Agitare i sogni all’Università
Continua lo speciale a cura di Massimo Marino dedicato agli ottanta anni di Giuliano Scabia, uno dei padri fondatori del nuovo teatro italiano, maestro profondo e appartato di varie generazioni, artista sperimentatore, poeta, drammaturgo, regista, attore, costruttore di fantastici oggetti di cartapesta, pittore dal tratto leggero e sognante, narratore, pellegrino dell’immaginazione, tessitore di relazioni, incantatore. Dopo l’intervista Alla ricerca della lingua del tempo, la pubblicazione in quattro puntate del poema Albero stella di poeti rari – Quattro voli col poeta Blake (lo potete scaricare in pdf qui), l’articolo di Oliviero Ponte di Pino sul suo teatro, l’intervista di Attilio Scarpellini sulla delicata questione della violenza politica, incrociata in vari momenti dal ricercare di questo poeta teatrante, lo sguardo allo Scabia “veneto” di Fernando Marchiori, Francesca Gasparini racconta il laboratorio di Scabia all’Università di Bologna: il suo originale, erratico, esperienziale, teatrale insegnamento dal 1972 al 2005.
Domani sera Giuliano Scabia sarà a Milano alla serata di presentazione del nostro Almanacco e leggerà brani dal suo poema Albero stella di poeti rari – Quattro voli col poeta Blake. Siete tutti invitati!
1. La ricerca inesausta del “mistero”. “Apparire, sparire, arrivare improvvisi, agitare i sogni”
Tutto nasce da una scintilla. Questa scintilla dovrebbe almeno in parte giustificare per quale motivo io abbia fatto una cosa così strana, e forse anche sospetta – direbbe così Gianfranco Anzini, anche lui ex-studente recidivo – come seguire per otto volte lo stesso corso universitario, Drammaturgia II del prof. Giuliano Scabia al Dams dell’Università di Bologna. E questa scintilla sta al cuore del titolo di questo paragrafo, il cui sottotitolo, tratto dalla Lettera a Dorothea, allude non solo a una particolarissima pratica spettacolare (se è possibile definirla tale), ma anche a un portentoso metodo pedagogico: quel professore fuori degli schemi è sempre stato per i suoi studenti all’Università di Bologna un “agitatore di sogni”, sogni concretissimi e vibranti d’azione.
Teatro giornale di strada in via Indipendenza a Bologna, 1973
“Agitare i sogni” è sempre stato per Scabia nel lavoro con gli studenti all’Università un metodo pedagogico in senso forte e uno strumento d’indagine sensibilissimo, senza sbavature, dove il banale incitamento all’espressione libera della creatività si travasava in un più ampio e articolato sostegno alla ricerca di una via personale (cioè interiore/interna).
La scintilla è quella che ho visto negli occhi di tanti studenti quando negli ultimi giorni di corso finalmente comprendevano, come fulminati, il senso di quel furibondo viaggio interno di studio, ricerca, azione corporea in cui Scabia li aveva trascinati. È quella scintilla che vedevo anche negli occhi del professore quando li incitava non a rappresentare ma a vivere su di sé il mondo che avevano creato; quando rimaneva ad ascoltare per giornate intere, fino a sera, fuori sotto i portici, fra gli sguardi stupefatti dei passanti e dei camerieri delle osterie, i loro racconti, le loro tesine, i loro diari; o quando a tarda notte loro si ritrovavano in piazza Santo Stefano, o in via Zamboni, ancora ebbri di quello spirito-demone che li aveva visitati durante il corso, per rivivere certi canti o certe sequenze corporee o certe danze che avevano ripetuto per mesi, e lui appariva con i capelli bianchi illuminati dalla luna e li osservava come un angelo custode benevolo, forse reale o forse solo immaginato.
Questa scintilla c’era anche nei miei occhi la prima volta che ho visto Giuliano Scabia; era il 1994 e avevo deciso di seguire il corso di Drammaturgia II il cui titolo era Gli stivali del gatto e la voce della poesia. Il primo giorno di corso lui invece di farci una lezione ci condusse in una lunga camminata per i vicoli di Bologna alla ricerca della nuova sede del laboratorio. Arrivati, la porta era chiusa e sprangata. Lui in cima ai gradini e noi assembrati in basso con la bocca aperta; ci fece un lungo discorso magico che concluse dicendo che se lo avessimo seguito ci avrebbe svelato il “segreto dell’eterna giovinezza”.
