26 agosto 1913-30 maggio 2022 / Boris Pahor, adolescente centenario
Boris Pahor aveva la voglia di vivere di un adolescente. Trascorreva le sue giornate con la passione e la semplicità di chi sa che agli uomini è concesso un tempo limitato. Anche se lui avrebbe preferito dilatarlo all’infinito, quel tempo. Ragionava con la libertà del saggio che non ha paura di essere bollato come eretico. Scriveva con la forza di un uomo che mai si era lasciato ipnotizzare dall’angusta limitatezza delle ideologie. Dalla dogmatica inflessibilità delle chiese.
Una vita lunghissima, quella dello scrittore triestino di lingua slovena, che tra meno di tre mesi avrebbe festeggiato il suo centonovesimo compleanno. Boris Pahor, infatti, era nato il 26 agosto del 1913, aveva fatto in tempo a vedere gli orrori e le meraviglie del secolo breve. Poi, si era affacciato al terzo millennio con la curiosità di chi crede davvero nella vita. Per lui, valevano le parole del filosofo olandese Baruch Spinoza: “Deus sive Natura”. Perché riusciva a scorgere tracce del divino nella realtà immanente, senza perdere tempo a inseguire uno sfuggevole trascendente.
La Morte è arrivata prima. L’ha portato via con sé lunedì 30 maggio, alle quattro del mattino, quando le strade di Trieste erano pressoché deserte. E fuori dalle finestre della casetta di Boris Pahor, sotto il borgo carsico di Contovello, il cielo formava una compatta distesa buia insieme al mare. Nel salotto, la sua macchina da scrivere stava lì sul tavolo, con un foglio inserito nel rullo, pronta ad accogliere le parole di uno scrittore che non si è mai piegato all’uso del computer.
Pochi mesi fa, La nave di Teseo aveva distribuito nelle librerie uno dei romanzi a cui Pahor era più legato: Oscuramento, tradotto da Martina Clerici. Capitolo finale di un ciclo narrativo aperto idealmente dalla drammatica testimonianza contenuta nel suo capolavoro Necropoli, e completato da Una primavera difficile e Nel labirinto. Dove lo scrittore si celava dietro il personaggio di Radko Suban. Un uomo capace di sopravvivere alle persecuzioni fasciste, ai lager nazisti, all’ostracismo scatenato contro di lui dalla Jugoslavia di Tito. Ma capace anche di non farsi sedurre dal nichilismo edonistico del consumismo.
Liquidare Boris Pahor come testimone del tempo sarebbe molto comodo, e anche terribilmente sbagliato. Perché vorrebbe dire raccontare l’uomo, e lo scrittore, come un semplice osservatore e narratore dei fatti vissuti, delle cose viste, dei mutamenti storici a cui aveva assistito. Lui, al contrario, rivendicava la sua storia di ragazzo derubato della cultura slovena, incapace di sentirsi a casa nel lungo tempo vissuto. Perché aveva visto tramontare, e poi sfasciarsi, l’Impero Austro-Ungarico. Perché si era sentito equiparare a una cimice quando l’Italia aveva portato a Trieste, nel Friuli-Venezia Giulia, la rozza, violenta persecuzione fascista contro gli sloveni. Trattando quel piccolo popolo alla stregua di insetti immondi che bisognava annientare, cancellare dalle terre irredente.
Poi, lo scrittore aveva attraversato l’incubo dei lager nazisti, uscendone ammalato di tubercolosi, piagato nel corpo ma soprattutto nell’anima. Eppure, ancora tenacemente aggrappato a una fiducia inestinguibile nei confronti della vita, dei propri simili.
