Speciale
Basaglia: non dire sempre sì
In un recente incontro presso la Casa della Cultura di Milano, Benedetto Saraceno ha portato un coraggioso intervento su Franco Basaglia, a cent’anni dalla sua nascita: Saraceno non ha presentato un Basaglia buono per tutte le stagioni psichiatriche, ma ha sottolineato la radicalità del suo pensiero, che – secondo lui – non consiste nel dichiarare l’inesistenza della “malattia mentale”, ma nel negare la consistenza della psichiatria come disciplina scientifica. Saraceno ha richiamato le origini teoriche di Basaglia, i suoi studi fenomenologici – a partire da Edmund Husserl e Maurice Merleau-Ponty –, ma anche il loro superamento a partire dalla lezione di Michel Foucault (del quale, per una strana coincidenza, ricorre quest’anno il quarantesimo dalla scomparsa): se l’eredità della fenomenologia è uno sguardo umano sul paziente psichiatrico, è con Foucault che il discorso si sposta dalla teoria alle pratiche: il rapporto tra un sistema di enunciati e un sistema di visibilità. La fenomenologia rimane dunque sul terreno illuminista della comprensione, mentre le pratiche richiedono di prendere posizione, di sporcarsi le mani, di assumersi responsabilità sociali. Per comprendere le contraddizioni interne alle pratiche clinico-sociali avviate da Franco Basaglia è utile una raccolta di inediti uscita per Donzelli, Fare l’impossibile (tra gli inediti raccolti “L’antipsichiatria”, “Il fantasma dell’autorità” e “Donne, psichiatria, potere”). Nella lunga introduzione la curatrice del volume Marica Setaro spiega la storia e le ragioni della sua ricerca, sviscerando le contraddizioni dell’esperienza della democratizzazione della psichiatria che Franco Basaglia, Franca Ongaro, Michele Risso, Letizia Comba e molti altri operatori della salute mentale – medici, psicologi, filosofi, sociologi e antropologi – hanno condotto negli anni Sessanta e Settanta.
Questa democratizzazione, o – come scriverebbero Albert Camus e Mario Galzigna – questa “rivolta del pensiero”, prende avvio nel 1961 con una serie di riflessioni torrenziali che confluiscono in un unico grande fiume in piena: Storia della follia di Michel Foucault, Il mito della malattia mentale di Thomas Szasz, Asylum di Ervin Goffman, Le matrici sociali della psichiatria di Gregory Bateson e Jurgen Ruesh, le pratiche di Comunità terapeutica di Maxwell Jones, l’esperienza di Kingsley Hall di Ronald Laing, Gorizia e tutta l’opera di Basaglia nel paese e nel mondo.
L’opera di Basaglia – insieme a quella di Foucault – è, senza dubbio, il maggiore tra i lasciti di questo grande fiume della coscienza etica e politica del mondo occidentale. Di Basaglia e su Basaglia è stato pubblicato tutto il possibile e ancor più. Basaglia è – insieme ad Antonio Gramsci, Primo Levi e Pierpaolo Pasolini – il più importante pensatore dissidente che l’Italia abbia espresso nel Novecento.
Il piccolo volume curato da Setaro ha grande importanza nel farci vivere – o rivivere per chi da giovane ha attraversato quegli anni – la contraddizione interna alla terapia. “Ancora campeggia in rosso lungo i muri di Trieste: la libertà è terapeutica”, scrivo paragrafando Setaro. Dentro e lungo questo grande fiume della coscienza etica e politica si immergono almeno due tipi di correnti, e forse più di due, tra loro contraddittorie.
C’è un accordo comune: la situazione psichiatrica manicomiale è fallimentare, produce universi concentrazionari intollerabili, peggiora la condizione esistenziale di chi ne è vittima. Il trattamento delle persone in cura psichiatrica è stato, per lo più, disumano e lesivo del diritto al corpo della persona: l’habeas corpus.
Il dissidio consiste in ciò: che tipo di cambiamento operare per trasformare il sistema di cura di ciò che Foucault ha chiamato – recuperando questo termine da Erasmo – follia. Ecco allora la diatriba intorno alla psicoterapia: la psicoanalisi e la terapia familiare. Autori come Nathan Ackerman, Ronald Laing e Gregory Bateson contribuiscono a favorire l’intervento familiare in sostituzione o alternativa al ricovero del paziente designato. La definizione stessa di paziente designato mostra l’idea che la patologia psichica sia la risultante di giochi familiari, in analogia con quanto era emerso nelle riflessioni di autori marxisti come Max Horkheimer, Erich Fromm ed Herbert Marcuse negli Studi sull’autorità e la famiglia.
Tuttavia alcuni autori – come Gilles Deleuze e Felix Guattari – ritenevano che questo approccio familistico – comune alle teorie psicoanalitiche e alla terapia familiare – fosse riduttivo e non permettesse di pensare ai riferimenti sociali, culturali, religiosi ed etnici di un fenomeno come la schizofrenia, allora conosciuta come la più grave delle malattie mentali. Il problema chiave diventa il seguente: che significa, per una persona folle, guarire? Si tratta di integrare i disadattati alla riproduzione sociale, senza mettere in questione le richieste della società ai soggetti? Oppure la questione del “mito della malattia mentale”, come aveva sostenuto lo psichiatra Thomas Szasz, è complessa e irriducibile al discorso medico-sanitario?