Gutenberg alla Fiera del libro per ragazzi, Bologna, 1974
La ricerca inesausta del “mistero”, che io da allora identifico con il “segreto dell’eterna giovinezza” (e poi con il momón di Nane Oca), è un po’ il cuore di tutto ciò che Scabia faceva nei suoi corsi insieme agli studenti affrontando i testi della tradizione teatrale e anche non teatrale.
Cosa significa questa ricerca del mistero che si risolve in una “pratica” concreta? Essa si attiva nella speciale condizione di presenza e azione del gruppo (communitas spontanea), nella ritualizzazione che il gruppo in qualche modo si auto-impone e a cui si abbandona – che, oltre a guidare verso luoghi inesplorati della mente e del corpo, induce talvolta anche stati alterati di coscienza (ciò che Scabia chiama “trance controllata”, la trance assoggettata a regole – teletài – che permettono il ritorno). Il mistero è il luogo della partecipazione, è l’esserci dentro; Scabia parlava infatti spesso di “viaggio dentro i testi” (viaggio di ricognizione e scoperta / viaggio di rivelazione). In un incontro al Dams di Bologna tenutosi il 10 novembre del 2005, dal titolo Trent’anni di apprendistato. Incontro con Giuliano Scabia, egli parlò proprio, a proposito del lavoro svolto durante i corsi con gli studenti, di “vagare/invaghirsi”, cioè “andare in cerca / farsi visitare”. In quella stessa occasione istituì una relazione stringente tra lingua e azione del teatro (la lingua chiede di essere interrogata e il teatro è lo strumento per interrogarla), tra logos e teatro, che non sono altro che l’“infinito legarsi di tutto nelle apparizioni”.
Se eravamo in grado di trovare quello stato di armonia/empatia necessario all’attivazione dello spazio/tempo del rito (se i nostri corpi e le nostre menti lavoravano insieme), allora in qualche modo ci si predisponeva alle rivelazioni: i testi, le parole dei testi, considerate come tanti semi pregni di vita in potenza, cominciavano a germogliare. E non c’era mai disomogeneità tra ciò che facevamo con i nostri corpi e la voce che sentivamo emergere dal fondo del testo interrogato.
Il percorso di Scabia dentro l’Università ha avuto fin dal principio come nucleo questo “segreto”. Spero di far intravedere perché ciò che voglio denominare “epos dell’azione poetica” sia fondante non solo per l’esperienza di Scabia con gli studenti, ma per tutte le sue azioni teatrali-poetiche (esempi poco conosciuti di questo ‘epos’ sono i quaderni universitari; esempi noti sono invece il libro di Marco Cavallo, o quello sull’esperienza del Gorilla Quadrumàno o le bellissime “lettere a Dorothea”, ma l’elenco potrebbe essere lungo…). Ciò spiega anche perché delle raccolte, apparentemente “trasandate”, di materiali disparati, come possono essere le “dispense universitarie”, quelle che tanti di noi hanno conosciuto da studenti nella loro triste veste di fotocopie tenute insieme da spirali di plastica o metallo, possano in realtà rivelarsi come “opere” di grande forza immaginativa e poetica. E questo è anche il motivo per cui Giuliano Scabia si è accanito a volerle definire “quaderni di drammaturgia”, rimbrottando severamente chi si provava a chiamarle “dispense”. Il motivo per cui mi soffermo così a lungo sulla questione dello statuto e della natura di questi “quaderni di drammaturgia” dipende dal fatto che essi rappresentano la forma epico-monumentale che i corsi hanno preso nel passare del tempo, stratificandosi, richiamandosi e ispirandosi a vicenda, in infinite eco, riprese e ritorni.