Era nato in una famiglia assai modesta, Boris. Il padre, Franc Pahor, guadagnava da vivere facendo il fotografo per la polizia scientifica della Questura di Trieste. Ma quando il fascismo aveva deciso di incentivare il trasferimento delle famiglie slovene verso altre regioni d’Italia, per smembrare la comunità triestina, lui si era rifiutato di andare in Sicilia. Sfidando la miseria, aveva ripreso il mestiere che era stato del padre e del nonno: venditore ambulante di ricotta, miele e burro al mercato di piazza Ponterosso a Trieste
Facile immaginare che il guadagno fosse piuttosto magro. “Quando soffiava la bora – raccontava Pahor nel libro Figlio di nessuno, scritto insieme alla giornalista Cristina Battocletti e pubblicato da Rizzoli nel 2012 –, nonostante il cappotto, per ripararsi dal gelo mio padre si infilava sotto la camicia un giornale, e d’estate doveva procurarsi un blocco di ghiaccio perché il burro non si sciogliesse”.
Guadagnando poco, e non immischiandosi nelle faccende politiche, Franc Pahor era riuscito a tenere lontani dalla famiglia la violenza di un nazionalismo sfrenato contro gli sloveni. Aveva ignorato anche l’invito pressante a italianizzare il cognome. “I Pahor? Ce n’erano tanti, poi si trasformarono in Pahor, Pacori, Pacorini, Parrini”, spiegava lo scrittore.
La mamma, Marija Ambrožič (“una bella donna che prima di sposarsi faceva la cuoca, ma non era una domestica ignorante: aveva frequentato le elementari e sapeva contare addirittura in inglese fino a dieci, cosa che ai tempi non era fatto comune”), era molto religiosa, pronta a lavorare fino a sfinirsi e appassionata di poesia. Raccontava Pahor che “quando morì nel 1906 Simon Gregorčič, un grande poeta dell’arco alpino, detto l’usignolo del Goriziano, volle, ventiquattrenne, andare al funerale per rendergli omaggio”.
Della sua infanzia, lo scrittore ricordava soprattutto i giochi, la libertà di stare scalzo e di non essere sempre sorvegliato dagli adulti, la grande felicità delle giornate passate in spiaggia allo stabilimento balneare della Diga. Una sorta di piccola isola galleggiante nel golfo di Trieste, di fronte a piazza Unità, che si raggiungeva a bordo di una barca a remi stipata soprattutto di mamme e bambini. “È stato il mare – ricordava spesso – lo spunto del mio primo racconto infantile. Su un block notes, con la carta azzurrognola, mi ero divertito a raccontare il salvataggio di un uomo, forse ispirato da qualche notizia di cronaca apparsa sui giornali”.
Nonostante il grande amore per la poesia, mamma Marija sognava per il figlio Boris un futuro da sacerdote. Ad affiancarlo nel ruolo di perpetua sarebbe stata una delle sorelle, Evelina, che venne iscritta apposta in una scuola di economia domestica a Lubiana per imparare il mestiere. E, in effetti, Pahor in un primo tempo si lasciò suggestionare dal desiderio di sua madre: “Ho studiato teologia due anni dopo il seminario minore, ma non era la mia strada”, confidava con un sorriso furbo.
La Storia aveva in serbo per Pahor un faccia a faccia con la violenza e la morte che, parecchi anni dopo, avrebbe ispirato alcune tra le più drammatiche e belle pagine del suo libro di racconti Il rogo nel porto. Il 13 luglio del 1920 le avanguardie di quelli che sarebbero stati, in seguito, i fasci di combattimento, guidati dall’avvocato fiorentino Francesco Giunta, incendiarono il Narodni dom. Nel palazzo, disegnato dall’architetto di Kobdilj Max Fabiani, c’era la Casa di Cultura slovena, ma anche l’Hotel Balkan e altri uffici. “Avevo sette anni. Quello è stato per me il battesimo del fuoco fascista. Un assaggio di ciò che sarebbe arrivato negli anni a venire”.
L’incendio del Narodni dom equivaleva a una dichiarazione di guerra alla comunità slovena da parte dei fascisti. Nelle ore successive vennero devastati uffici di avvocati e professionisti, negozi, circoli sportivi e culturali. Gli storici, oggi, indicano quell’episodio come la prova generale voluta da Benito Mussolini di un escalation di violenza contro gli oppositori del regime, che sarebbe culminata nell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti il 10 giugno del 1924.
