Da Edison alla musica in streaming / Alla ricerca del suono perfetto
Un uomo avvicina a una fonte di calore un cilindro per ammorbidire la cera speciale che lo ricopre. Un secondo uomo, seduto davanti alla sorta di padiglione conico che tra poco raccoglierà le sue parole, aspetta che la cera sia alla consistenza giusta, né troppo dura né troppo molle. Quando il cilindro è pronto, il primo uomo lo pone nel fonografo e mette in movimento il meccanismo, il cilindro inizia a ruotare. Dopo una breve introduzione nella quale enuncia la data, l'ora e la ragione di quella incisione, il primo uomo fa segno al secondo che può cominciare a parlare. Questi inizia, un po’ intimidito, con lo spiegare, anche lui, le ragioni della sua presenza e del perché di quella registrazione, poi, più a suo agio, canta una canzone ricordo d’infanzia. Dopo qualche minuto l'uomo tace, l’incisione è finita.
Il primo uomo spegne la macchina, toglie il cilindro dal suo loculo e lo pulisce dai piccoli trucioli di cera che lo ricoprono, residuo del lavoro d'incisione dello stilo. «E adesso sentiamo com'è venuta», dice.
Riaccende la macchina, ripone il cilindro nel loculo e abbassa lo stilo. Adesso la voce esce dal cono metallico attraverso il quale poco prima era entrata. Dopo un primo momento di sorpresa, il secondo uomo esclama stupefatto: «è venuta bene, eccome!».
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non siamo all'inizio del secolo scorso, ma solo qualche anno fa a Long Island, vicino a New York: il primo uomo, colui che fa funzionare il fonografo, una macchina Edison del 1889, è Peter Dilg, ingegnere del suono e collezionista; il secondo uomo non è altro che l’autore di Alla ricerca del suono perfetto, Glen Milner, che ci racconta questa sua esperienza alla fine dell’ultimo capitolo del suo libro.
Nelle stesse pagine Milner sottolinea la particolare specificità della voce e la sua ‘affettività’ tanto che la sua «registrazione potrebbe anche rivelarsi come l’ultimo gesto narcisistico». Ma la registrazione della propria voce permette ad ognuno di ascoltare ciò che « non ha mai potuto veramente ascoltare al di fuori di sé», dice Milner. «In un certo senso, è un po’ come registrare l’anima» aggiunge Dilg.
Lo si era già intuito durante la lettura, ma per Milner, partito alla ricerca del suono perfetto, e nonostante queste precisazioni riguardo alle particolarità della voce, quest’esperienza di registrazione riuscita raccontata proprio alla fine del libro, suona un po’ come la sua personale conclusione. Stando alla sua esperienza, il metodo puramente meccanico di registrazione, almeno per la voce, è il più efficace. «Questo lo hai inciso tu, questo sei tu» gli dice Dilg porgendogli il cilindro.
Prima però di arrivare a questa conclusione, nelle 400 pagine che precedono, Glen Milner ci ha raccontato con grande diligenza e profusione di particolari la storia, da Edison alla musica in streaming, dei tentativi di registrare e riprodurre il suono, attraverso i personaggi e le macchine che questi hanno inventato, come pure le ragioni, alcune puramente scientifiche altre molto più venali, che li hanno spinti a quelle invenzioni.
Oggi è un'evidenza dire che in poco meno di 140 anni, dal 1877 ad oggi, la scoperta e la realizzazione delle tecnologie che hanno permesso la registrazione e la riproduzione del suono hanno profondamente cambiato non solo il nostro modo di ascoltare, ma anche il nostro rapporto alla musica e al suono in generale.
Il cambiamento è stato talmente importante che dagli anni cinquanta del secolo scorso, ad eccezione forse dei musicisti professionisti, la maggioranza delle persone hanno certamente ascoltato più musica registrata che non musica dal vivo. Vale a dire che maggioritariamente, per non dire quasi sempre, il nostro ascolto musicale è stato un ascolto domestico reso possibile grazie e tramite un supporto (in ordine cronologico : vinile, radio, nastro magnetico, CD ed ora mp3 o altri formati digitali).