Il Gorilla Quadrumàno, alto Appennino reggiano, 1974
Ed entro i confini di questo epos si collocano materiali eterogenei e di origine diversa (compresi registrazioni video, appunti, schizzi, fotografie, disegni, trascrizioni delle sequenze corporee, o dei canti o delle danze, che si possono trovare nei quaderni universitari), cui solo impropriamente ci si può riferire come a ‘documenti’. Essi, al pari delle scritture (racconti, diari, rievocazioni, testimonianze…), sono tracce di un cammino, incisioni nel corpo dell’esperienza perché germogli ancora, richiami per riattivare la comunicazione (con il passato, o con noi che siamo nel passato?), azione rinnovata, interrogazione ininterrotta di un fare che in essi continua a vivere mostrando luci e ombre; non prodotti conchiusi per essere fruiti come tali, ma frammenti di un discorso, che producono senso solo nel dialogo interno con tutti gli altri frammenti.
2. Alcuni strumenti di lavoro
Quello del “volo estatico” è un fil rouge che attraversa tutto il lavoro di Giuliano Scabia, fuori e dentro l’Università e che, in qualche modo, lega insieme prassi poetico-scritturali, azioni teatrali, racconto ad alta voce, interventi e progetti eterogenei (nei quartieri, nelle scuole, nei paesi, all’Università). Una precisa sintesi di questo metodo d’indagine teatrale-drammaturgico, l’“imparare a volare”, la troviamo nelle parole con cui egli descrive il lavoro svolto per tre anni consecutivi sulle Baccanti di Euripide: “[…] in certi momenti delle danze in tondo (il coro che balla e canta: tutti ballavano e cantavano) i ballerini-cantori sentivano formarsi il dio, entravano cioè col corpo nel senso profondo del testo, nello stato di trance controllata che il corpo collettivo raggiunge respirando e muovendosi insieme”. Come si vede bene qui, l’entrata nel “senso profondo del testo” e il raggiungimento della trance si identificano e non vi può essere l’una senza l’altro: il testo si rivela nel momento in cui noi prendendolo sul nostro corpo lo portiamo in presenza. Ecco il “mistero”.
Il Gorilla Quadrumàno a Mira (Ve), 1974
Ciò che si osserva è un vero e proprio travaso chiasmatico tra livelli di intervento: da una lato, dalla ricerca rigorosa, dallo studio approfondito e silenzioso, dallo stare sui testi con fedeltà scavandoli parola per parola si producono azioni molteplici assolutamente inaspettate (scritture, canti, balli, grafismi, sequenze corporee, ecc.) che sono il frutto della mente collettiva nella condizione del rito; dall’altro lato, questa libertà totale d’interpretazione e d’invenzione (la proliferazione di prassi corporee e immaginative che si sedimentano sui testi ri-significandoli), questo andare in un “luogo altro”, è esattamente la forma che la ricerca dentro i testi assume. I nuclei di germinazione di questo modo di operare erano già tutti contenuti nel lavoro cosiddetto di “animazione teatrale” degli anni ‘70, che Scabia tenta, a modo suo, di tratteggiare (e non di teorizzare) in L’animazione teatrale (insieme a Eugenia Casini Ropa): la questione dell’ascolto, dello stare sui temi a lungo insieme, del ricordare, dell’improvvisare, dell’usare il corpo e la voce in canto e ballo come via per la comprensione profonda, il giocare/jouer/play, l’imparare, il fare teatro come via per “trasmettere ciò che si sa”, per “cercare insieme”, l’ “entrare nel reticolato sotterraneo di comunicazione di una collettività”, il “sentirsi in armonia col dentro e col fuori”, il conoscere bene il dentro di sé come unica via per poi conoscere il fuori.
Ho parlato di communitas spontanea, di mente e di viaggio collettivo: lo strumento più efficace utilizzato da Scabia affinché un insieme di individui che non si conoscono raccolti in una stanza diventino in breve tempo, bruciando le tappe, una comunità in grado di attivare una condizione di ritualità temporanea è quello che possiamo definire “cerchio narrativo”. L’impostazione formale del cerchio narrativo non è per nulla rigorosa tanto che esso in moltissimi casi prende la forma di un “sempre andare”, di un percorrere, di un viaggiare senza meta apparente, di un intrecciarsi, di un perdersi… Il “cerchio narrativo” scabiano in tutti i suoi livelli ha come cardine la forza dello sguardo, del guardarsi, del sostenersi a vicenda con lo sguardo. Non perdere mai lo sguardo è fondamentale per Scabia, perché quando si guarda altrove, fuori da dove siamo, allora il luogo in cui siamo non c’è più, sparisce, gli togliamo il nutrimento – quel luogo magico che è il vuoto di cui i corpi in cerchio sono il perimetro si riempie e vive nella misura in cui il nostro sguardo è lì e gli sguardi si incrociano e si sostengono. Riprendendo Nane Oca Franco Acquaviva parla delle “cose racchiuse in quel guardarsi” come di “[…] domande, emozioni trattenute, ma anche esperienza di un limite sul quale la ‘realtà’ si potenzia con un gioco di specchi che dà vertigine”.