La tragedia collettiva del suo popolo non poteva non riflettersi sulla vita di un ragazzo come Boris Pahor. Le persecuzioni contro gli sloveni entrarono nelle scuole. La loro “brutta lingua”, considerata dai fascisti espressione di una comunità di barbari, venne bandita dalle classi. Molti anni dopo, lo scrittore rievocherà nel romanzo Qui è proibito parlare, tradotto da Martina Clerici per Fazi editore nel 2009, due episodi tenebrosi: quello della bambina Julka, appesa per le trecce davanti ai suoi compagni perché aveva osato esprimersi nella sua lingua madre. E, poi, quello del maestro tubercolotico Sottosanti di Vrhpolje-Vipacco, che sputava in bocca ai bambini se violavano il divieto di parlare in sloveno.
Arruolato dall’esercito italiano per combattere in Libia, a fianco delle truppe del Terzo Reich, rientrato a Trieste dopo l’8 settembre, a spingere Pahor a entrare nella Resistenza era stata la convinzione che non ci fosse altra via della lotta armata per liberarsi dal giogo della dittatura. “Anche se – spiegava lo scrittore – non trovavo affatto rassicurante il fatto che fossero i comunisti a guidare il Fronte di liberazione”. A mitigare un po’ i suoi timori, però, c’era la presenza tra i dirigenti partigiani dell’intellettuale sloveno Edvard Kocbek, figura di spicco del movimento dei Cristiano sociali. A cui toccherà in sorte un lungo periodo di silenzio forzato, e di persecuzione politica, nella Jugoslavia di Tito, culminato nel clamoroso scandalo legato alla rivista “Zaliv-Golfo”: quando, in un’intervista concessa nel 1975 agli scrittori triestini Boris Pahor e Alojz Rebula, Kocbek rivelò e condannò il massacro da parte dei titini dei domobranci, i dodicimila miliziani sloveni accusati di collaborazionismo con i nazisti, argomento tabù nella Repubblica socialista.
La militanza politica di Pahor nel Fronte di liberazione, come responsabile della comunicazione, ebbe vita breve. Denunciato da un prete sloveno, che vedeva il fasciamo come la migliore soluzione politica possibile per le terre irredente, arrestato il 21 gennaio del 1944 dai domobranci e poi consegnato alle truppe naziste presenti a Trieste, pestato e rinchiuso in un armadio nei sottrerai del palazzo di piazza Oberdan, sede della Gestapo, Boris venne caricato su un treno il 26 febbraio insieme ad altri prigionieri politici ammassati alla stazione. “Quello era uno dei primi trasporti di deportati che partiva da Trieste. Eravamo in seicento, soprattutto sloveni, ma c’era anche qualche croato istriano e un po’ di italiani”,
Da lì sarebbe iniziato il lungo viaggio nella vertigine di Pahor dentro il mondo dei campi di sterminio. Sballottato tra Dachau a Natzweiler-Struthof, da Markirch a Nordhausen, da Harzungen a Bergen Belsen e Dora Mittelbau. Dove i nazisti costringevano i prigionieri a lavorare alla costruzione delle terribili V2.
La liberazione, quasi due anni dopo, lo troverà ridotto a uno scheletro umano, minato dalia tubercolosi. Costretto a vagabondare, insieme ad altri sopravvissuti, fino a trovare ricovero nel sanatorio di Villiers-sur-Marne. Dove rimarrà fino al dicembre del 1946, prima di rientrare nella sua città per completare gli studi e laurearsi in Lettere.
Lì, in Francia, Pahor lascerà il ricordo indelebile dell’amore per l’infermiera Arlette, “la giovane donna che mi ha insegnato, come fossi ritornato bambino, a innamorarmi di nuovo della vita”. Una figura femminile archetipica, che sarà protagonista assoluta dello splendido romanzo Una primavera difficile.