Così l'evento sonoro ascoltato non solo poteva aver avuto luogo molti anni prima, ma era anche stato organizzato e pensato proprio per un ascolto in 'differita'. Qualcuno aveva organizzato, aveva 'composto', quei suoni, li aveva registrati su di un supporto e si era occupato di commercializzarli prima che arrivassero alle nostre orecchie.
Dalla metà del XX secolo la musica è stata sempre più presente nella vita di tutti i giorni, prima grazie alla radio poi, col ridursi dei prezzi e con l’emergere di un ‘nuovo’ pubblico giovanile, grazie alla diffusione del vinile e della cassetta registrabile che permetteva la duplicazione e lo scambio tra amici delle proprie scelte musicali, fino alle attuali abitudini d’ascolto in streaming. Questa sorta di banalizzazione della presenza della musica nella nostra vita quotidiana ha fatto evolvere anche il nostro ascolto, che da attento e concentrato per non perdere la rarità dell'avvenimento, è diventato sempre più spesso distratto e impaziente. Quante persone oggi si siedono e prendono il tempo di ascoltare? E quante invece mentre ascoltano fanno altro? Così che, come dice Milner, uno degli effetti di questa presenza sempre più frequente della musica registrata è che «la musica dal vivo viene percepita attraverso il prisma di quella registrata».
Questa del suono registrato è una storia complessa, ricca di personaggi dalle salde convinzioni e di inventori lungimiranti, ma anche di soldi, perché l'industria non è mai molto lontana. Comunque sia, è grazie alle macchine che questi personaggi hanno realizzato e alle idee che hanno permesso concettualmente la loro creazione che il nostro mondo sonoro è diventato ciò che oggi è.
Tutto comincia con Edison (e con Charles Cros e con Èdouard de Martinville e diversi altri personaggi che a metà ottocento hanno cercato di 'catturare' il suono, Edison è il primo a realizzare e a brevettare la sua idea) e con l'idea che le onde sonore possano essere trasformate prima in movimento meccanico, poi che un oggetto mosso da questo movimento possa incidere una superficie in modo duraturo.
In questo modo il 'movimento' del suono si troverebbe come imprigionato e fissato nella materia, i solchi così ottenuti riprodurrebbero la sua evoluzione temporale, come fosse il suono stesso ad incidere la superficie. Ma, soprattutto, il processo è reversibile perché a partire da quei solchi, percorrendo la strada inversa, possiamo ritrovare e riascoltare i suoni che li hanno prodotti.
Questa è l'utopia di partenza che, per il semplice fatto di documentare ciò che non c'è più, socchiude la porta a tante idee e metafore, dalle più prosaiche alle più 'misteriche'. Come quella di pensare (Marconi, ad esempio) che la materia conservasse comunque una traccia degli avvenimenti sonori passati e che con adeguati strumenti quei suoni si potessero riascoltare. O di credere possibile (Edison), proprio grazie al fonografo, una comunicazione coi morti. Il suono non si vede («simbolo supremo dell’evanescenza» dice Milner) ed è forse per questo che, come le onde elettromagnetiche, conserva questo alone di mistero ed è anche forse per questo che lo si è voluto costringere su di un supporto. In realtà, molto più prosaicamente, è la captazione delle variazioni della pressione dell'aria generate dalle onde sonore che permette la ‘traduzione’ dal suono in movimento meccanico e, viceversa, è il movimento meccanico che generando delle variazioni nella pressione dell’aria torna ad essere di nuovo onda sonora, suono.
Ma Edison oltre ad essere un inventore geniale era anche un uomo d'affari e le sue invenzioni voleva venderle. Così il fonografo che di per sé non soddisfa bisogni essenziali, come ad esempio la lampadina, in un primo momento era stato pensato come supporto per stenografi, per 'catturare' la voce, e solo in un secondo momento Edison lo concepirà come «mezzo per documentare le interpretazioni musicali» offrendo così la possibilità di «una rappresentazione del reale». Ma all’inizio del XX secolo l'aspetto commerciale prese il sopravvento sull'aspetto scientifico, di conoscenza. Un esempio evidente sono i tone test organizzati tra il 1915 e il 1925, nei quali il fonografo veniva presentato a un pubblico curioso e al quale si prometteva la dimostrazione della capacità di queste macchine a uguagliare, quanto meno, le qualità della voce umana.