Mongolfiere a Bologna, 1977
Un altro strumento di lavoro che Scabia ha impiegato sistematicamente nei corsi universitari (ma anche in altre sue azioni poetico-teatrali) è quello che egli chiama “schema vuoto”. Nel 1973, in Teatro nello spazio degli scontri egli lo definisce come “[…] un canovaccio (non in senso antico), una partizione del tempo e del lavoro, una traccia di ricerca e un itinerario verso l’improvvisazione; una commedia di cui sono scritti soltanto i titoli delle scene, un dramma didattico in cui l’apprendere è un atto reciproco in cui tutti sono continuamente coinvolti”; e ancora in Forse un drago nascerà come “[…] una ‘commedia’ di cui sono scritti soltanto i titoli delle scene: può venire riempito in molti modi, a secondo delle situazioni”.
Benché il lavoro di Scabia sia cambiato molto nel corso degli anni, in qualche modo sciogliendo alcune rigidità iniziali, anche ideologiche, e indirizzandosi sempre di più verso gli strati più inquieti e “misterici” della ricerca, si può affermare che ancora oggi questa definizione risulti assolutamente calzante. Potrei forse aggiungere che lo “schema vuoto” è, in primo luogo, un tentativo di rendere visibile un’immagine della mente, una visione/sogno, un’intuizione e, in secondo luogo, un seme gettato nel centro di quel potenziale cerchio di corpi che è il “cerchio narrativo”, una fascinazione, un’istigazione a interrogarsi e a scoprire (e ad agire). Lo “schema vuoto” può essere qualcosa di molto complesso, addirittura fruibile in sé e per sé come opera d’arte (insieme racconto, poesia visiva, grafismo, drammaturgia); ma anche qualcosa di molto semplice, una traccia esilissima, una domanda che sottende molte domande, una suggestione capace di prefigurare ampi scenari – come nel caso dei ‘programmi di corso’ all’Università.
Balli in piazza Santo Stefano, Dire fare baciare, Bologna, 1978
3. Trent’anni di apprendistato
Giuliano Scabia arrivò all’Università di Bologna nel 1972 un po’ per caso. Lo chiamò Luigi Sqarzina a far parte di quella nuova incredibile avventura che fu il Dams bolognese ai suoi inizi. Ma ascoltiamo il racconto dalle sue stesse parole: “E mi hanno detto: vuoi insegnare drammaturgia? Non era mia intenzione lavorare all’Università, volevo fare lo scrittore e basta. Cosa significava fare Drammaturgia? Non esisteva una cattedra di Drammaturgia all’Università; quindi dovevo inventarmi cosa fare. […] Per me questo viaggio è stato un apprendistato; perché ne sapevo di cose, ma poi non così tante! Ho fatto questo viaggio con tanti giovani, uno più bravo dell’altro – ho incontrato gente fantastica, un corteo di presenze – con cui ho cercato insieme. Ho sempre trattato coloro che volevano partecipare – e partecipare voleva dire lavorare duro – come collaboratori alla ricerca. Ci sono state notti senza fare vacanze, lavorando nelle case degli studenti, usando la città come laboratorio allo scopo di scoprire chi era il teatro, la scrittura, lo spazio e cosa significa inoltrarsi in questo ‘mondo accanto’ che si rivela dentro il teatro”.
Anche se separare in fasi il percorso di Scabia all’Università può apparire una forzatura, perché in realtà si è trattato di un flusso travolgente dentro cui tutto si mescolava, ritornava e si autocitava (temi, pratiche, ipotesi, esperimenti, modelli…), vorrei provare qui a individuare tre macro-periodi al cui interno si possono riconoscere delle costanti.
