuni adolescenti, infatti, hanno uno stile internalizzante, con più ansia e depressione, che è più frequente nelle femmine e che sembra caratterizzare proprio la generazione ansiosa attuale. Altri adolescenti, invece, hanno uno stile opposto, esternalizzante, caratterizzato da una maggiore spavalderia e impulsività e dalla tendenza a correre rischi (più frequente nei maschi).
Gli adolescenti che commettono reati, per esempio, hanno spesso uno stile di personalità caratterizzato da impulsività, tendenza a correre rischi, ad avere confronti competitivi anche violenti, con uso di sostanze e di fondo una scarsa responsabilità. Sono ragazzi, spavaldi, che non hanno paura o comunque che mostrano di non averla (il contrario della generazione ansiosa), che investono molto sui legami di gruppo, che pensano al presente più che al futuro e che in molti casi vivono una vita da strada.
I dati indicano che nella società attuale i disturbi esternalizzanti sono costantemente diminuiti negli ultimi decenni, mentre quelli internalizzanti sono aumentati (come ben documenta Haidt), con un’impennata dal 2010, non solo per le femmine, ma anche per i maschi, tanto che mentre in passato era più tipico dei maschi un comportamento spavaldo, impulsivo e volto a correre rischi, oggi anche in loro lo stile internalizzante è diventato prevalente. Sempre più adolescenti, per esempio, soprattutto maschi, si ritirano in casa per mesi o anni, con una sindrome di ritiro sociale acuto, che ha preso il nome dagli hikikomori giapponesi.
Anche i dati sulla devianza minorile confermano che c’è una tendenza alla riduzione dei reati su scala internazionale già a partire dagli anni Novanta, che si è accentuata dopo il 2015. In Italia, in particolare, i reati minorili sono stati relativamente stabili fino al 2015, con una progressiva riduzione, fino al crollo nel 2020, a causa delle restrizioni del Covid, e un successivo forte rimbalzo nel 2021 e 2022 (che sembra però già rientrare nel 2023). L’interpretazione prevalente di questa tendenza al calo dei reati è che non sia tanto dovuta a condizioni di maggiore benessere o a una maggior controllo delle forze di polizia, ma che sia in relazione a cambiamenti negli stili di vita, soprattutto una riduzione del tempo libero passato in gruppo in contesti non sorvegliati. Anche l’uso degli smartphone e dei social ha contribuito a questo effetto, tenendo incollati i ragazzi agli schermi e togliendoli così dalla strada e dalla vita di gruppo e dai suoi rischi.
La diffusione dei social, quindi, sembra aver avuto un effetto paradossalmente positivo sui comportamenti trasgressivi e violenti degli adolescenti, perché mentre ha aumentato i problemi internalizzanti, caratterizzati da emozioni di paura, tristezza, vergogna, e ha diminuito quelli esternalizzanti, caratterizzati dalla rabbia. In passato, con la diffusione della televisione prima e dei videogiochi poi, una delle principali preoccupazioni degli adulti era che l’esposizione a contenuti violenti nel mondo virtuale avrebbe prodotto un aumento dei comportamenti violenti nel mondo reale. Questa profezia non si è avverata. I ragazzi più violenti non erano quelli che passavano più tempo davanti alla televisione o ai videogiochi, ma quelli che vivevano l’avventura sregolata della strada. I social stanno in parte cambiando questo stato di cose, non come conseguenza della perdita di confine tra virtuale e reale, ma a causa del potenziamento dell’effetto contagio.
Tutti noi tendiamo a uniformarci, nei valori, nelle convinzioni e nei comportamenti, alle persone alle quali ci sentiamo più affini, ma il bisogno degli adolescenti di costruire un’identità sociale li rende particolarmente avidi di modelli. La ricerca della propria unicità passa attraverso l’identificazione con chi mostra di essere più avanti nella ricerca di soluzioni nei problemi evolutivi, un bisogno che li espone a un inarrestabile contagio. I social sono un naturale amplificatore di questo effetto naturale, che si tratti di imitazione di gesti autolesivi o di comportamenti violenti. Ne è una testimonianza, per esempio, il fenomeno delle risse, con gruppi convocati via social, subito filmate e diffuse in rete, in una sorta di contagio imitativo immediato. Anche le risse, comunque, che in Italia negli anni post-Covid hanno molto allarmato l’opinione pubblica, grazie anche ai filmati reperibili in rete, nel 2023 sono diminuite del 16% rispetto al 2022.
In sintesi, per i ragazzi violenti e senza paura i social hanno più un effetto di amplificazione che di produzione della rabbia, a cui forniscono un palcoscenico. Tradizionalmente cultura e delinquenza sono pensati come un’antinomia, eppure in questi anni per la prima volta in Italia si assiste a un nuovo fenomeno: grazie ai social molti ragazzi che commettono reati, che provengono da contesti disagiati, si raccontano attraverso la musica trap che pubblicano in rete, esprimendo così le loro aspirazioni e la loro rabbia, arrivando a un numero impressionante di ascolti, con un successo che va ben al di là dei confini delle periferie da cui provengono, tanto che qualcuno ha detto che la musica trap oggi è l’unico vero ascensore sociale che sia rimasto ai giovani. Prima di tutto si rivolgono ai loro coetanei, ma fare musica per questi ragazzi è anche un modo di rendersi visibili agli occhi della società, raccontando le loro aspirazioni e la loro realtà, esibendo contenuti spesso provocatoriamente violenti, in cui fanno paura, ma non hanno paura.
L’analisi di Haidt sottolinea il rischio che una società ansiosa renda insicuri i bambini e gli adolescenti, riducendo la loro possibilità di sperimentare l’autonomia. L’appello con cui si conclude il libro, tuttavia, è “Riportiamo a casa i nostri figli”. Questo slogan è di nuovo ispirato dal desiderio di proteggere i giovani (dal mondo virtuale e non reale questa volta), facendo risuonare paradossalmente proprio quell’ansia che il libro denuncia come dannosa per lo sviluppo. Haidt paragona il mondo dei social a Marte, un luogo sconosciuto e pieno di pericoli, da cui gli adulti dovrebbero tener lontano i figli, riportandoli sulla terra. È allo stesso tempo un luogo pericoloso e una specie di paese dei balocchi, pieno di insidie e di attrazioni, che rischia di trasformarli in ciuchi, proprio come accade a Pinocchio.
La soluzione proposta è una articolata regolamentazione, che si traduce soprattutto in una serie di divieti, come se invocasse il ritorno di un padre capace di dire di no, che abbia la forza di sottrarre il cellulare a casa o a scuola. Eppure, quello che manca di più ai preadolescenti e agli adolescenti di oggi non è un genitore che cerchi di proteggerli in modo ansioso o che sia capace di dire di no, ponendo dei limiti. È piuttosto la figura di un adulto (non solo un genitore, ma anche un insegnante o un educatore) che si faccia carico della loro crescita e che li aiuti a intravedere un futuro possibile. È un adulto che invece di vietare aiuta a esplorare, non lasciando soli i ragazzi nell’avventura della scoperta di quel nuovo mondo che inevitabilmente sarà il mondo virtuale in cui dovranno vivere.
Leggi anche:
Elena Dal Pra | Jonathan Haidt: La generazione ansiosa
Vittorio Gallese | Haidt: quelli che... il digitale
Ivan Levrini | Meno cellulari e più trapani
In copertina, illustrazione di © Giselle Dekel.