Che Pahor fosse destinato a diventare uno scrittore lo dimostra la sua precoce inclinazione a inventare storie, a trasformarle in racconti. A mutare gli avvenimenti di ogni giorno in narrazioni spesso ingenue, ma sostenute da descrizioni vivide e da una lingua asciutta, precisa, mai incline alla retorica. Sarà La villa sul lago, pubblicato nell’edizione slovena nel 1955 con il titolo Vila ob jerezu, a segnalare il suo talento narrativo. Un romanzo con l’incubo della guerra sullo sfondo che, in realtà, mette al centro della trama un amore segnato dai ricordi di un oscuro passato, sul palcoscenico di una splendida casa affacciata sul Lago di Garda.
Bisognerà aspettare 47 anni perché la traduzione del romanzo, curata da Marija Kacin, esca finalmente nelle librerie italiane pubblicata da una piccola, coraggiosa casa editrice di Rovereto: Nicolodi. Mentre in Francia, in Germania, i lettori impareranno a familiarizzare con il nome di Boris Pahor, con le sue storie, anche grazie all’attenzione di giornali come “Le Monde”, che gli dedicano lunghe interviste e prestigiose recensioni. Tanto che nel 2007 verrà insignito dalla Légion d’honneur.
Solo l’Italia sembrava non accorgersi affatto di quella voce letteraria, accostata dai critici ad autori ormai affermati come Primo Levi o il Premio Nobel per la letteratura 2002, l’ungherese Imre Kertész.
Sorte migliore non verrà riservata a Nekropola, il romanzo capolavoro che racconta la discesa di Pahor nell’inferno dei lager. Pubblicato in sloveno nel 1967, soltanto trent’anni dopo, nel 1997, troverà accoglienza in un’edizione da collezione curata dal Consorzio Culturale del Monfalconese. Poco più di un nostrano samizdat, edito nella traduzione del professor Ezio Martin, che in una tiratura limitatissima farà in tempo ad aggiudicarsi il premio intitolato al poeta sloveno Srecko Kosovel.
I lettori più attenti intercettarono quell’edizione di Necropoli. Ne parlarono in giro. Dissero che avrebbe meritato l’attenzione della platea letteraria nazionale. Ma poi, troppo in fretta, sul romanzo di Pahor scese il silenzio. Anche se Claudio Magris, scrivendo nel 2008 la prefazione alla nuova traduzione di Necropoli rivista da Valerio Aiolli e pubblicata da Fazi editore, non esiterà ad affermare che il libro
è un’opera magistrale (se è lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l’intrecciarsi di tempi – verbali ed esistenziali – che intessono il racconto. In un libro in cui non c’è la minima sbavatura vi sono momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche della collettiva (multicefala) massa dei detenuti sotto il getto dell’acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri a cani che si annusano a vicenda, le tenaglie che trascinano gli scheletri su cumuli di altri scheletri, i dettagli del lavoro o delle cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando un cartellino con un altro nome all’alluce di un cadavere, i deliri dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei morti pur tuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce dai camini; l’esigenza di ordine che paradossalmente permane pur nell’esecuzione dell’infame lavoro forzato, il segreto egoismo nell’aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di pane tra i prigionieri; l’abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto.
Dopo anni di silenzio, totale indifferenza, invisibilità agli occhi di chi doveva riconoscere in lui una grande voce della letteratura contemporanea, Pahor negli anni Duemila ha la fortuna di intercettare una editor che non solo sa fare bene il suo mestiere. Ma che, per passione, ha letto i capolavori della letteratura concentrazionaria. Laura Senserini riconosce in Necropoli, fin dalle prime pagine, uno dei libri più originali, urticanti e sinceri scritti da un sopravvissuto all’industria della soppressione umana. E lo propone agli editori per cui lavora: Elido Fazi e Alice Di Stefano, che decidono di scommettere con forza su quel libro. Di pubblicarlo accompagnandolo con una campagna pubblicitaria martellante.
