Agito e non pensato

28 Settembre 2024

È uscito un libro di Lea Bismuth, per Press Universitaires de France (PUF): L’art de passer à l’acte. Bismuth si occupa di Teorie dell’arte presso l’Ecole des Haute Etudes en Science Sociales e insegna Storia dell’arte ed Estetica all’Università di Amiens. Il titolo evoca un altro testo, Passare all’atto, di Bernard Stiegler, uscito in Italia per Fazi nel 2005, con la prefazione di Roberto Esposito. Stiegler compare quasi subito – dopo Lacan e Marguerite Duras – nel secondo capitolo del libro; benché i capitoli non siano numerati e diano l’impressione che ognuno di loro costituisca un saggio a sé stante. 

Trovai il libro, uscito lo scorso aprile, sul banco della libreria del Centre Georges Pompidou. Lo comprai perché il passaggio all’atto – che si può tradurre in inglese con il termine acting-out – è da sempre al centro del lessico psicoanalitico e post-psicoanalitico. 

Passare all’atto significa produrre un gesto a partire da un pensiero, o anche da un impensato – come tra i surrealisti – insomma: fare qualcosa a partire da una sensazione, trasformare un’affezione in pratica. 

Ricordo un colloquio con uno studente in carcere. Gli chiesi di mettere a confronto due prospettive differenti riguardo alla violenza: quella del godimento estetico e quella della banalità del male. Rispose che, secondo la sua esperienza, quando si infilava il passamontagna per fare una rapina aveva sensazioni orgasmiche, ma poteva pensare che l’azione di un Eichmann fosse l’effetto della formalizzazione del gesto di sterminio, come un qualsiasi atto amministrativo. Anche nel male, gli atti possono darsi in modo differente. Ma la violenza non è il solo destino del passaggio all’atto. 

Il passaggio all’atto è espressione. Pressione che proviene da dentro al corpo, si muove verso il fuori e non trova un limite che la contenga, come invece accade nella repressione – sottomettere il gesto di ribellione – o nella depressione: vero e proprio affondamento dello spirito.

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Passare all’atto è imparentato con il dissenso, o, in molti casi, la ribellione. I libri intitolati Ribellarsi è giusto sono molteplici: le conversazioni di Jean-Paul Sartre con Philppe Gavi e Pierre Victor, per Pgreco; il libro di Massimo Ottolenghi, per Chiarelettere; quello di Alain Badiou, sul Sessantotto parigino per Orthotes; un’antologia sulla disobbedienza civile per le edizioni dell’Asino e forse altri ancora.

In psicoanalisi invece il passaggio all’atto rimane a lungo oggetto di squalifica: disdicevole, perverso, impulsivo, almeno finché due autori – Woody Allen e Michel Foucault – trasformano questo anatema in satira. Woody Allen lo fa in Anything Else, quando mostra il giovane Jerry Falk, interpretato da Jason Biggs, che decidere di abbandonare New York per andare a lavorare a Los Angeles. Quando lo comunica dal lettino, l’analista – sempre silenzioso – reagisce per la prima volta sconsigliandolo di fare un agito. 

Durante una conferenza a Berkeley Michel Foucault ricorda una vicenda che si trova in un’opera satirica di Luciano: l’incontro tra Licinio e l’amico Ermotimo, che rimugina durante il cammino. Alla richiesta in merito al suo rimuginare, Ermotimo risponde che da anni si reca dal proprio maestro e che deve continuare a recarvisi, benché sia sull’orlo della rovina. Foucault aggiunge, tra l’ilarità del pubblico, che un tempo queste pratiche le esercitavano persone chiamate filosofi, mentre ora le esercitano altri, di cui Foucault dice di non ricordare il nome, riferendosi chiaramente alla psicoanalisi freudiana.

Insomma, a partire dagli anni Ottanta l’anatema psicoanalitico verso gli agiti diventa ridicolo e entra in una tale crisi da modificare le pratiche psicoterapeutiche. Una vera e propria mutazione della psicoanalisi, una rivolta dell’analizzante, un’impazienza del paziente che, forse, comincia con la pubblicazione su Les Temps Modernes dell’alterco tra Jean-Jacques Abrahams e il suo analista, per via dell’introduzione di un magnetofono da parte di Abrahams nel setting. Un agito intollerabile, un vero e proprio sequestro di persona. Verrà pubblicato da Jean-Paul Sartre, contro il parere di Jean-Bertrand Pontalis e di altri. L’evento è rievocato da una monografia curata da Giacomo Conserva, Enrico Valtellina e da me per Ombre Corte, Un singolare gatto selvatico, lemma usato da Elvio Fachinelli per definire la presenza del registratore nella stanza dell’analista. L’agito, per la psicoanalisi classica, è rappresentabile come presenza di un gatto selvatico nel setting: sconvolgente, inatteso, perverso. Fachinelli capovolge la questione della violenza in questi termini: se il gesto di Abrahams è palesemente violento, quanta violenza nascosta è presente nella relazione terapeutica o, se vogliamo, nel gesto della cura?

Qui Fachinelli precede Stiegler e Bismuth nell’arte di ripensare il passaggio all’atto: si può passare all’atto con un gesto di ribellione singolare, come nel caso Abrahams, o collettivo; si può passare all’atto con un gesto di creazione, come nelle pratiche artistiche, di concettualizzazione o di scoperta, come nella filosofia e nella scienza. Ma la stessa pratica psicoterapeutica, o psicoanalitica, non è in sé un gesto? Un passaggio all’atto? 