La resurrezione di Büchner, Dire fare baciare, Bologna, 1978
La grande avventura che segnò il primo decennio fu quella ormai conosciuta come Gorilla Quadrùmano. L’esperienza, che può essere catalogata all’interno di ciò che è stato definito “teatro a partecipazione”, fu a tal punto straordinaria da segnare per sempre e nel profondo lo sguardo e la sensibilità di chi vi prese parte. Ha raccontato Scabia: “C’era il problema di chiudere questa storia laureando gli studenti. Per me è stato dolorosissimo, ma c’erano altri studenti che arrivavano, non potevo stare per sempre con loro. Li abbiamo laureati, con alcune tesi importanti, ma con in sospeso questa spina del teatro sul Po che non abbiamo fatto. In uno dei Quaderni c’è anche la motivazione del perché fondamentale. L’ho scritta quando nel 1989 abbiamo fatto il cantastorie del Po a Goro, dove mi avevano invitato. Sono appunti. Si parla del trauma. Trauma come ferita ma anche come sogno. Perché eravamo anche un po’ in trance, ecco perché bisognava chiudere”.
Avvicinamento a Dioniso, quaderno del corso 1994-95
Tutto cominciò quando uno degli studenti, Remo Melloni, scoprì alcuni testi scritti da contadini emiliani agli inizi dell’800 per essere recitati nelle stalle. Il lavoro di studio sui testi, durato mesi, si concretizzò in una reale pratica teatrale sedimentata, tanto che a un certo punto il gruppo, ormai compatto e consolidato, cominciò a girare per varie località italiane (in particolare l’alto Appennino reggiano), poi anche all’estero (capitale fu la presenza al Festival Mondiale di Teatro di Nancy, dove il gruppo portò un’azione itinerante di 12 tappe in 7 giorni, con 4 giorni di avvicinamento e 3 di spettacolo). Il senso dell’esperienza fu, da una parte, di attivare il processo della creazione collettiva come strumento di comprensione di sé e del mondo e, dall’altra, di indagare, con interventi diretti, la questione della cultura popolare ormai in dissolvimento, con uno sguardo sincero e critico al tempo stesso. Ma è anche importante sottolineare la stretta relazione che il lavoro del Gorilla intratteneva con la ricerca personale di Scabia come poeta, romanziere e drammaturgo, con la sua poetica. Infatti, tutto il percorso di Scabia con gli studenti all’Università si è nutrito del dialogo e del travaso continuo e reciproco tra l’esperienza universitaria e le riflessioni, gli esperimenti e le illuminazioni maturate dentro quel lavorio incessante di scrittura, teatro, poesia che egli portava avanti fuori dell’Università. Come ha scritto Massimo Marino, “Scabia ha fatto entrare gli studenti del Gorilla in un particolare ritmo: quello del passo che viaggia e scopre, che osserva, incontra, sale e discende; quello di una poesia che si misura con il fare, con il fiato, che in movimento conosce l’estensione e la varietà delle cose del mondo circostante e le misura con il suo proprio tempo, per dialogare” (Il Gorilla Quadrumàno e i suoi viaggi).
Il Gorilla fu emblematico perché segnò in modo deciso il carattere del lavoro universitario di Scabia in tutta una prima grande fase che potremmo far partire con l’ingresso al Dams nel 1972 e concludere con la “Giostra di San Giovanni” nel 1978. Questa fase ebbe il suo picco nel 1977 con il corso delle Mongolfiere e poi quello seducente dedicato al poeta-adolescente Georg Büchner. Ha raccontato Scabia: “Succede poi che agli studenti di Bologna viene il ghiribizzo di occupare l’Università e allora mi sono chiesto: cosa facciamo? Avevano delle motivazioni giustissime. Però facevano anche delle stupidaggini. Sono accaduti anche fatti tragici. C’era una città sull’orlo di una crisi: cortei, vetrine rotte, espropri proletari, esperimenti con la radio (Radio Alice), occupazioni (tentativo di fare il socialismo in una piazza sola, Piazza Verdi), saccheggi. Un segno di vitalità e lugubrezza insieme. La testa era andata un po’ via. C’erano già le Brigate Rosse in azione. E però il ’77 bolognese era attraversato da una forte ventata utopica e creativa. La violenza quasi non c’è a Bologna, se non nei discorsi. Però io sentivo che questi ragazzi andavano a sbattere ed ero anche molto preoccupato, perché quello che facevano mi sembrava senza sbocco: ‘il socialismo in Piazza Verdi’, saccheggiando il ristorante della piazza. E dopo? E poi c’era un caos, una confusione, c’erano dei maestri un po’ deliranti. Intanto la storia andava. Appena l’occupazione è finita m’è sembrato che si potesse trovare un bandolo, facendo una cosa strana: le mongolfiere”.
