Un’architettura migliore
Che fare per l’architettura a Milano vista la nuova situazione politica? Qualcosa di semplice, di sufficientemente fattibile, e allo stesso tempo qualcosa che abbia delle conseguenze apprezzabili nella città, non una mostra, non un dibattito, non una rivista, qualcosa di più.
Riassumiamo alcune condizioni, ripetendo anche delle cose piuttosto banali, che servono a impostare un discorso:
- l’architettura è una disciplina al servizio della città, ma è anche un’attività produttiva. A Milano, l’architettura va considerata in questo duplice aspetto di tecnica che può produrre una città migliore e di professione che può generare occupazione, ricchezza, innovazione;
- Milano è attiva in settori non lontani dall’architettura, come il design e la moda;
- Milano ha una buona scuola di architettura (per quanto magari questo vi stupisca considerata la cattiva stampa di cui, non del tutto a sproposito, gode l’università italiana) e produce una quantità più che sufficiente di giovani architetti preparati;
- la città in questi anni si è trasformata o per grandi interventi, prevalentemente privati, spesso isolati dai loro contesti come ad esempio l’area della ex Fiera, ora nota come “City Life”, o attraverso una miriade di trasformazioni, tanto pubbliche che private, di cui nessuno ha reclamato responsabilità e che sembrano essersi prodotte da sole, come il demenziale labirinto di tapis-roulant con cui è stata intasata la stazione;
- a Milano negli ultimi anni, pur considerando anche gli interventi finanziati o realizzati da privati per scopi pubblici, si sono realizzati pochissimi interventi pubblici, soprattutto alla scala intermedia (scuole, asili, case di riposo, palestre, sale concerti, campi sportivi). Questa situazione ha avuto conseguenze molto negative sulla città, di fatto eliminando una serie di elementi che avrebbero potuto costruire legami tra le sue differenti parti, e sul sistema produttivo, eliminando opportunità che avrebbero potuto far crescere il mondo professionale.
Credo che la nuova amministrazione debba riconoscere la qualità della città come un esplicito obiettivo politico, senza limitarsi a gestirne le trasformazioni all’insegna della trasparenza, dell’efficienza e del risparmio. La città deve essere bella, e questo obiettivo deve essere dichiarato, senza limitarsi a garantire la correttezza delle procedure. Conta anche il risultato, non conta solo il metodo.
La pubblica amministrazione in Italia sembra infatti vivere in una specie di incubo metodologico: lo spettro della Corte dei Conti aleggia su tutti gli uffici pubblici: tutto deve poter essere spiegato davanti alla Corte e questo produce procedure cervellotiche in cui nulla conta il risultato finale ma solo conta la possibilità di giustificarsi punto per punto per ogni singolo episodio del processo. In questo clima di sfiducia, i funzionari pubblici si dividono in una maggioranza corretta e pavida e una minoranza fin troppo coraggiosa, ma disponibile a rischiare solo per interessi personali. Questa situazione può mutare solamente immaginando nuovi organi costruiti in modo da aiutare i propri membri ad assumersi responsabilità nell’interesse collettivo. Per fare questo, è necessario costruire dei gruppi di lavoro che operino per periodi determinati, unendo persone con molteplici competenze, provenienti da esperienze professionali differenti e definire procedure per la valutazione dei risultati ottenuti. Inoltre sarebbe utile lavorare per oggetti individuabili: edifici e spazi che possano essere pensati come progetto e giudicati come risultato, non solo giustificati come processo (quindi, a parità di risorse investite, meglio un intervento piccolo che venti interventi minuscoli, meglio una nuova casa di riposo che venti scale di sicurezza aggiunte a vecchie case di riposo). Facciamo delle cose piccole, ma che abbiano un nome, un indirizzo, su cui si possa almeno esprimere un giudizio.
Proprio questi interventi alla piccola scala potrebbero fornire l’occasione per sperimentare a Milano nuove strategie urbane e una nuova gestione degli interventi edilizi, in particolare di quelli pubblici o pubblico-privati. Non si tratta di nulla di nuovo, altre città, regioni e nazioni europee hanno attivato da anni meccanismi di questo tipo. Alcuni tentativi di questo tipo sono stati tentati anche a Milano recentemente (ad esempio con i concorsi “Abitare a Milano”) e in questo senso sembrano orientate anche alcune indicazioni del nuovo PGT, eppure tutto sembra avvenire in modo piuttosto sporadico: si tratta sempre di iniziative eccezionali, che non riescono a diventare sistema.