Ma ancora non basta. Necropoli comincia a farsi notare per il proprio valore letterario, però fatica a conquistare la grande massa dei lettori. Fino a quando arriva l’invito per Boris Pahor di partecipare al programma televisivo “Che tempo che fa”, condotto da Fabio Fazio. Bastano pochi minuti di intervista per convincere migliaia di italiani a entrare nelle librerie e acquistare una copia del romanzo. Lo scrittore passa, in pochi mesi, dalla categoria di invisibile a quella di imprescindibile fenomeno da incontrare, omaggiare, invitare come ospite di festival, presentazioni, meeting con gli studenti.
Nel 2008 gli vengono assegnati due premi importanti. Vince il Napoli per acclamazione e, subito dopo, la giuria del Viareggio-Rèpaci gli rende omaggio riconoscendolo scrittore dell’anno.
C’è un episodio che racconta perfettamente quanto Pahor sia stato travolto all’improvviso, all’età di 95 anni, da un successo atteso a lungo, arrivato quando nemmeno lo aspettava più. La sera prima della premiazione del Napoli, lo scrittore stava cenando in una pasticceria del centro nel capoluogo campano. Uno dei suoi segreti alimentari era non appesantire mai lo stomaco prima di andare a dormire. Gli bastavano un paio di tazze di latte tiepido in cui intingere qualche pezzo di pane. Oppure, una minestra di verdura e poco altro.
Mentre era intento a spezzettare una baguette per farla, poi, ammorbidire nel latte, si era avvicinata una signora che lo stava fissando da qualche minuto. “Lei è proprio il professore Pahòr”, lo aveva apostrofato, visibilmente emozionata, adattando alla calata napoletana la pronuncia del cognome sloveno. Lo scrittore era scattato in piedi, aveva accettato con gioia di dedicarle la copia di Necropoli che stringeva tra le mani. Poi si era lasciato abbracciare, lui che non disdegnava mai di dedicare un’occhiata compiaciuta alle belle donne.
Quando la sua affettuosa lettrice gli aveva augurato di aggiudicarsi anche il Premio Nobel, dopo il Napoli, Pahor si era fatto serio e le aveva risposto: “Sarebbe bello vincesse Necropoli, non Boris Pahor. Perché, così, verrebbero premiati i morti nei campi di sterminio. Quei poveri prigionieri che non erano più in grado di mangiare il pane a loro assegnato, di cui ci nutrivamo noi. È grazie a loro se, in qualche modo, siamo riusciti a sopravvivere”.
Quello del “pane dei morti” era uno dei tormenti del Pahor sopravvissuto alla fabbrica dell’Olocausto. Perché lui sapeva bene che chi era ritornato vivo dai campi dì sterminio non doveva mai dimenticare di avere lasciato dietro a sé milioni di morti, a cui non era stato concesso di rivedere la propria famiglia, la casa. E nei suoi lunghi racconti orali, che oscillavano sempre tra il soprassalto della memoria e il confronto con il tempo che stava vivendo, non poteva dimenticare di sottolineare come la mortificazione del corpo aveva suggerito, giustificato, reso possibile l’umiliazione estrema inflitta a uomini e donne dietro il filo spinato dei lager.
“Per troppi secoli – spiegava lo scrittore – le religioni che si dono alternate, ma anche molte elaborazioni filosofiche, sociologiche, politiche, hanno svilito i corpi. Illudendosi che fosse la mente, lo spirito, l’anima, a rappresentare il vero tesoro dell’essere uomini. Così, trattare i prigionieri come bambole di carne da vessare, affamare, sfiancare di lavoro e poi bruciare nei forni crematori, non veniva visto come il peccato più grave nei confronti dei propri simili. Forse, non era nemmeno una colpa”.