Effettivamente sul palcoscenico c’erano un Diamond Disc Phonograph di Edison e un cantante, il cantante eseguiva un’aria che era registrata e poi ‘eseguita’ dal fonografo. L’idea era di dimostrare che la qualità di riproduzione del suono del fonografo era equivalente alla qualità canora del cantante, che nel passaggio dall’uno all’altro non c’erano perdite di qualità e che quindi il fonografo poteva ‘sostituire’ il cantante. È come avere il cantante tutto per sé a casa propria, avrebbe potuto affermare la pubblicità. «In pratica, però, l’esperimento assumeva il suono dell’apparecchio come riferimento, confinando entro limiti così definiti il suono 'reale'», era cioè il cantante che adattava la propria esecuzione alle qualità ‘canore’ del fonografo, tanto che era richiesto «uno sforzo tangibile agli esecutori, al fine di mantenere intatta l’illusione che fosse la macchina a prevalere», come hanno poi confessato, anni dopo, alcuni partecipanti.
Comunque sia, poco alla volta, durante tutti gli anni venti e trenta, il disco si diffonde vuoi per la voglia di novità stuzzicata dalla pubblicità, vuoi per la ‘voglia di musica’ della gente, per la possibilità di un ascolto individuale e domestico, senza bisogno dell’intervento di musicisti in carne e ossa (tanto che, negli anni seguenti, l’uso dei dischi nelle trasmissioni radiofoniche sarà causa di scioperi organizzati dai sindacati dei musicisti). Ma anche per l’interesse dell’industria discografica che scopre così un mercato completamente vergine. E col diffondersi dei dischi e degli apparecchi di riproduzione, con la loro presenza sempre più importante nella vita quotidiana, con la loro banalizzazione, le registrazioni sonore acquistano una propria autonomia e realtà. Tanto da poter permettere a Milner di affermare che «d’ora in poi, le registrazioni non avrebbero suonato come il mondo reale: il mondo avrebbe suonato come le registrazioni».
Questo è il primo grande cambiamento generato dal disco : l’abitudine crea una nuova realtà e il cervello che ‘controlla’ e certifica secondo la propria esperienza acquisita e le proprie leggi ciò che l’orecchio ode, integra la nuova realtà, l’ascolto si adatta a questa nuova realtà. La 'rappresentazione' del suono diventa il suono.
È in questi stessi anni della diffusione del fonografo che l'uso dell'elettricità diventa sempre più presente in ogni aspetto sia dell'industria che della vita quotidiana. Ed è così anche nelle tecnologie legate al fonografo. In particolare l'uso dell'elettricità ha reso possibile l'amplificazione del suono registrato rendendolo più 'potente'.
Nel contempo, l'amplificazione del segnale inciso è anche la prima possibilità d'intervento sul suono, per la prima volta si può modificare ciò che ha avuto luogo. Ed è proprio contro questa possibilità di modificare ciò che è stato che si opporranno i 'puristi' sostenendo la fedeltà all'originale, la purezza, del metodo meccanico. Adesso le onde sonore da elemento naturale ed unico 'responsabile' del risultato, diventano solo uno degli elementi costitutivi. Il risultato finale diventa il prodotto della somma di più elementi, alcuni costitutivi del suono, altri esterni ad esso.
Così l'amplificazione del segnale è stato il primo di tutta una serie di interventi e manipolazioni sul suono che permettono la creazione di un nuovo oggetto sonoro. Questa ’ingerenza’ nel suono sarà ancora più facile dai primi anni cinquanta con la messa a punto del nastro magnetico che sarà, fino all'avvento della digitalizzazione del suono negli anni ottanta, il supporto sul quale si effettuerà ogni master. In altre parole il nastro magnetico sarà il passaggio obbligato tra la registrazione dell'evento sonoro e la sua commercializzazione su vinile e sarà su questo supporto che si effettueranno tutte la modificazioni che il produttore o l'ingegnere del suono riterranno indispensabili per il successo, commerciale, ma non solo, del risultato.