Il modello più interessante a cui guardare in questo momento è quello, costruito a partire dalla secolare esperienza olandese, adottato nelle Fiandre a partire dal 1999 (www.vlaamsbouwmeester.be). Qui, è stato attivato l’ufficio dell’architetto di stato (Vlaamsbouwmeester). Questo ufficio, che è responsabile per l’intera comunità fiamminga (più di 6 milioni di abitanti), e che opera con un personale piuttosto ridotto (circa 20 persone), è coordinato da un architetto scelto ogni cinque anni dal governo fiammingo. L’architetto di stato opera come un’interfaccia tecnica tra il mondo professionale, quello accademico e gli amministratori, perfezionando da un punto di vista disciplinare le strategie decise dai politici. Non sostituisce i funzionari pubblici incaricati della pianificazione e della gestione degli appalti, piuttosto agisce come un curatore, un consulente che, in base alla sua esperienza e alla sua sensibilità di progettista, aiuta a individuare le forme necessarie a realizzare gli obiettivi politici assegnati.
All’inizio del suo mandato, l’ufficio dell’architetto di stato definisce un documento strategico che individua alcune linee guida e fornisce poi consulenze alle amministrazioni (in particolare sulla progettazione delle infrastrutture) e sceglie, attraverso una procedura chiamata “Open Call”, i progettisti e le giurie invitati a competere e a giudicare in merito ai differenti interventi da realizzare. Questo sistema consente alle amministrazioni pubbliche di realizzare o coordinare progetti di qualità attraverso una procedura sperimentata e consente all’architetto di stato di sviluppare una ragionevole politica culturale, selezionando e sostenendo un gruppo di professionisti che potranno poi, a partire dall’esperienza acquisita e secondo la qualità delle loro realizzazioni, entrare in un più ampio mercato internazionale. È importante sottolineare che l’architetto di stato non è responsabile solamente per alcune procedure eccezionali, ma per l’intera crescita del territorio di sua competenza. Questo non significa che si occupi di tutte le trasformazioni, ma che può scegliere di quali trasformazioni occuparsi, individuando gli interventi cruciali per perseguire i suoi obiettivi istituzionali. In altre parole, la qualità non è considerata un lusso, ma un’esigenza di base. La cultura non si misura con la città all’interno dei recinti di un apposito zoo, ma interviene nel meccanismo decisionale normale. Un sistema di questo tipo, se applicato in Italia, potrebbe forse sostituire un’istituzione anacronistica come l’ordine degli architetti. Infatti, è decisamente più sensato che sia un ente pubblico e non una corporazione a garantire la qualità della progettazione delle nostre città.
Certamente, l’introduzione nell’apparato amministrativo italiano di una figura come quella del Vlaamsbouwmeester non è immediata. Tuttavia credo che, a Milano, al livello della città, sia possibile provare a sperimentare qualcosa di simile. Qui, più che sulle innegabili difficoltà dell’iniziativa, possiamo richiamare l’attenzione su due condizioni simmetriche che, a Milano, in questo momento, si potrebbero realizzare: la disponibilità dell’amministrazione a sperimentare procedure innovative mettendo anche in discussione i suoi apparati e la disponibilità di alcuni professionisti ad assumere un incarico pubblico, anche se questo richiede la temporanea rinuncia all’attività professionale. In fin dei conti, non si tratta di un modello troppo nuovo. Con altri mezzi, il Vlaamsbouwmeester e i suoi collaboratori fanno quello che facevano le Commissioni d’ornato.
A Milano, alla famosa Commissione neoclassica (1807) accettarono di partecipare Luigi Cagnola e Luigi Canonica; sarebbe utile alla città se nuovamente gli architetti migliori si mettessero a disposizione della collettività, se le carriere dei professionisti, degli accademici e dei funzionari pubblici non fossero separate all’origine. È infatti tempo di superare un modello in cui la scelta tra l’attività professionale, la carriera accademica e il posto fisso nell’Amministrazione Pubblica equivaleva ad una irrevocabile scelta esistenziale a cui corrispondevano forme di vita del tutto incompatibili. Forse la rinnovata disponibilità (almeno di alcuni) a misurarsi con responsabilità pubbliche consente di immaginare nuovi modelli di gestione della città. Forse Milano, pur nella complessità normativa che non nego, può provare ad inventare dispostivi innovativi per governare le sue trasformazioni e per gestire le (probabilmente non molte) opere che si realizzeranno nei prossimi anni. Gli architetti ne avrebbero bisogno, la città ne ha ancora più bisogno.