Il passaggio all’atto è il contrario dell’inibizione, ha una componente erotica fondamentale.

Bismuth cita questo passo, tratto da Inibizione, sintomo e angoscia di Freud: “se la scrittura – che consiste nel far colare del liquido su un foglio di carta bianco – assume la significazione simbolica del coito, o se il cammino diventa sostituto del calpestio del corpo sulla terra madre, allora la scrittura e il cammino sono entrambi abbandonati, perché è come se si eseguisse l’atto sessuale vietato. L’io rinuncia alle funzioni che gli [Freud pensa al maschile] spettano per non dover operare una nuova rimozione, per schivare un nuovo conflitto con l’Es”. 

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L’inibizione è oggi un sintomo in declino. Nell’inibizione ci sono sentimenti del pudore e della cautela, timore di venire giudicati negativamente, di fare brutta figura. L’inibizione era, un tempo, uno dei sentimenti di protezione dall’angoscia, aveva a che fare con il rispetto. Questa fu – almeno fino alla seconda metà del Novecento – l’epoca delle nevrosi. 

Fino ad allora le nevrosi erano sintomi di normalità, si accompagnavano a quel periodo della storia di lunga durata definito e studiato da Norbert Elias come processo di civilizzazione. La civiltà delle buone maniere aveva due aspetti, quello della sottomissione e quello del contenimento delle passioni. In quel contesto nasce e si diffonde la psicoanalisi, pratica di cura delle nevrosi, ed Elias si chiede se sia un avanzamento nel processo di civilizzazione o un cambiamento di rotta. Sappiamo che il pensiero psicoanalitico classico si dichiarò impotente riguardo alle psicosi, definite gravi disordini mentali: quando l’Io entra in conflitto con l’Es, ne viene distrutto. Ma quale io? Un io che, per via delle buone maniere, rinuncia a camminare, a scrivere, ad agire. In un’espressione tratta dal testo freudiano: rinuncia al coito, si ritira davanti al corpo, lo incontra come un ostacolo. Questo io non rischia senza avere sicurezze. 

E se le sicurezze vanno perdute? 

Oggi, insieme alle nevrosi, è in declino la psicoanalisi. Attraverso un dispositivo rigoroso si chiede la sottomissione del soggetto alle regole del setting, principio trascendente al quale si subordina anche l’analista. Ma che accade se il soggetto in terapia pratica insubordinazione? Dalla vicenda Abrahams in poi, questa psicoanalisi, che nasce nel mondo anglosassone, sulla scorta di una traduzione moralista di Freud è oggetto di satira, un po’ come la filosofia divenne oggetto della satira di Aristofane. E sappiamo che la satira è la forma narrativa dell’inverno e della morte.

Oggi la nevrosi, e il suo sistema di cura, sono in crisi. Il sintomo contemporaneo più diffuso non è l’inibizione, ma l’impulsività. L’impulsività non è il contrario dell’inibizione. 

Così come l’inibizione aveva il proprio lato positivo nel rispetto e nella cautela, l’impulsività presenta l’urlo, la protesta e l’intuizione, quando l’intuizione è il coraggio di manifestare dissenso. 

Così come sull’inibizione, anche sull’impulsività è necessaria una riflessione modale. 

Passare all’atto si può fare con un assassinio efferato – come in Medea, nelle sorelle Papin e nei recenti omicidi senza ragione a Terno d’Isola e Paderno Dugnano – ma anche con la scrittura, le pratiche artistiche, la ricerca verace. 

Lea Bismuth propone di riflettere intorno al passaggio all’atto, di farne un’arte, qualcosa da imparare. Riflettere sullo spazio e il tempo di questo passaggio, non darlo per scontato. Passare all’atto è creare qualcosa che prima non c’era. Le autrici e gli autori chiamati in causa sono diversi: Marguerite Duras – l’opera di Duras testimonia le forme dell’omicidio femminile –, Stiegler, Proust, Roland Barthes, Patrice Loraux, Deleuze, Foucault, Hélène Cixous, Georges Bataille, Susan Sontag. 

I temi del passare all’atto variano dall’infanticidio e la rapina, alla scrittura e creazione di concetti. 

Bismuth dedica un intero capitolo alla vita straordinaria di Stiegler, figura chiave nella sua opera. 

Stiegler diventa filosofo dopo essere stato rapinatore. Studia in carcere e, dopo la pena, diviene uno dei più importanti filosofi francesi, erede di Gilbert Simondon, l’autore che, insieme a Norbert Wiener, ha avuto la capacità di pensare filosoficamente la tecnologia. Stiegler trasforma l’atto della rapina nell’atto della scrittura filosofica durante gli anni del carcere; è uno dei casi, rari e singolari in cui il carcere svolge la funzione dichiarata: riabilitare e ridare dignità al reo. Ma perché ciò accada è necessaria l’azione del soggetto, la decisione di introdurre una discontinuità temporale. Non basta il dispositivo carcerario, che spesso spinge nella direzione opposta, ci vuole la disposizione ad agire diversamente. Con Stiegler si trasforma il cattivo passaggio all’atto, attraverso la rapina, nel buon modo di passare all’atto: la scrittura filosofica. 

Non si tratta di predicare il passaggio all’atto come liberazione in sé – del tipo: “fai l’amore che ti fa bene” o “uccidi il padre, poi starai meglio”. Si tratta di rendere modale l’atto, trasformarlo in gesto, in disposizione.

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