Le sedute di registrazione oramai si effettuano per lo più in appositi locali, lo studio di registrazione appunto, equipaggiati con tutta una serie di apparecchiature concepite per arricchire o modificare il suono. I musicisti possono registrare le loro parti separatamente e ripeterle tante volte quanto vogliono su nastri magnetici che vedono aumentare le tracce, cioè le 'linee' a disposizione per il mixaggio finale, in modo esponenziale (4, 8, 16 …). Saranno poi l'ingegnere del suono e il produttore a rimontare il tutto e a scegliere quelle che giudicheranno essere le migliori e che diventeranno il risultato.
Sono il nastro magnetico e lo studio di registrazione che hanno permesso, grazie al montaggio e alla ripetizione delle prese, la realizzazione delle esecuzioni di Glenn Gould.
Siamo lontani dalle prime registrazioni effettuate in un’unica presa che conservavano così un'unità di tempo e di luogo. Non c'è più e solo il 'qui ed ora', l'irripetibilità del momento, con la 'presenza' connessa a questa 'unicità', vale a dire l'ambiente col suo rumore di fondo, il momento e la situazione particolare in cui la registrazione è stata effettuata, ma è ora possibile correggere, dilatare i tempi, smontare e rimontare ciò che è stato fatto. E tutto ciò con la possibilità di ridurre, nei casi estremi, il musicista a semplice produttore di una materia prima da manipolare ed eventualmente riplasmare. Il suono registrato cambia di natura, da fluire del tempo diventa materiale manipolabile.
Lo studio di registrazione, per la sua complessità, diventa sempre più come uno strumento di cui pochi conoscono le istruzioni per l'uso, è sempre di più il tempio dell'ingegnere del suono e del produttore, che per certi aspetti possono essere considerati come i rappresentanti dell'industria discografica.
Se lo studio di registrazione diventa sempre più complesso, anche gli apparecchi di riproduzione diventano sempre più sofisticati. Grazie anche alla 'tecnofilia' degli anni cinquanta e sessanta e alla rapidità dell'industria discografica a sfornare sempre nuovi prodotti di cui si vanta, rispetto ai modelli precedenti, la superiore fedeltà all’esecuzione originale, assistiamo a una vera corsa all'Alta Fedeltà con in parallelo la produzione di dischi, ora chicche per collezionisti, creati solo per tarare queste apparecchiature.
Questa corsa rallenta alla fine degli anni sessanta a causa della separazione in due del mercato con una, ristretta, fascia alta con prezzi elevati ed una fascia bassa, largamente maggioritaria, rivolta ad un pubblico di giovani, amanti del rock, che accettano più facilmente una qualità inferiore, un po' perché non si preoccupano tanto della qualità del suono quanto piuttosto dell'energia o della sincerità che questo veicola e un po' perché, grazie soprattutto alla radio, si sono 'abituati' a un certo standard sonoro che non è più quello 'sofisticato' della generazione precedente.
Questa assuefazione alle manipolazioni del suono e all'ascolto del suono riprodotto, in un certo senso, rendono possibile e accettabile il passaggio dall'analogico al digitale, il passaggio dal vinile al CD, nel senso che il passaggio al digitale non è altro che una tappa supplementare nella tendenza già affermata ad accettare una riproduzione del suono sempre più 'astratta'.
Se con le tecniche precedenti di registrazione, sia nella registrazione meccanica che in quella con nastro magnetico, era un fenomeno fisico concreto che, nonostante le eventuali manipolazioni, attraverso il movimento dello stilo o le variazioni elettromagnetiche sulla superficie del nastro realizzava la copia dell'originale (come un pantografo che riproduce una forma), ora nella registrazione digitale questo legame di concretezza con l'originale manca completamente. O meglio, l'originale è ricostruito attraverso una successione di zero e di uno. Nella digitalizzazione del suono non si manipolano più suoni o la ‘traccia’, sia essa meccanica o elettromagnetica, che questi hanno lasciato, ma quantità numeriche che poi saranno tradotte in suoni.