Per rispondere a questo dilemma, dobbiamo inquadrarlo dentro il contesto storico dell’epoca in cui sorge: durante gli anni del secondo dopoguerra c’erano due blocchi e, mentre chi viveva nel blocco comunista sognava la liberazione capitalista e democratica, chi viveva nel blocco democratico sognava la rivoluzione socialista e libertaria.
In entrambe le spinte al cambiamento la follia non veniva contemplata. Era, da una parte e dall’altra, una forma del dissenso così radicale da mettere in questione le categorie del pensiero razionale e la politica non poteva fare a meno della razionalità. Ricordo un paziente romeno che mi raccontava di come l’ascolto clandestino delle radio occidentali gli faceva pensare a quel mondo come al comunismo così come lo aveva descritto Karl Marx: “da ognuno secondo le proprie possibilità, a ognuno secondo i propri bisogni”. Viceversa, in occidente si pensava che questo avrebbe dovuto essere l’obiettivo finale di una rivoluzione che liberasse l’umanità dal giogo capitalistico.
La psicoterapia, che fosse psicoanalisi o terapia familiare, veniva vissuta come una pratica di subordinazione, di assoggettamento, integrazione e adattamento a una società ingiusta e oppressiva. Serviva a rendere docili soggetti sociali potenzialmente rivoluzionari. Il modello anglosassone sembrava sbilanciato in due direzioni opposte: l’approccio anti-istituzionale separato – come l’utopia di Kingsley Hall a Londra, con Ronald Laing – oppure l’approccio psicoterapeutico strategico di adattamento del soggetto all’esistente, come nelle attuali integrazioni tra terapie comportamentali e farmacologiche, tese al controllo sociale delle devianze.
Il testo “Il fantasma dell’autorità” contiene un dibattito inedito tra Franco Basaglia, Franca Ongaro, Michele Risso e altri. Spicca la figura chiave di Michele Risso, uno psicoanalista sui generis, che assume, a Trieste, il ruolo chiave di consulente esterno. Si tratta di un testo sofferto, che aiuta a capire il dramma del permanere dentro la contraddizione tra la rivoluzione e la cura, la protesta e la tenerezza, la voglia di cambiare e il rispetto di ognuno: pazienti, infermieri, giovani medici, primari. Si trattava del cambiamento più difficile: quello delle abitudini quotidiane alla ripetizione di gesti di dominio e di sottomissione, di abuso e corruzione, di invidia e incomprensione che allignano dentro ad ogni istituzione. Il conflitto che emerge dalla lettura di quelle pagine mostra un Franco Basaglia inquieto, che sente il peso delle responsabilità di quanto aveva avviato e doveva continuare, un Michele Risso che prova, in tutti i modi, a definire il proprio ruolo di consulente esterno e una Franca Ongaro che prova a mediare e a ragionare sulla complessità dello star dentro la contraddizione, senza uscirne: come fare terapia senza autorità.
Compito contemporaneamente impossibile e necessario.
L’ultimo testo del volumetto, “Donne psichiatria e potere” fa invece emergere il ruolo della psicologa Letizia Comba, che in L’istituzione negata, si era occupata della questione femminile nel manicomio: l’ultimo reparto a venire chiuso. Infatti il dattiloscritto è conservato presso l’archivio di Letizia Comba, benché sia stato scritto da Basaglia.
Risso e Comba erano entrambi reduci della straordinaria esperienza etnografica di Ernesto De Martino con le donne tarantate in Puglia, entrambi avevano uno sguardo antropologico intorno alla follia che andava ben oltre il desiderio di controllo sociale messo in atto dalla psichiatria a partire dalla fine del secolo XVIII. Questo sguardo antropologico, etnografico, radicalmente assente dal mondo psi, segna la differenza. Si tratta dell’atteggiamento di curiosità descritto da Gianfranco Cecchin in Irriverenza, una strategia di sopravvivenza per i terapeuti.
Qui emerge, a partire da una riflessione sulle donne, la critica più radicale di Franco Basaglia all’integrazionismo terapeutico:
Il nuovo psichiatra sociale, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo industriale (per non citarne che alcuni) non sono che i nuovi amministratori della violenza del potere, nella misura in cui – ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle sue istituzioni – non fanno che consentire con la loro azione tecnica, apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale.
Il testo continua con lo stesso tono, la stessa radicalità, e non mette in questione solo l’istituzione manicomiale che, se si vuole, era già arcaica e anacronistica. Questo testo, come tutta l’opera di Franco Basaglia – in sintonia con l’opera di Michel Foucault – mette in questione l’istituzione carceraria, giuridica, scolastica, accademica, ospedaliera, familiare. L’istituzione come struttura gerarchica tesa a trasformare le potenzialità umane emergenti dalla devianza in forme gregarie di sottomissione al potere.
Si tratta di imparare a non dire sempre sì.