Immagini da Teoria del gioco del duende, azione finale del corso 2003-2004
Sintetizzando in modo drastico possiamo dire che questa fu la fase del “teatro a partecipazione”, dell’impegno politico, dell’indagine socio-antropologica e folklorica, del dialogo e dell’immersione tra la gente, dell’uscita dalle aule e dello spandersi nei luoghi aperti e vasti (le vie della città, le piazze, i parchi, le montagne, le valli, i fiumi, i boschi, i paesi…).
Il secondo periodo potremmo farlo cominciare con Adesso vi racconterò. Teatro delle favole rappresentative (1979) e concludere nel 1992 con Rassegna di moderni Don Giovanni. Nel ’79 “dopo questi viaggi del cielo e della terra” Scabia torna al chiuso dell’aula, del laboratorio, ne ritrova l’intimità e il senso, quella concentrazione sul sé che lo porterà anche a riavvicinarsi alla figura centrale del teatro, all’attore, al protagonisthes. “Ho preso una sedia, l’ho messa sulla cattedra e ho detto: adesso vi racconterò. E ho raccontato per un’ora e mezza una fiaba che avevo imparato sull’altipiano di Asiago da un mio amico boscaiolo, contadino, cavallaro, il più grande narratore che ho incontrato, Cristiano Contri da Foza. […] Poi ho detto: la prossima volta raccontate voi”. Siamo al “teatro di narrazione” ante-litteram, al nucleo primigenio della teatralità: il monologo, che sgorga dalla gola dell’uomo in stato di rappresentazione prima come balbettio, come lallazione e poi come flusso, come racconto. In seguito sorgeranno altre figure, specchi, antagonisti di questo solitario raccontatore e arriveranno i dialoghi, gli scontri amorosi, le lotte, i divoramenti (si veda l’anno dedicato alla Pentesilea di Kleist, Il sangue e le rose). Emblematico in questo senso – e centrale all’interno dello sviluppo del lavoro di questo periodo – è Ottetto (1985). Come ha spiegato Scabia, “[…] ho pensato di riprendere in mano l’inizio del ciclo del teatro vagante, cioè lo schema vuoto che è all’inizio di Zip. È uno schema che indica un sentiero di scoperta, quando i personaggi nascono dal fondo oscuro del teatro, pronti a ricevere qualsiasi forma – ecco questa tabula rasa dell’attore e della persona – e a essere portati piano piano attraverso una specie di risvegliamento (è il lavoro che avevamo fatto con Quartucci) a riscoprire il proprio corpo, lo spazio, la scena, la platea, la voce, il risuonamento della voce nello spazio, usando tutto il corpo, le mani, i piedi, toccandosi. Il lavoro era quello di cominciare dal punto più interno per arrivare a misurarsi con la scrittura. Questo cominciamento è partito dalle parole più segrete, più interne, le parole infantili e ognuno ha tirato fuori il suo suono”.
Comincia in questa fase in modo evidente anche la grande avventura del tradurre come strumento principe d’indagine, di scavo, di comprensione, di seduzione, di incorporamento del testo: il tradurre, il tentare la traduzione a partire dalla letteralità, collazionare le traduzioni esistenti, scavare nella profondità della lingua del testo per detonare i sensi possibili, per scardinare i sensi cristallizzati, per addensare mondi. A partire dal corso dedicato alla commedia Bee ovvero farsa di Maistre Pierre Pathelin (1984), questo strumento si declinerà in molteplici applicazioni originalissime fino ad arrivare alla straordinaria “epopea del tradurre” dal greco antico con le Baccanti di Euripide e le Rane di Aristofane.