Semplificando all’estremo possiamo dire che il suono analogico è rappresentabile con una linea curva che il suono digitale cerca di riprodurre ‘numerizzando’ la maggior quantità possibile di momenti corrispondenti a punti della curva, per poi collegarli tra di loro. Tenendo conto però solo dell'ampiezza di questa curva, non della sua frequenza che sarà determinata a 'ricostruzione' finita. Solo che con questo procedimento la curva ottenuta non sarà più una curva ma una successione di piccole rette che legano un punto all'altro. Più i punti sono numerosi e più la successione delle rette assomiglierà a una curva senza però mai esserlo veramente. Così come possiamo percepire, a causa dei limiti fisici del nostro occhio, questa quasi curva come una vera curva, così 'grazie' ai limiti fisici del nostro orecchio possiamo udirla come una curva, cioè come un suono continuo. In questo modo però perdiamo il legame 'naturale' e concreto tra i suoni d'origine e la loro riproduzione. Il marketing del CD degli anni ottanta era basato, come quello dei dischi di Edison, sulla promessa di una riproduzione perfetta del suono e questo suono era vantato come perfetto proprio perché digitale. La qualità sonora del CD sarebbe superiore perché la sintesi digitale e il sistema di lettura eliminerebbero ogni distorsione dovuta al sistema di lettura meccanico. Se è vero che il sistema di lettura digitale genera molte meno perdite nel segnale di quello meccanico, abbiamo visto però che la sintesi digitale può essere considerata come fedele all'originale solo per convenzione, e percepita come tale solo grazie all'imperfezione delle nostre orecchie.
Uno dei vantaggi del digitale è il perfezionamento della gamma dinamica, vale a dire la possibilità di ottenere un suono di maggiore potenza, capace così di imporsi sugli altri suoni, di essere al di sopra degli altri suoni. Capace quindi di superare la barriera del rumore di fondo generato dalla saturazione sonora del nostro quotidiano. Questo ‘in più’ di volume è ottenuto con la compressione del suono, resa estremamente più facile, come le altre trasformazioni fisiche del suono, grazie alla capacità di calcolo di computer sempre più potenti, e si è tradotto in quella che Milner chiama la loudness war : una «brama di potenza» che, dalla radio ai concerti, deborda nella vita quotidiana e non sempre solo per scelta estetica.
Praticamente questa compressione del segnale viene ottenuta variando la scala dei valori di riferimento. Il decibel (dB) è l’unità di misura della potenza dell’intensità sonora, ma «un decibel non possiede un valore intrinseco, dipende dal contesto, si tratta soltanto di un sistema per confrontare un valore con un altro … 0 dB non si riferisce al silenzio assoluto, bensì indica il suono con cui tutti gli altri vengono messi a confronto, il livello zero». La compressione consiste nell'alzare questo punto zero in modo che il segnale sonoro possa « approfittare di quella piccola spinta aggiuntiva grazie alla quale la musica suonata a volume ridotto sembrerà suonare più pienamente». E approfitta anche della specificità della psicoacustica secondo la quale, dice Milner citando lo studioso Llewelyn Lloyd, l'intensità è «correlata agli eventi sonori che ci circondano», ma il volume «esiste soltanto nella nostra testa». «L’intensità è un valore oggettivo misurabile, ma non altrettanto il concetto di volume. Due suoni con medesima intensità non suoneranno necessariamente altrettanto forte al nostro orecchio, questo perché non 'sentiamo' l’intensità. È l’intensità di un suono a determinare la vibrazione del timpano nel nostro sistema uditivo ma, a partire dal momento in cui questa viene tradotta nella coclea in impulsi nervosi indirizzati poi al cervello, la dimensione magica e fantastica della psicoacustica prende il sopravvento». Queste affermazioni ci permettono di sottolineare la 'relatività' dell'ascolto, il suo essere personale, individuale, e inoltre che la percezione della 'potenza' sonora è in relazione a ciò che precede e a ciò che segue, dipende dal contesto e dalla memoria che ha il nostro cervello di precedenti esperienze di livelli di volume. Aumentando il volume medio dei suoni quotidiani, la tendenza generale sarà anch'essa all'aumento, creando una spirale nella quale il grande sacrificato è il silenzio, che semplicemente svanisce. La musica perde così uno dei suoi elementi costitutivi, il silenzio che permette, attraverso una successione di pieni e di vuoti, la sua 'respirazione'.
