INDICATIVO PRESENTE 2 / 3. La classe-incubatrice
Una classe, in un nuovo ciclo scolastico, nasce durante una riunione affondata nel caldo appiccicoso e torpido. La scuola è vuota, i ragazzi sono in vacanza. Gli esami sono finiti. Alcuni professori si riuniscono, e cominciano a esaminare dati: da quale scuola vengono? Che competenze hanno maturato? Sono maschi o femmine? Di origine italiana o di origine non italiana? Quanti sono diversamente abili? Una classe, cioè, non è un caso. C’è una chimica, e ci sono degli alchimisti. Negli alambicchi i docenti della commissione Formazione Classi versano sostanze chimiche di colori diversi, e quando è fatta è fatta. “Quella classe è tremenda”, si dice a inizio anno. Oppure “è una buona classe, ci si può lavorare bene”. La classe è un incubatore di storie: un assemblaggio artificiale di giovani umani, un esperimento per vedere se qualcosa di nuovo e di buono si potrà sviluppare, se gli elementi comporranno un sistema cellulare complesso e interessante, o se cozzeranno fra loro in varie esplosioni, o se qualche agglomerato di cellule fagociterà un agglomerato più piccolo e debole. Una classe è una incubatrice di cuccioli: «incubatrix» è chi sta sopra le uova, stando attento a non romperle, portando infinita pazienza nel muoversi, nel muoverle, scaldandole perché dentro, ancora protetta dal delicato guscio, la creatura possa svilupparsi sino al giorno in cui sentirà irresistibile il bisogno di venire fuori, di rompere il guscio e di barcollare da sola i suoi primi passi di autonomia, di autoregolazione, ovvero di libertà. Una classe è infine, per tante ore, in tanti giorni, come leggo in Treccani, un «incubo [dal lat. tardo incŭbus “essere che giace sul dormiente”, der. del tema di incubare “giacere sopra”]. – 1. Essere demoniaco o genio malefico che, secondo antiche credenze mitologiche, opprime la persona nel sonno, soprattutto se in stato febbrile, dandole un senso di soffocamento o congiungendosi carnalmente con lei».
Stamattina mi sono svegliato molto presto. Gli altri dormono ancora. È domenica, quindi non faccio rumore. Mi sono svegliato proprio spingendo con le braccia, con sforzo, il demone sdraiato sopra di me, con tutto il suo peso pervasivo: mi toglieva l’aria dai polmoni. Dice che questi incubi stanno venendo fuori perché di giorno sono tranquillo, ho sistemato tante cose, e gli affetti e il lavoro che funzionano mi rendono più forte. Così si scoperchia il pozzo del mio passato emotivo, e io me le racconto da solo le ossessioni che mi hanno fermato per anni e per decenni. Sceneggiature seriali, le stesse situazioni con una trama leggermente diversa. I personaggi che tornano, come in una complex tv dove scrivo e giro e recito tutto da me. Ambienti dove mi sento prigioniero, captivus, e dove urlo cattivo, scaccio o fuggo. E se riesco a buttare giù dal letto il demone posso svegliarmi, e dirmi “ecco, ho spurgato ancora, e forse prima o poi ridormirò non più interessando i miei demoni, che non avranno più da fare con me, e se ne andranno da qualcun altro”.
In una classe i ragazzi sognano ad occhi aperti. I loro demoni li hanno sulla spalla. Pesano. Bisbigliano nelle loro orecchie in continuazione. E se la classe si è formata in modo sfortunato bisbigliano tanti demoni su tante spalle. Così i demoni devono urlare, per farsi sentire. E nella classe tutti si urlano in faccia i loro incubi ogni mattina, tutta la mattina, e nessuno ascolta me o nessuno ascolta un compagno e una compagna. Tutti urlano il loro ego e nessuno ascolta l’ego dell’altro. Dice che la nostra società contemporanea è così: tutti stiamo urlandoci in faccia (individui dal vivo, profili sui social network, politici in Parlamento, nazioni nel mondo) il nostro incubo, e nessuno ascolta nessuno. Il frastuono è assordante, e non tutti riescono a trovare un silenzio.