Non amava certo atteggiarsi a edonista, Boris Pahor. Eppure, non poteva fare a meno di sottolineare che Madre Natura ha fatto agli uomini il regalo più bello che potesse proporre: quello di vivere, di avere del tempo a disposizione per esplorare il mondo, per conoscere sempre nuove persone, per scoprire suggestive teorie, affascinanti retroscena. Per incontrare uomini e donne che, spesso, si rivelano autentici scrigni di storie, di idee.
Mangiava poco, Pahor. Non sprecava il cibo e non amava le esagerazioni. Gli sembrava che pantagrueliche bevute e pasti esagerati fossero la spia di una mancanza di un centro di gravità nella propria vita. Eppure, sedersi a tavola con lui era sempre bello. Perché sapeva raccontare storie affascinanti, non disdegnava di confrontarsi con i temi più spinosi dell’attualità. E soprattutto, perché non si stancava mai di gustare la ruvida bontà di alcuni piatti tipici della cucina triestina, di derivazione mitteleuropea. Soprattutto la jota, una minestra piuttosto densa, fatta con le patate, i fagioli, i crauti, un cucchiaio di farina per il soffritto con l’olio, una bella salsiccia e delle costine di maiale per esaltare il sapore.
Poche ore prima di morire, a chi gli ricordava che non poteva mancare all’appuntamento, che c’era una delle più buone versioni della jota cucinate a Trieste ad aspettarlo, lui ha risposto con un sorriso. Per lasciarsi, poi, cullare da un sonno improvviso, che preludeva alia fine del suo viaggio terreno.
Ha scritto tanto, Pahor. Accanto ai suoi romanzi più belli andrebbe citato ancora Il petalo giallo, amatissimo dalla critica e dai lettori francesi. Storia di un amore impossibile tra Igor Sevken, un maturo narratore sloveno sopravvissuto ai lager, e Lucie Huet, una giovane donna che porta marchiato a fuoco nel corpo e nell’anima l’insulto di una violenza ambigua, nascosta, ma ugualmente perturbante.
Non era un uomo, Boris Pahor, disposto a innalzare un monumento che inneggiasse a se stesso aggrappandosi alle bugie. Per questo non ha mai nascosto di essere stato un padre distratto, poco presente, incapace di sottrarre al tempo consacrato alla scrittura qualche minuto in più per ascoltare, coccolare i figli Adrian e Maja. Così come non ha mai taciuto di essersi invaghito di altre donne. Anche se alla moglie Rada ha sempre dedicato un amore che valicava i confini del tempo. Negli ultimi anni, prima che lei morisse per una serie di complicazioni cardiache, lui cercava sempre di rientrare a casa anche quando le presentazioni dei suoi libri si tenevano in città parecchio lontane da Trieste. “Non voglio lasciarla da sola, soprattutto di notte”, spiegava agli organizzatori.
Nel 2013, poi, si era battuto con foga perché la casa editrice Nuova Dimensione pubblicasse il libro che sua moglie, Rada Premrl, aveva dedicato al fratello Janko Vojko, un eroe della lotta partigiana slovena caduto in uno scontro a fuoco con i fascisti nel febbraio del 1943, a soli 23 anni.
Non c’è dubbio, Boris Pahor era un uomo di un altro tempo. Che non si rassegnava a veder scomparire alcuni riti da lui molto amati. Prima che la moglie morisse, in qualunque parte del mondo lui si trovasse, cercava un negozio per acquistare delle cartoline. E ne spediva una a casa. Dopo il 2009, quando Rada lo ha lasciato, rinunciare alla sua abitudine gli sembrava triste. E allora, ha continuato a inviare immagini delle città visitate a qualche amico a lui caro.
Rileggere oggi le parole che affidava a quelle piccole, modeste, affettuosissime cartoline, significa sentire ancora Boris Pahor vicino. Come se la Morte si fosse portata via soltanto il suo corpo. Non il suo essere uomo. Non la sua straordinaria capacità di amare la vita, senza mai dimenticare l’orrore che aveva attraversato.