Quest’ultimo esempio ci catapulta dentro il terzo periodo, in cui tutta una serie di ipotesi e prove emerse negli anni precedenti si vanno coagulando in forme sempre meglio delineate e in pratiche sedimentate: trance e trasferimento (l’accesso a una dimensione altra), traduzione come strumento di incisione e immersione nei testi, recitare come via per attivare l’intelligenza collettiva (sintonizzarsi), entrare nella gioia cercando la forma (“La forma è un atto instabile, raggiunto per grazia di ascolti reciproci”).
La grande avventura di questa fase, forse la più grande – insieme a quella del Gorilla – di tutto il percorso di Scabia all’Università fu l’esperienza di quattro anni che, a posteriori, ha preso il nome di Nutrire dio. Avvicinamento a Dioniso. Il viaggio intrapreso per giungere al cuore del dio-Dioniso, capo del teatro, attraverso le Baccanti di Euripide, indagate tenacemente per tre anni consecutivi, e le Rane di Aristofane, rappresenta in un certo senso la summa dell’esperienza di Scabia con gli studenti. La sfida è sempre stata, nei corsi di Drammaturgia II, l’entrare nei testi mettendo in gioco se stessi: ricerca rigorosa che scava nelle parole con il corpo, che incide nel corpo (il proprio corpo) per trovare il racconto. L’andare nelle Baccanti e nelle Rane significava fissare le tappe, camminando a tentoni, nel buio, di un percorso individuale e collettivo, che diventava trasferimento concreto della mente e del corpo in un luogo altro (non spettacolo, ma rito interno alla communitas spontanea creatasi nel chiuso dell’aula universitaria). Scabia ha depositato il racconto di questo viaggio, pieno di forza e mistero, nei diari che teneva in treno tornando a casa dopo le lezioni: esempio fulgido di scrittura poetica, visioni e riflessioni intorno e sul fare.
Ma voglio ricordare anche Bestie in corpo (primavera 2001), che è stato forse il corso più misterioso fra quelli che Scabia ha tenuto negli ultimi dieci anni prima dell’uscita dai ranghi universitari. Il programma preparato dal professore, che non è altro che uno “schema vuoto”, recitava così: “Bestie in corpo (echi e presenze di animali in alcuni testi del mondo occidentale e nell’antica medicina cinese, a confronto nel teatro della mente)”. Il primo giorno di corso Scabia diede agli studenti dei grandi fogli A3 con al centro un rettangolo dai bordi neri e disse di disegnare fuori dal rettangolo gli animali sognati e dentro gli animali dell’anima (quelli con cui ci si identifica): prese il via un intenso lavorio di disegno/scrittura/incisione nel proprio inconscio in un silenzio irreale da cui parevano uscire frusciando i pensieri di tutti. Il giorno seguente Scabia attaccò, con il mio aiuto, i grandi fogli disegnati sulle pareti del laboratorio, trasformando lo stanzone in una vera e propria grotta di Altamira. Quando gli studenti furono fatti entrare, come a una esposizione d’arte, si sentì la loro emozione espandersi e gli animali/graffiti cominciarono a scendere dal muro e a danzare davanti ai nostri occhi. A partire dalle bestie tracciate d’impulso quel primo giorno, a partire dalla lettura di Esopo, delle storie naturali degli antichi, da Aristotele a Plinio, da Eliano a Plutarco, per arrivare agli Animali del sogno dello studioso e psicanalista junghiano James Hillmann, si assistette alla materializzazione delle bestie della mente nei corpi dei ragazzi (api, farfalle, serpenti, un cane, un’aquila, un cinghiale bianco, un stormo di gru e tanti altri), in un processo di trasferimento (trance?) che toccò livelli profondi e talvolta inquietanti.
Ha spiegato Scabia: “Mentre gli animali ‘apparivano’ nel teatro di via Valdonica (a volte con una sacralità impressionante, come se fossero dei incarnati nel corpo degli studenti) ho avuto ancora una volta la conferma che col teatro (almeno questo tipo di teatro) è possibile ricreare per un momento (il momento dell’evento) situazioni di Paradiso (terrestre) – se il corpo-mente di ognuno e di tutti diventa corpo di gioia (vibrazione di gioia) – come forse sanno le api sul fiore o intorno alla regina: uno stato di estasi momentanea che mi sembra anche la forma seminale della poesia che si fa corpo”.