Secondo me i ragazzi che ho davanti, o attraverso cui cammino quando in classe leggo un libro, o con cui cerco di dialogare su un libro che stiamo leggendo, o sul perché è scoppiata una guerra o su come quella parola nella sua radice abbia tanti chiarissimi significati, non hanno mai un loro momento di silenzio. Sono silenziosi solo durante le verifiche scritte. In quel momento tornano soli, specchiati davanti al poco che sanno o a quello che sanno e che hanno tanta difficoltà a organizzare in una consecutio di proposizioni. Opinioni ne hanno. Anche idee. Quando ho dettato una sintesi del pensiero di Confucio, dal libro pensato da Umberto Galimberti e scritto con Irene Merlini e Maria Luisa Petruccelli per Feltrinelli (Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi) e ho posto loro la domanda filosofica “come ti sentiresti se in cattedra salissi tu, sul gradino più alto che ha la responsabilità della guida, e il professore scendesse sul gradino più basso, quello dello studente che deve rispetto?” ciascuno di loro ha visto se stesso da fuori, in metacognizione diremmo pedagogicamente. La mancanza di questi silenzi nelle loro vite fa saltare sui banchi e urlare i loro demoni alla rinfusa. Non pensano, non si pensano.
Se i ragazzi immigrati hanno storie che possono suscitare compassione, o comportamenti oppositivi che possono devastare la nostra possibilità di renderli competenti cittadini e non primati inferociti, i ragazzi “italiani” in scuole come questa, in un quartiere di pensionati spaventati e arrabbiati e di giovani senza speranze, sono quelli che vanno più inclusi. Gabriel non può nascondersi dietro la sua identità araba e musulmana. Non ha nessun “noi” da dirci contro. Suo padre è in galera, e sua madre è così sfiancata che non sa educare. Gabriel viene in classe e odia i prof. Gabriel ad altissima voce mi dice che suo zio gli ha detto che io sono uno stupido perché l’Europa non ha una capitale: io allora gli dico di dire a suo zio che io non ho detto questo, io ho detto che le istituzioni al vertice dell’Unione europea sono a Bruxelles; e suo zio lo ignora. Lui si zittisce.
Gabriel gira per i banchi quando gli pare, sputa palline di carta masticate in faccia alle compagne maghrebine o africane quanto gli pare; se l’operatrice scolastica si arrabbia con lui per la classe da pulire una seconda volta con garbo amabile le urla in faccia «Lei è pagata per pulire!». Gabriel, invaghito di una compagna, le ha preso la nuca e le ha schiacciato la bocca verso la patta dei pantaloni. E ora che ho deciso di stanarlo mi odia. Mi odia a tal punto, il mio Franti, che una volta mi ha urlato, ai rimproveri personali, «La chiuda Lei, quella bocca!»; le note disciplinari lo fanno ridere, la madre non le legge, non viene a scuola se invitata da noi prof al dialogo, così sono passato all’azione teatrale drammatica. Mi sono alzato furente verso il suo banco, con la classe paralizzata dall’attendismo più che dalla paura e in faccia gli ho urlato “Adesso ti alzi in piedi, mi guardi negli occhi e mi chiedi scusa!!!” Sghignazzando si è rifiutato tre volte, cercando e non trovando sponda tra i compagni del clan; infine si è alzato e si è scusato. Io ho detto che accettavo le sue scuse e gli ho stretto la mano. E lui con un sorriso beffardo («… e Franti rise») mi ha guardato e mi ha chiesto «adesso posso andarmi a lavare le mani?».
Qualche giorno dopo invece è partito dal banco ed è venuto verso la cattedra, questa volta sì guardandomi negli occhi e mi ha urlato «Io La odiooo! La odio! La odioooo! Lei deve andare affanculoooo!». Nell’offesa c’era una quota di regola e rispetto: mi dava del Lei. Sono scattato in piedi, l’ho preso per l’avanbraccio, l’ho spinto fuori dalla classe. Lui è andato contro la finestra e io sono stato dietro di lui interminabili minuti in silenzio ad aspettare. «Ora voltati e scusati per le cose gravissime che mi hai urlato in classe». La classe sguarnita restava muta. Mi sono avvicinato. Ho cambiato registro nella mia voce. «Io lo so perché mi odi. Perché stai crescendo senza tuo padre. Un padre deve dare le regole a un figlio, ma deve anche abbracciarlo ogni tanto. Tu mi odi perché io sono il maschio adulto che ti richiama alle regole, e se lo vuoi, se ti scusi ora in modo sincero, io posso anche darti quell’abbraccio». Gabriel ha cominciato a singhiozzare, si è girato, e si è lasciato abbracciare a lungo. Poi, prima di rientrare in classe, gli ho detto “rientra in classe quando te la senti”. Dopo un po’ è tornato, e si è messo a lavorare con noi.
Nei giorni successivi Gabriel ha preso nuove, colorite note disciplinari da svariati altri colleghi: “Gabriel istiga la classe a bestemmiare. Gabriel istiga la classe a ruttare”. Metteremo un bel po’ per fare uscire altre volte Gabriel-Franti dal suo guscio di incubi.