Oggigiorno la tecnologia digitale continua a produrre una quantità di macchine (Synclavier, drum machine…) e programmi (Pro Tools, Digital Performer…) per creare o modificare suoni digitalizzati. E man mano che il pubblico si allarga, i prezzi diventano sempre più abbordabili. La democratizzazione di queste macchine e del CD ha permesso all'industria discografica, in un primo momento, un aumento importante del suo giro d'affari attraverso la riedizione in formato CD di quantità di vinili esauriti o semplicemente con qualche bonus in più, ma in un secondo momento ha aperto la via allo home studio e a tutte quelle pratiche odierne di produzione, riproduzione e fruizione di ogni tipo di musica (mp3, streaming ecc.) che adesso la stessa industria discografica cerca in qualche modo di arginare. Inoltre, il largo uso di queste macchine, ha generato una uniformizzazione dei risultati, come nel caso degli utilizzatori di Pro Tools, ad esempio, perché, usando tutti lo stesso programma, è un po' come se usassimo tutti lo stesso strumento, come se ci rifornissimo tutti presso la stessa 'banca sonora', ciò che di fatto Pro Tools è: un recipiente pieno di suoni, ma gli stessi per tutti.
Se devo trarre delle conclusioni dalla lettura del libro di Milner la prima è che, in ogni caso, la riproduzione perfetta del suono non esiste perché il suono non esiste di per sé, ma è sempre in uno spazio, il risultato è sempre il suono più lo spazio che lo circonda. Ciò che chiamiamo la 'presenza' di un suono, il suo essere là in quel determinato momento e luogo.
La seconda è l'importanza dell'ascolto. Il modo in cui Milner ci parla delle sue esperienza d'ascolto testimonia delle sua grande attenzione ai suoni emessi dai supporti sui quali è stato registrato. Attenzione d'ascolto che include anche la curiosità rispetto alle tecnologie usate nella sua riproduzione perché il risultato non è solo il suono prodotto più lo spazio in cui è stato prodotto, ma è anche la somma di questi e delle tecniche usate nella sua riproduzione.
Alla base quindi sta l'ascolto e l'essere curiosi, l'importante è ascoltare i suoni per quello che sono, non l'idea che potevamo avere di quei suoni. Il che dimostra come siano importanti i ricordi di ascolti passati, le abitudini di ascolto e come ci si può assuefare, se siamo troppo pigri per sbarazzarcene, a una certa qualità di suono. «Gli esseri umani hanno sviluppato l’abitudine all’ascolto di cose che non sono né 'pure', né perfette», dice Frank Foti uno dei maestri dell'elaborazione del suono per la radio, e questo è vero soprattutto oggi con la generalizzazione dell'ascolto su smartphone o computer. Milner ci presenta invece tutta la ricchezza e la varietà delle possibilità dell'ascolto, a condizione che si voglia prestare attenzione a ciò che si fa, all'azione di ascoltare. Dobbiamo imparare ad ascoltare con le nostre orecchie e il libro di Milner è un esempio flagrante di orecchie aperte.
In conclusione viene da chiedersi cosa può fare da trait d'union tra le 'variazioni della pressione dell'aria', i suoni che hanno prodotto i solchi del vinile o che sono all'origine del suono digitale del CD e le 'variazioni della pressione dell'aria', i suoni che risultano dalla lettura di quelle tracce. La risposta penso sia l'ascoltatore con la sua esperienza d'ascolto.
Consideriamo e ascoltiamo i suoni registrati per quello che sono, senza voler fare difficili se non impossibili paragoni coi suoni dal vivo, perché non si tratta di stabilire quale dei due sia meglio, ma piuttosto di prendere coscienza che si tratta di due esperienze diverse. Entrambe significative.